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XVIII°  Concorso  2019 SEZIONE ANTOLOGICA:
CHI SCRIVE di VITTORIO SANCHINI

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LE SCUOLE di URBINO

 

L'ASILO INFANTILE

 Comincio con l’asilo infantile che a tenor di logica e di pedagogia non dovrebbe essere una scuola vera e propria dispensatrice del "pane del sapere", ma lo cito in questo capitolo sia perchè mi interessa perchè l'ho frequentato quattro anni buoni, dai quattro ai sette anni di età sia perchè oltre essere "giardino d'infanzia" era anche scuola vera e propria perchè la terza e quarta sezione corrispondevano alla prima e seconda elementare, quindi mezzo asilo e mezza scuola.

All'Asilo Infantile"Lorenzo Valerio" (la denominazione gli fu data in omaggio al Commissario Governativo delle Marche, Lorenzo Valerio agli albori, del Risorgimento italiano ed al quale, sembra, si debba la istituzione dell'asilo) lo scrivente iniziò i suoi studi e mi è caro riandare con la memoria a quei primi ricordi della mia vita di... studente.  Il ricordo del mio ingresso all'asilo non è molto preciso.  Ecco: vedo mia nonna che mi ci accompagna.  Mi dice mirabilia dell'asilo dove a suo dire si gioca sempre; si mangia il riso che a me piaceva tanto.  E... chissà quante altre cose allegre mi avrà detto, fatto sta che quando essa mi consegnò a una delle maestre che conosceva personalmente ed alla quale mi raccomandò teneramente ed essa se ne andò ricordo molto bene che io mi misi a piangere, mi gettai a terra e chiamavo disperatamente la nonna.  La maestra dapprima cercò di prendermi alle buone ma vedendo inutili tutti i suoi sforzi mi regalò un paia di sculacciate. 

E, oh forze mirabili e... dolorose delle battiture! ricordo che mi ammansii e il resto non ricordo.  

C'é uno strappo nella mia memoria che io non riesco a riunire.  Nei giorni successivi (e come abbiano fatto mia nonna e mia madre a convincermi a ritornarci, proprio non lo so; avevo quattro anni e grazie se ricordo quel poco che sto raccontando) nei giorni successivi, dico, mi vedo in confuso in una stanzetta con altri marmocchi della mia stessa età.  Ricordo che la maestra, la signorina Elisa, ci fa contare un mucchietto di fagioli che ci aveva messo in tasca.  Un mio vicino, che ancora non riesce a pronunciar bene le parole, conta con disinvoltura:

«Uno, dude, te, catto, pimpe...»

Sarà forse effetto di immaginazione ma adesso mi par certo di sentire come allora quella vocina che giunto al "pimpe" non sapendo andare avanti diceva forte alla maestra: «Me cappa cacca» e senza attendere permesso alcuno infilava la porta e via di corsa al gabinetto...

Vedo ondeggiarmi dinnanzi vaghe ombre di persone addette ai servizi; c'era fra le altre un donnone che chiamavano Sunta del Mar (seppi poi che Mar era il marito che lei a casa sgranatava di santa ragione).  Ricordo la cuoca: la chiamavano Ribiscina che a cucinare era un disastro, solo brava a preparare l'intrisa per le galline.

Ricordo benissimo che io qualche volta venivo incaricato di qualche servizietto... Un giorno, durante la refezione, una maestra mi incaricò di andare in cucina per chiedere alla cuoca un mestolo (in dialetto: ramaiol).   Che cosa tartagliai io alla cuoca non posso dirlo, certo è che la cuoca non mi capiva e mi fece ripetere parecchie volte quel che volevo dicendomi:

«Ma cosa vuoi sbasoffione

Finalmente io perdo la pazienza e, avendo adocchiato un mestolo sopra una tavola, lo afferro e via di corsa a portarlo alla maestra.  Essa mi chiese conto del ritardo ed io risposi:

«Quella put...na non mi capiva.»

Ricevetti un manrovescio in piene labbra e questa fu il primo castigo... corporale che ricevetti da mano maestra.  Perchè non si pensi male dei discorsi dei miei genitori debbo dire che quella parolaccia la sentivo pronunciare spesso da Pinza che chiamava la sua pazza consorte con quel epiteto invece di chiamarla col suo vero nome che era Bibiana.  Si sa, i ragazzi fanno presto ad afferrare certi titoli specie quando questi hanno un sapore non del tutto corretto.

L'Asilo era diretto da un'anziana signora; distinta nelle apparenze ma niente affatto affettuosa, sempre accigliata, con due occhi da uccello rapace che faceva filare a bacchetta maestre e bidello ed incuteva in noi bimbi una paura da oli sant.  Ma non in tutti perchè essa aveva i suoi prediletti, di solito figli di persone di alto affare per i quali usava moine e parole buone che destavano l'invidia degli altri ragazzi, io compreso, che non ero nel bel numero dei privilegiati.  Dio che spavento quando la maestra di fronte alle nostre irrequietezze ci minacciava:

«Se non vi calmate vi mando dalla signora direttrice!»

Questa minaccia era il toccasana dell'ordine perchè, si diceva fra noi che la direttrice oltre essere molto trista aveva nel suo ufficio bestie feroci; un lupo, che in definitiva era un cane; un buldog niente bello ma buono coi bambini... buoni, diceva la maestra; una tigre che era una gatta che fra l'altro, aveva paura, dei topi; un'aquila che era però spelacchiata e imbalsamata e qualche ragno tra uno spigolo e l'altro del soffitto.  Ah! signora direttrice! quante paure mi hai messo quando compassata e silenziosa comparivi fra noi!... Ricordo ancora che io avevo allora allora imparato a fischiare e, non solo durante la ricreazione ma anche durante le lezioni mi usciva di bocca, certo senza malizia, qualche fischio.  E quei sibili se li sentiva la direttrice erano proprio dolori; le povere mie orecchie impararono in grazia dei miei fischi come stringevano le dita della direttrice.  

Non mi sembra di aver mai sentito parole affettuose da quella bocca che pareva di ghiro.  Qualche sorriso d'occasione gli usciva ma forzato e in determinati momenti.  Mi spiego: l'Asilo aveva un Consiglio d'Amministrazione col suo bravo e diciamolo pure per la verità, buon presidente che era un distinto avvocato che molto si interessava dell'andamento dell'Istituto; e aveva anche un comitato di patronesse presieduto da una vecchietta magrolina, magrolina che apparteneva ad una famiglia diseredata sì, ma di alti lombi e relativa nobiltà urbinate.  Solo quando Presidente e Presidentessa ci onoravano delle loro visite che erano avvenimenti di importanza per la... comunità, oh allora il viso grifagno della direttrice si spianava al sorriso ma... forzato.  La visita della vecchia patronessa era rapida e a passo di corsa; qualche parolina graziosa, qualche carezza e: "arrivederci bimbi" e se ne andava più di corsa che di passo.  Non così seguivano le visite del signor presidente anche perchè costui, anche volendo, non avrebbe potuto certamente usare il passetto rapido della vecchietta collega dato che era claudicante per via della mancanza di una gamba surrogata da un apparecchio di legno che faceva uno scricchiolio indiavolato quando il suo proprietario camminava, che anche per le strade si sentiva il suo avvicinarsi da parecchi metri di lontananza e il battito della punta di ferro della sua mazza ne accompagnava il ritmo di marcia.  Era di corporatura imponente, con due baffoni, come si diceva allora, alla Umberto, il re allora regnante, due grandi occhi che, si diceva, spaventavano i giudici del tribunale quando difendeva le cause, e a noi ragazzi non ci spaventavano per niente perchè ci guardavano con estrema bontà.  Aveva una voce che anche quella avrebbe dovuto spaventare un branco di bufali, una voce che io ora potrei paragonare al verso dei ranocchi, che scandiva le sillabe ma il tutto in tono affettuoso che a noi ragazzi risultava gradito e simpatico.

Le sue visite mensili erano annunciate con qualche giorno di anticipo e il ricevimento era preparato dalla direttrice con impegno e solennità.  Nel giorno e nell'ora prescritta tutti i bimbi si raccoglievano al completo nell'aula... magna; già perchè l'Asilo aveva il vanto di possedere, e del resto la possiede tuttora, un aula magna come fosse una università, dove c'era una gradinata con banchi e sedili che occupava metà della sala.  (La gradinata ora non c'é più).   In attesa dell'arrivo del presidente con la sacramentale mezz'ora di ritardo sul previsto, noi si cantava o si ripassava la parte che si doveva recitare al ricevimento o ci si scappellottava allegramente, spesso con accompagnamento di sospiri, pianti ed alti lai... Poi, silenzio; il campanello del portone agitato dalla mano presidenziale trilla disperatamente.  Poi sentiamo l'orma dei passi spietati nel corridoio, e poco appresso avviene il solenne rumoroso ingresso del personaggio fiancheggiato dalla sorridente direttrice seguito da una donna di servizio che regge la tuba del presidente.  Gran fremito, gran bisbiglio poi silenzio.  Il presidente dice:

«Buon giorno figlioli; eccomi qua...» come se non lo avessimo veduto.

E noi: «Ri-ve-ri-sco!».  Lui si siede nella poltrona bella che per l'occasione la direttrice trasferiva dal suo ufficio all'aula magna e chiede:

«Come state figlioli cari?»

E noi: «Beeeeneeee»

E lui: «Ci ho piacere!»

E la direttrice: «Li vuol sentir cantare?»

E lui: «Si figuri se non li voglio sentir cantare! La musica è la mia passione!»

E a un cenno della direttrice si fanno avanti due dei ragazzi più... grandi che non arrivavano nemmeno alle spalle del presidente seduto mentre un vecchietto claudicante anche lui ed in male arnese si sedeva con gran fatica presso l'armonium e l'accademia cominciava con un canto... dialogo che era sempre quello perchè era il preferito del Presidente.  Uno dei ragazzi in funzione dà tenore attacca il suo pezzo:

«Giovanottino dalla chioma nera

Dimmi qual'é il color di tua bandiera».

Rispondeva l'altro in funzione di baritono:

«Una vermiglia rosa e un gelsomino

Una fronda d'allor poni vicino».  

E il coro, vale a dire tutti i ragazzi, cantano a squarciagola:

«E i tre color avrai più cari e belli

Perchè in Italia siam tutti fratelli

Se vuoi saper se io nacqui al monte o al piano

Sono italianoooooooooo!»

Il che faceva andare in brodo di giuggiole il presidente patriota e liberale vecchio stampo.  Finito il numero musicale si passava alla seconda parte che consisteva nella cura dei denti.  Precisamente: cura dei denti perchè il presidente chiedeva:

«A chi di voi tremano i denti?»

Su per giù tremavano un po' a tutti data la nostra età ma pochi lo confessavano.  Il presidente invitava i... tremanti non solo nei denti ma anche nel corpo a farsi a lui vicino e, assumendo le funzioni di odontoiatra metteva il suo riverito pollice e non meno riverito indice nel dente tremante, ordinava al coro di ricantare il ritornello "sono italiano" e giù durante il fragore del canto uno strappo e il dentino è nelle mani del presidente mentre l'urlo dell'operato si perde fra le note del canto.  

«Avete veduto? Non gli ho fatto niente male e non ha nemmeno gridato»

Dopo di che al posto del dente partito metteva un bel confetto e riconsegnava al legittimo proprietario il dente fuori uso da metterlo, diceva lui, sotto la cappa del camino che ci passa la befana a prenderlo per darlo a qualche bimbo povero che non ha i soldi da comperare i denti e morirebbe di fame.  Di queste scene e delle parole dei patriottici canti ho un ricordo preciso in tutti i loro particolari.

La seconda parte della visita presidenziale consisteva nella visita alle singole aule dove i ragazzi guidati dalle maestre si muovevano in fila e passando davanti il Presidente e la Direttrice.  I maschietti si portavano la mano nella fronte in atteggiamento di saluto militare e le femminine facevano un inchino da toccare il nasetto per terra.  Quando ognuno era nel proprio banco entra il presidente e domandava:

«Chi è il più buono di questi bambini?»

La maestra chiamava ad alta voce il più buono designato in precedenza che riceveva un confetto ed una carezza da parte del nostro personaggio.  Poi:

«Chi è il più cattivo? ma si affrettava a soggiungere, no, signora maestra non me lo indichi che lo riconosco da me.»

Noi ragazzi quasi per istinto volgiamo gli occhi verso il "più cattivo" e il presidente fissandolo bene diceva:

«Eccolo il birichino, lo riconosco da quella ruga che viene in fronte a tutti i cattivi.»

Una furberia che usai anch'io quando direttore visitavo le scuole elementari.  Il presidente faceva al "più cattivo" un bel fervorino che per la verità lasciava il tempo che trovava: né il più buono diventava più cattivo, né il più cattivo diventava il più buono.  Si parla di "cattivi" per modo di dire; cattivi erano i più vivaci.  La terza parte della visita seguiva nella sala della refezione durante il pasto delle belvette.  Non era un pranzo luculliano, il pranzo di tutti i giorni: una minestra di riso e fagioli che io, pur piacendomi il riso di casa, detestavo quello dell'asilo.  Ricordo che a una di queste visite il presidente ci chiese:

«Dove nasce il riso?» E noi a bocca piena rispondemmo tutti: «Nell'acqua» perchè così ci aveva detto la maestra.  E lui:

«E i fagioli dove nascono ?» Questo la maestra non ce l'aveva mai detto ragion per cui si fece scena muta.  Salvò la situazione uno dei più grandi che gridò con quanto fiato aveva in gola:

«Nelle buccie»

Dopo molti addii e carezze ai più piccini il presidente ci lasciava un : «Addio figlioli miei...»
E noi seguendo le prescrizioni dateci si rispondeva in coro:

«Ritorni presto... addio, addio!»

Il giorno della befana era costume fare una festicciola con distribuzione di regali.  La befana era un grosso bambolotto di pezza più alto di noi che a mezzo di una funicella che passava ad una rotella era tenuta sospesa al soffitto.  Nel momento cruciale il coro cantava :

«Scendi befana dispensa doni

Ai ricchi e poveri fanciulli buoni»

La befana scendeva, una bambina la salutava con parole di circostanza poi a un cenno della direttrice entravano cesti ricolme di roba e la distribuzione cominciava.  Si trattava di accontentare "ricchi e poveri" ragion per cui per un criterio speculativo, ma per me falso assai, ai ricchi si distribuivano giocattoli, ai poveri oggetti utili, indumenti, calzature, quaderni ecc.  di valore certamente superiore ai giocattoli, che se potevano accontentare le famiglie povere non accontentavano noi bambini che tutti si propendeva, e non ci vuol molto a capirlo, ai giocattoli.  In una di quelle occasioni io appartenevo alla categoria dei "non paganti" dato che allora le condizioni della mia famiglia erano economicamente a terra, ricevetti in dono un taglio di calzoncini di cotone mentre il mio compagno di banco appartenente alla categoria pagante si ebbe una trombetta.  

A questo proposito giova tener presente che i fanciulli accolti nell'asilo erano divisi in due categorie: paganti appartenenti a famiglie agiate o benestanti e non paganti appartenenti a famiglie povere.  E fin qui niente di male che è un sistema vigente anche oggi ma il fatto per me deplorevole e che denotava che razza di mentalità oggi diremo reazionaria, albergava nella direttrice, stava nel... fatto che i paganti indossavano un grembiulino turchino ben guarnito di fiocchetti di vario colore ed elefantino, mentre i non paganti portavano un grembiule chiaro a scacchi pallidi e fatto alla ben meglio.  La divisione di casta in un asilo infantile pensate.  

Ma ritornando a me ricordo perfettamente (e questo è un ricordo più accentuato) che io mi struggevo per la trombetta del mio compagno e quest'ultimo, spirito di già speculativo, piaceva il colore dei miei pantaloncini forse perchè a casa trombette da squillare ne doveva avere... E si fa il baratto.  Ma non so o non ricordo come avvenne, fatto sta che il baratto fu scoperto e la direttrice ne fece un casus bellis.  Furono chiamate le nostre famiglie ci buscammo alcune sculacciate, i doni scambiati furono restituiti alla direttrice che li passò, se ben ricordo all'orfanotrofio cittadino.  E la direttrice vedendoci avviliti ci ammonì severamente e solennemente in presenza dei nostri compagni:

«Vi sta bene! Così imparerete a disprezzare i doni che vi son fatti»

Per quanto piccolo capii che non si trattava proprio di disprezzo ma di preferenza.

A chiusura dell'anno... accademico si svolgeva una specie di festicciola con commediole, recita di poesie, canti ecc.  su di un palcoscenico improvvisato nell'aula magna.  Mi è rimasto impresso questo dialoghetto al quale partecipai anch'io.  Un ragazzo faceva la parte di maestro e interrogava un gruppo di compagni che rappresentavano una scolaresca.  Chiede il maestrino:

«Vidi su un albero ben dieci passeri

Ne uccide cinque un cacciator

Quanti ne rimane ancor?»

Risposta:

«Cinque, dieci meno cinque,

Egli presto indovinato».

Maestrino:

«No, no, tu hai errato».

Intervengo io:

«Se non erra il mio pensiero

Ne rimane un tondo zero».

Tutti:

«Ma perchè? ma perchè?»

Io:

«Volar via gli altri affé!»

E il coro a squarciagola:

«Bravo bravissimo dici benissimo

Or va tu il calcolo ad insegnar

Ma prima lasciaci un po' ballar».

E giù un bel balletto ma... io pur essendo già eletto professore di matematica non presi bene la misura del palcoscenico e patatrak con la mia ballerina stretta fra le braccia precipito in platea ai piedi, o per meglio dire, al piede del presidente che sedeva in prima fila.  Non ci facemmo male perchè fu un salto di appena trenta centimetri; tutti ridono, io e la ballerina ci mettemmo a piangere e fummo tosto consolati dal presidente che ci mise in bocca un confetto per uno e brontolò con la direttrice che non aveva preso tutte le precauzioni per evitare l'incidente e dico il vero che provai un gran piacere a sentire a rimproverare colei che ci faceva tanta paura

All'asilo fece i miei primi studi e penetrai nei misteri dell'alfabeto perchè, come ho detto sopra, ivi funzionava anche la prima e seconda elementare.  Ho ancora davanti gli occhi il mio primo libro di lettura che allora chiamavasi Abbecedario o Sillabario  di un certo Angelo Celli e faceva testo in quasi tutte le scuole d'Italia.  Un libro freddo con insulse illustrazioni, scialbe letture, ma... quale effetto alla mia fantasia! Nella prima pagina un bambino che piange perchè ha rovesciato il caffè latte e in calce una fila di "i" anzi tutta la pagina seminata di "i"; poi il vecchio sordo che tiene la mano all'orecchio mentre il nipotino gli parla e lui sembra dica: "eh!" e giù una fila di "e" intercalati da "i" in precedenza imparati.  E nell'altra pagina una bambina che si lamenta per il dolor dei denti e anche lì una fila di "a a a..." e via di seguito; e così imparate le vocali venivano riassunte con questa filastroca:

Questo a mo' d'uomo in ginocchio

Egli è un "a", vedi Carlino?

Questo è un "e" con un bell'occhio

E questo è l' "i" con il puntino

l' "o" è tondo, l' "u" sta attento

Tiene il pié levato al vento.

Hai capito dille su: "a, e, i, o, u"

Altro che metodo globale! Si chiamava metodo "fonico" perchè la figura indicava il suono; nemmeno oggi mi posso capacitare che un "a" possa assomigliare ad un "uomo in ginocchio" e nemmeno che l"u" possa avere i piedi e, per di più, levati al vento.  

Noto solo che si imparava allora come si impara adesso, ci voleva un po' di più, questo é vero, ma si imparava.

 

SCUOLA ELEMENTARE PRIVATA e PUBBLICA - ESAMI.

Ed eccoci alla fine dell’anno scolastico e al primo esame della mia vita di studente e di professionista.  Degli esami ne feci parecchi frequentando i vari gradi delle scuole.  Li feci alle scuole elementari, alle tecniche, e questi più del numero prescritto perchè a tali prove facevo un tale figurone che i professori, entusiasti mi facevano fare il bis alla seconda sezione!  Alle Normali non feci esami perché, avendo messo la testa a partito, conseguivo la promozione senza esami.  Invece li feci all'Università di Bologna, li feci per i concorsi magistrali direttivi, ispettivi.  Il primo esame lo feci a sei anni, l'ultimo a quarantasei che mi procurò la promozione al posto più alto della carriera magistrale.  

Voglio descrivere il primo.  Avevo, ho detto, sei anni e, aggiungo ora, finiti.  Eccoci al gran giorno.  Noi esaminandi siamo in attesa degli esaminatori nella nostra aula.  Puliti, rasati i capelli per opera del barbitonsore dell'asilo che il giorno prima venne a rasarci ben bene tutti.  I grembiuli sono stirati.  Abbiamo lasciato or ora le nostre mamme che ci avevano accompagnato fino al nostro posto facendoci mille raccomandazioni.  Ricordo di un babbo che dice forte al figlio:

«Se non passi non ritornare pure a casa!»

Era una frase che non pochi genitori ripetevano, molto inopportunamente e a sproposito ai figlioli sotto gli esami.  C'é nell'aula la direttrice e la nostra maestra che ci danno un monte di consigli e di... minacce.  Abbiamo sotto gli occhi il foglietto dove si farà il dettato.  A sinistra del foglio un timbro, il timbro dell'amministrazione dell'Asilo (che mi si canzona? Si tratta dell'esame dalla prima alla seconda elementare!).   Si recita anche la preghiera propiziatrice... Ecco entrare una signora o signorina maestra della pubblica scuola come commissaria d'esame.  E' alta come una pertica, magra come la quaresima e per quanto si sforzasse di sorriderci non ci destava confidenza; poi entra un signore tondo come un barilotto che dicono essere il direttore delle pubbliche scuole (qualcuno di noi pensa, sentendo la sua qualifica che sia il marito della direttrice nostra sposatisi per l'occasione!) Poi entrano l'imponente rumoroso Presidente e la magroletta saltellante Presidentessa, poi qualche altro non saprei con quale autorità e tutti si schierano dinnanzi a noi in modo da formare davvero, come scrisse De Amicis un quadretto da intitolarsi L'infanzia oppressa dalla pubblica istruzione.  Qualcuno di noi piange di paura, qualche altro ride quasi portando in giro l'onorevole... voluminosa commissione.  Poi, quando Dio volle si dà mano alla gran prova nel foglio di carta... bollata.  (dico subito e fra parentesi che durante la dettatura i sullodati signori a uno alla volta, sulla punta dei piedi, meno il presidente che fa il solito rumore, se ne vanno insalutati ospiti e alla fine restano con noi solamente la nostra maestra e la commissaria lunga e... stretta.  Costei detta adagio sì ma pronunciando le parole un po' malamente per noi abituati alla pronuncia chiara della nostra insegnante.  Mia mamma, prima dell'esame mi aveva raccomandato di non far macchie d'inchiostro e, per la verità, macchie d'inchiostro non ne feci ma macchie di... unto sì.  Mi spiego: la maestra magra quando ad ogni breve periodo dettava il punto fermo mi sembrava mangiasse la "p" tanto che io sentivo o mi sembrava sentire invece di punto, unto, e io giù a scrivere unto...  E di unti ne cosparsi quel povero dettato.  Si trattava di brevi proposizioni staccate per dir così le une dalle altre, ragion per cui nel mio foglio venne fuori un dettato pressappoco così:

"Mio babbo è buono, unto.  Il presidente è sempre gentile, unto, Leonardo è studioso, unto.  Marcellino corre, unto"e così via di seguito.  

Fui promosso lo stesso ma il giorno appresso la direttrice mi diede tanti ceffoni quante erano le macchie... d'unto nel foglio d'esame.  Questo uno dei particolari delle vicende del mio primo esame.  Il resto non l'ho ben presente.

Promosso in seconda, iniziai questa classe alle scuole dell'asilo ma essendo ritornato un giorno a casa con un livido sulla guancia ed avendo detto che era stata la direttrice per non ricordo quale mancanza da me commessa, mio padre si indignò talmente che mi tolse a metà d'anno dall'asilo e mi fece completare la seconda da una maestra privata che stava di casa per via Bramante.  Di questo periodo di scuola privata ricordo una curiosa vicenda.  Un pomeriggio di bel tempo che non mi andava di andare a scuola che feci? Nascosi libro e quaderni sotto un mucchio di "breccia" che era accatassata nella piazza del mercato ancora in via di sistemazione e questo lavoro lo feci aiutato da un ragazzo che avevo incontrato per istrada e che forse mi aveva consigliato di far così per non farmi vedere a girare coi libri in mano.  Non posso dire come avvenne, ma mia madre venne a sapere che io invece di andare a scuola ero a bighellonare per le strade.  Mi fece ricercare da una donna del vicinato la quale mi trovò fermo incantato davanti la vetrina di Sbucci, un cartolaio di quel tempo ad ammirare libri e palloncini in mostra.  La donna mi prese per un braccio per riportarmi a casa e quando seppe che il mio bagaglio scolastico l'avevo nascosto sotto le brecce del mercato, si andò sul posto per dissotterrarlo: ci accorgemmo che il morto era sparito... e si capisce quel ragazzo così obbligante che mi aveva aiutato al seppellimento si era dato premura di procedere lui al disseppellimento, forse nel timore che lo facessero altri... Mia madre a casa mi diede il resto del Carlino e il giorno appresso la maestra informata della cosa mi tenne un'ora in ginocchio e colle mani sul capo; poi mi fece fare un tema di componimento sul fattaccio del giorno prima, me lo corresse e me lo fece ricopiare cinque volte a casa facendomi sgarrare i consueti giochi coi compagni del vicinato.  

L'anno appresso passai nelle scuole elementari pubbliche che allora erano allogate al pian terreno dell'attuale istituto magistrale.  A questo proposito informo che qualche decennio prima del mio ingresso alle scuole elementari queste erano allogate nel bell'edificio dell'ex convento dei frati di S.  Gerolamo, locale bello, arioso, che s'affacciava e si affaccia tuttavia davanti un magnifico panorama costituito dalle colline della Cesana, dal Pietralata e dai lontani monti del contrafforte appenninico come il Catria, il Petrano, il Cimone, e per scuola e per quei tempi andava benone.  Non furono di questo parere i padri coscritti, così si chiamavano i consiglieri comunali del tempo, e non lo furono per ragioni di... umanità.  Dato che il carcere era allora nei bassifondi del palazzo ducale dove i poveri carcerati marcivano senza luce senz'aria ben custoditi da quelle robuste inferriate che si vedono ancora, si pensò di alleviare le sofferenze di quei miseri trasferendoli nei locali di S.  Girolamo che divenne da allora il carcere giudiziario (per detenuti in attesa di processo dopo di che se condannati passavano al bagno penale).  Le scuole elementari e normali furono trasferite nell'ex convento di S. Benedetto con ambienti piuttosto tetri in ogni caso di ben lunga inferiori a quelli di S. Gerolamo.  

Non faccio commenti e ritorno ai casi miei. Della mia vita di alunno delle scuole elementari non ho nulla da segnalare nè in gran bene nè in male.  Ricordo con gran affetto i maestri di terza e quarta; con lo stesso affetto ricordo quello di quinta ma di costui ricordo anche qualche originalità nei modi di fare.  Un uomo corpulento con due baffoni che incutevano riverenza e timore insieme.  Portava, come era di moda allora anche per i non minorati di gambe, un bastone d'ebano che noi chiamavamo la rigulizia (liquerizia in italiano), una liquerizia che noi temevamo perchè qualche volta ce ne faceva assaporare la... delizia.  Aveva una voce da bombarda quando lanciava il suo intercalare, "corpo di sambuco".  E il corpo di sambuco faceva tremare noi e i... vetri.  Aveva un sistema tutto speciale per farci studiare le lezioni di casa.  Toccava studiarle perchè tutti dovevano ripeterle la mattina a scuola e nessuno sfuggiva alla interrogazione che era fatta dai tre migliori alunni della scolaresca.  Mi spiego: la scolaresca era divisa in tre squadre corrispondenti alle tre file di banchi.  I capo-squadra erano tre che occupavano il primo banco ed erano considerati il braccio forte o aiutanti di campo del maestro.  I primi venti minuti dell'orario scolastico erano per l'appunto utilizzati alla recita delle lezioni al Caposquadra, il quale era incaricato anche di assegnare il voto di merito; poi il maestro ci chiamava ad uno ad uno per enunciare il voto ricevuto e lo segnava in un suo registro particolare; di questo voto teneva conto per fare elogi ai voti ... grossi e lanciare dei corpo di sambuco ai voti bassi.  Ora capisco quello che volete osservare su questo sistema; il giudizio del coetaneo era sicuro? era un giudizio di compiacenza? di vendetta? di paura? Rispondo: "Il maestro tutti i giorni faceva una specie di controllo su due o tre casi e se si accorgeva che il se il capo-squadra aveva dato ascolto all'antipatia o ad altro malvagio sentimento, al timore o all'affetto allora erano guai per il graduato che subiva su due piedi la disonorevole punizione della degradazione accompagnata da qualche pugno magistrale.  Inoltre, chi aveva avuto un punto non di sua soddisfazione, poteva ricorrere in appello al maestro che o confermava il giudizio del capo-squadra accompagnato da un pugno sulle spalle del ricorrente o lo modificava con serie conseguenze come ho detto per il graduato.  E a questo proposito voglio raccontare una mascalzonata dello scrivente della quale ancor oggi sento la punta del pentimento... Debbo premettere che i capo-squadra duravano in carica un mese e venivano o cambiati o confermati in base al punteggio della pagella che allora veniva data ogni mese.  Io ebbi l'onore dell'elezione alla carica ambita nel mese di maggio; il mese degli asini mi dicevano i miei competitori.  Poi fu subito sbalzato di sella da un condiscepolo che godette assai di avermi rubato il posto.  Una volta mi vendicai in modo... diabolico.  Studiai molto bene, come non sempre, la mia lezione, me la imparai alla perfezione ma con malignità sopraffina al capo squadra gliela dissi molto malamente come se non l'avessi studiata affatto; lui, coscienziosamente mi diede cinque.  Bene, quando il maestro fece l'appello per i voti, io sfacciatamente ebbi l'ardire di rispondere:

«Ho avuto cinque ma la lezione la sapevo bene ma lui mi ha dato cinque, perchè ha paura che quest'altro mese gli riprenda il posto».

«E sentiamo allora...» disse il maestro.

Io gliela recitai come un angelo.

«Corpo di sambuco - gridò il maestro - come si fa a dar cinque a chi l'ha studiata così bene? Sei degradato e il tuo posto lo prenderà Fabrizi che per punti viene dopo di te».

Per la verità io non ci guadagnai dalla mia birbonata niente di importante... se non qualche pugno datomi fuori dal dimesso mio compagno ben dati e ben meritati.  

Questo fatto diede la stura al maestro per ripetere che nella vita bisogna essere sempre giusti anche quando l'essere giusti costa fatica e per raccontare per la cinquantesima volta che egli amministrò la giustizia quando fu chiamato a fare il giurato alla corte d'Assise in un processo che fece epoca che, pur soffrendo di emorroidi malgrado gli spasimi atroci stette duro al suo posto e per far giustizia non esitò col cuore e il... resto dolorante dare il suo voto per la condanna a morte di alcuni banditi che una decina d'anni prima avevano terrorizzato il Montefeltro con furti, rapine e omicidi, condanna che ben si meritavano, che poi fu commutata in quella della prigione a vita.

A questo punto come ex uomo di scuola e modesto studioso di problemi pedagogici, dovrei fare qualche commento su questo sistema didattico.  Si lo so; i pedagogisti sono contrari a far imparare le nozioni a pappagallo e più contrari all'uso allora in voga dei monitori per tutti gli inconvenienti che esso presenta... Debbo dire la mia e per ciò che mi riguarda? Intanto si tenga presente che siamo alla fine dell'ottocento e il maestro era figlio, come si suol dire, dei suoi tempi, poi non posso fare a meno di dire che quelle lezioni imparate a memoria o a pappagallo come si suol dire hanno esercitato talmente la mia memoria da renderla forte e duratura e quelle lezioni rimaste nel mio cervello mi hanno servito in seguito come richiamo a notizie imparate sotto l'assillo delle interrogazioni sia pure dei compagni e plasmate in seguito secondo il grado di cultura raggiunto e come punto di partenza a penetrare nei misteri dell'uman scibile... insomma qualche cosa mi hanno servito anche nelle scuole post-elementari e debbo proprio dirlo anche nella vita.  Non insisto su questi concetti che non vorrei che mi avesse a toccare qualche manzoniano scappellotto, scappellotto pedagogico beninteso.

 

SCUOLE SECONDARIE INFERIORI: GINNASIO e TENICHE

Conseguita la licenza elementare (la licenza elementare era allora titolo sufficiente per l'ammissione alle Scuole Secondarie Inferiori: ginnasio, tecniche) mio padre mi iscrisse al "ginnasio" ma feci un fiascone innanzitutto perchè mi ammalai e piuttosto seriamente tanto da ridurmi in pericolo di vita e poi perchè il latino non era pane per i miei denti.  La malattia fu piuttosto grave e mi salvarono le preghiere e l'assistenza della mia santa mamma nonché le cure assidue ed intelligenti dell'allora giovane dott. Gasperini, amico intimo di mio padre.  La malattia mi lasciò un grande deperimento organico ed intellettuale che mi costrinse a lasciar la scuola per parecchio tempo.  Per alleggerire il peso dei miei studi mio padre mi passò alla Scuola Tecnica.  Questa scuola, ora quasi del tutto scomparsa, allora aveva la sua brava importanza; il corso aveva la durata di tre anni.  Vi si insegnava oltre alle materie tradizionali, la computisteria, il francese, il disegno e la calligrafia e la licenza che vi si conseguiva dava adito all'Istituto Tecnico (ragioneria, fisico-matematica, agrimensura), alla Scuola Normale, oggi istituto Magistrale, e il diploma in se ammetteva a piccoli impieghi statali, comunali, di enti pubblici.  Ho conosciuto alti funzionari delle Poste, delle Ferrovie e perfino dei ministeri entrati in carriera con la semplice "Licenza Tecnica" raggiungere alti gradi della gerarchia statale.  La Scuola Tecnica di Urbino aveva la sua sede a pianterreno del palazzo del Collegio Raffaello.  Il Ginnasio-Liceo" era al piano superiore, ossia al primo piano dove è stato fino a pochi anni fa e nel terzo piano c'era il collegio.  

Ormai la antipatia per lo studio si era fatta strada nel mio sangue ragion per cui nelle "tecniche" fui tutt'altro che un modello di scolaro.  Ogni anno ero rimandato regolarmente agli esami di ottobre e in questa sezione ottenevo le promozioni sebbene poco studiassi durante le vacanze.  E pensare che i professori mi bocciavano a fin d'anno proprio, dicevano essi, per costringermi a studiare durante le ferie estive.  All'esame di licenza fui approvato alla prima sessione d'esame solamente in italiano e calligrafia (in belle lettere insomma).  Ricordo quei fatidici esami fatti alla presenza di un Commissario Governativo dato che la scuola era Comunale ma agli effetti legali "pareggiata alle Regie".  Le ragioni delle mie bocciature al primo esame di ben otto materie sono varie: in linea generale, insufficiente preparazione; in francese per indisciplina, sebbene, per la verità, non avessi ammazzato nessun professore; in disegno perchè sorpreso a fare il disegno ad un mio compagno che non sapeva tenere una matita in mano, mentre io, via non fo per dire, disegnavo benino e per questa ragione mi fu annullata la prova; in matematica mi accadde che passai di sotterfugio la soluzione del problema ad una mia compagna che piangeva perchè non sapeva cavarci le gambe, ma la mia soluzione era sbagliata ragion per cui feci sbagliare anche a lei.  Senonchè alla ragazza il lavoro fu classificato "cinque" che dava diritto all'ammissione alla prova orale, alla quale prese "sette" che compensò la prova scritta riportando la media di "sei" e la relativa promozione.  A me, in grazia delle simpatie che godevo presso il professore, mi si diede nella prova scritta ‘'quattro" che mi escluse dalla prova orale con conseguente bocciatura.  A ottobre mi misero in un banco da solo per mettermi nella impossibilità di copiare e solo senza distrazioni feci tutto bene e così fui licenziato con buoni voti il che mi convinse che io non ero proprio quella "nullità" che i professori delle tecniche mi giudicavano.

 

SCUOLE SECONDARIE SUPERIORI: Istituto Tecnico - Istituto Magistrale o Scuola Normale

Il Santini esclude a priori la scelta del "Regio Ginnasio e Liceo" presso il Collegio Raffaello, perchè molto probabilmente l'onere della frequenza non rientrava nelle magre possibilità economiche della famiglia richiedendo una frequenza di cinue anni e quella universitaria per poter accedere al mondo del lavoro (nde).

Licenziato dalle tecniche in Urbino avevo tre vie avanti a me: o piantarla con gli studi, o entrare nell'Istituto Tecnico o in quello Magistrale (detto anche Scuola Normale).   D'accordo coi miei, scelsi quest'ultima via anche per non allontanarmi da Urbino dove l'Istituto Tecnico non c'era come non c'é nemmeno oggi.

Ed eccomi un bel giorno di ottobre col mio bravo diploma di Licenza Tecnica presentarmi alla sede di questa benedetta "Scuola Normale" intitolata com'é intitolata oggi allo storico urbinate "Bernardino Baldi".  Nel corridoio dell'istituto passeggiano confabulando fra loro tre signori.  Il direttore della scuola, oggi si direbbe il "preside", alto, grosso, vestito di bianco con un berretto di ciclista in testa (ed era un appassionato del ciclismo) in mezzo con a fianco due professori bassi che appetto a lui facevano la figura di pigmei.  Uno di essi era il professore di disegno e calligrafia che insegnava calligrafia anche nella Scuola Tecnica il quale quando mi vide si rivolse agli altri due e disse ben forte in modo da farsi sentire da me che ero rimasto fermo all'ingresso del corridoio:

«Toh! quello lì l'abbiamo licenziato dalle tecniche per non averlo più fra i piedi ed eccolo che debbo ancora digerirmelo quassù».  

A quell'intemerata osservazione, che giudicai subito ingiusta, io feci un dietro-front e me ne ritornai a casa senza nulla aver concluso e raccontai a mio padre l'accoglienza che avevo avuto lassù voglio dire nel corridoio della Scuola Normale.  

«Beh! disse sospirando mio padre ti metterò in "tribunale" a far pratica di "cancelliere" (la Licenza Tecnica era titolo sufficiente per entrare nelle cancellerie).  Accettai, senonchè qualche giorno dopo ricevei la chiamata del Direttore della Scuola Normale di presentarmi a lui.

«Che diavolo vorrà da me? e andiamo.»

Mi ricevette nel suo ufficio molto cordialmente e mi chiese la ragione per la quale alcuni giorni prima mi ero presentato nei locali della scuola ed il perchè me ne ero andato senza dir nulla; ed io gliela dissi.  Il professore mi osservò, scrutò il mio animo e alla fine mi disse:

«Il fatto che lei si sia così comportato mi dice chiaramente che è un ragazzo sensibile e di amor proprio qualità che occorrono per essere un buon maestro».  

"Un buon maestro" pensai fra me, "maestro io voglio diventare".  

Ma davvero prima d'allora mai avrei pensato di abbracciare la professione magistrale solo una volta che ero un ragazzino ed una mia zia mi chiese che cosa mi avrebbe piaciuto fare da grande, risposi con sfrontatezza:

«Voglio fare il maestro per poter bastonare i ragazzi»

La zia si scandalizzò ed io non ci pensai più ed invece ci ripensai quel giorno alla presenza di quel imponente direttore che era un valoroso pedagogista e di chiara fama in Italia, perchè aveva scritto libri didattici e psicologici.  Dico subito che nella nuova scuola cambiai da così a così. La scuola mi piaceva, le lezioni di pedagogia mi entusiasmavano ed io le seguii con la massima passione e per questo entrai nelle buone grazie del direttore, il che significava aver causa vinta anche con gli altri insegnanti.  Per il professore di pedagogia, ossia per il direttore ero un appassionato studioso della sua materia e questo era vero; per il professore di matematica ero un Archimede redivivo e questa era una vera e propria esagerazione; per il professore di storia ero uno storico di classe e questo perchè proprio nel primo mese dell'anno scolastico avendo un ispettore del ministero, venuto non so per quale ispezione, chiesto a tutti noi ciò che portò la Rivoluzione nella vita sociale, i miei compagni fecero scena muta ed io invece risposi franco:

«La proclamazione dei diritti dell'uomo».

A proposito della mia sapienza storica voglio raccontare questo episodio.  Siamo alla fine di un trimestre e si dovevano fare le medie.  Il professore di storia non ebbe il tempo di interrogare tutti, ragion per cui pensa di far fare un compito scritto perchè in fondo "lo scrivere, dice, non e che un parlare usando la penna invece della lingua".  Detto fatto: fa prendere un foglio protocollo e detta: «Esporre in ordine cronologico gli imperatori romani dal... al... (non ricordo gli anni).   Citare per ciascuno l'anno di nascita e quello di morte».  Io proprio quel giorno andai a scuola senza ripassare la storia, come ci aveva ordinato il professore il giorno prima, ed ero impreparato per un avvenimento accaduto in città e che ebbe un riflesso a casa mia per la ragione che poi dirò.  Val la pena ricordarlo perchè riguarda appunto la vita cittadina.  Oh! un avvenimento piuttosto grave: un omicidio, nientemeno.  Un giovane studente di Farmacia aveva ucciso con una rivolverata il padre della fidanzata per cause intime che non è il caso riesumare.  Il fattaccio avvenne nell’interno del negozio di mercerie della moglie della vittima e precisamente dove ora c'é il negoziò di pannina già di proprietà Gamba in cima a via Valbona in piena piazza.  L'omicida si costituì subito e il suo padre venne in casa nostra per affidare la difesa del figlio a mio padre.  Fu una scena delle più strazianti alle quali io abbia assistito che mi tolse per quei giorni ogni serenità ogni volontà di studiare, di mangiare, di ridere... e per questo andai a scuola impreparato alle lezioni.  Dovevo elencare adunque questi benedetti imperatori ed io non sapevo proprio come cavarmela... Il mio vicino di banco era anziano come studente che aveva ripreso gli studi molto tardi e studiava con gran lena e volontà.  E iniziò l'elenco con molta esattezza e precisione sia nei nominativi sia nei dati anagrafici.  Vedendo che io non scrivevo mi disse:

«Non scrivi?»

«Ma che vuoi che scriva, turbato come sono il mio cervello è una "tabula rasa"!»

«E copia da me che ti assicuro che questo va bene.»

«Grazie! troppo buono»

Ne approfitto, e copiai senza che il professore se ne accorgesse.  Ed elencai, copiando dall'amico, i nomi di questi Cesari segnando a fianco di ciascuno di essi l'anno di nascita e quello di morte.  L'amico volendo far sfoggio della sua erudizione aggiunse, qualche notizia illustrativa su questo o quell'imperatore che io però mi guardai bene dal copiare e riflettendo che infine il "tema" non richiedeva che nomi e date e se avessi copiato anche quel che il compagno aggiunse mi sarei smaccato un po' troppo.  Io fui il primo a consegnare il foglio, il mio amico fu l'ultimo.  Il giorno appresso entra il professore col fascio degli elaborati e ci dice;

«Ho diviso i vostri lavori in tre gruppi: il gruppo dei migliori, quello dei mediocri e quello degli insufficienti».  

Una pausa di qualche secondo e lesse: migliori: due soltanto S. (io) e T.  I mediocri: lesse cinque o sei nomi fra i quali però non c'é il mio amico (forse involontariamente nel primo gruppo? pensiamo io e lui).   Insufficienti: il mio amico, dal quale io plagiai e altri in buon numero.  L'amico scatta, e ne aveva ben donde, e grida:

«Questa è una ingiustizia bella e cattiva: il mio lavoro è come quello di S.  (non disse, bontà sua che io avevo copiato da lui) »

E il professore risponde severamente:

«La prima parte sì, perchè quella lei l'ha copiata da S.  e lo prova il fatto che la seconda parte, che ha dovuto fare da sé perchè S.  non l'ha fatta, è piena di errori attribuendo un fatto ad un imperatore mentre apparteneva ad un altro e confusione di particolari disordine in tutto.  Se lei si fosse limitato ad elencare gl'imperatori in ordine cronologico come ha fatto il suo compagno io non mi sarei accorto del plagio e lei se la sarebbe cavata con un buon punto.  Ora si tenga il "quattro" e impari».

Il mio amico rimase annichilito.  A lezione terminata non potendo sopportare che il mio amico dovesse subire questo scacco, confessai tutto al professore ed egli cambiò il "quattro" in "sei" non di più perchè la famosa confusione di notizie della seconda parte le aveva pur fatte...

 

E un altro particolare mi piace ricordare.  Mia madre andava a messa tutte le mattine di buon ora nella chiesa di S. Francesco e spesso si imbatteva con quel tal professore di calligrafia che mi aveva così bene presentata al direttore della Scuola Normale.  Mia madre era ben conosciuta dal professore perchè da giovane era stata sarta di casa.  Quando costui poteva abbordarla durante la mia frequenza alle "Tecniche" erano querimonie contro di me, un po' esagerate a dire il vero, dopo di che io al ritorno a casa di mia madre ero svegliato da una fitta di scapaccioni che mi facevano capire che il professore bigotto aveva... cantato.  Basta: dopo un mesetto dacché frequentavo le "Normali" mia madre scorge in lontananza il suo... referendario.  Vorrebbe evitarlo, perchè, francamente, ne aveva avuto abbastanza delle sue petulanti lamentele sul mio conto, ma non potè perche il professore avendola scorta sotto il portico del monumentale tempio francescano la chiamò.  "Ci siamo" pensò mia madre e si preparò con pazienza a sentire la ennesima requisitoria sul mio conto.

«Debbo parlarti di tuo figlio...» le dice facendo bocca da ridere.

«Sempre lo stesso.» Dice con un fil di voce mia madre.

«Niente di quel che pensi.  Tuo figlio per disciplina, studio e profitto è giudicato da tutti i professori uno dei migliori allievi delle "Scuole Normali".  Io che l'ho avuto nella Scuola Tecnica posso ben dire di non riconoscerlo nello scolaro di allora.  Diventerà un bravo e buon maestro perchè sembra proprio che ne abbia la vocazione. »

Ah! che buon respiro di sollievo eruppe dal petto di mia madre! E non dico altro.  

 

Quella vita di una scuola di studenti seri tutti compresi della missione che ci aspettava e con professori che si impegnavano continuamente di innamorarci dell'insegnamento elementare e dell'amore per i bimbi mi temprò a pensieri "più forti e più soavi" e pregustavo fin da allora la gioia di esser presto maestro.  Il direttore che aveva compreso i miei sentimenti li stimolava e li alimentava incaricandomi anche di supplire i maestri del tirocinio assenti e quelle erano le più belle ore della giornata scolastica.  Professori, maestri, compagni mi chiamavano "l'allievo maestro supplente".  

Nella Scuola Normale, come ho detto sopra non solo non fui mai rimandato agli esami di riparazione ma non feci nemmeno esami di sorta perchè le mie promozioni le conseguivo con "dispensa d'esame" per i buoni voti che conseguivo negli scrutini finali.  Anche la Licenza o Abilitazione Magistrale la conseguii con dispensa d'esame che allora non usavano esami di stato e chi riusciva a conseguire nello scrutinio finale la  media di otto decimi era dispensato anche dall'esame finale che oggi invece tutti debbono fare qualunque sia la votazione dell'ultimo scrutinio.

 

INSEGNANTI DEI VARI ISTITUTI CHE HO FREQUENTATO.

In generale tutti gli insegnanti che ho avuto nei vari istituti che da giovane studente ho frequentato erano ottimi per dottrina e metodi didattici e coscienza educativa.  Di qualcuno di essi mi piace parlare, mosche rare a dire il vero ma come in tutte le categorie c'é chi "scantina" così c'era e c'é ancor oggi nelle classe degli insegnanti chi esce per dir così dal comune.  Ricordo il professore di francese delle Tecniche che, si diceva noi, conosceva il francese come "una vacca spagnola" ma sarebbe stato passabile, se fosse riuscito a ben governare la scolaresca, voglio dire se avesse saputo tenere la disciplina, il che non era nelle sue capacità.  E sì che era stato un "garibaldino" e aveva combattuto da valoroso, diceva lui, a fianco dell'Eroe dei due Mondi.  Soleva dire, se Garibaldi avesse dato retta a me sulla strada di Trento, non sarebbe tornato indietro e a Mentana non avrebbe preso le legnate francesi che si prese; "Fui un valoroso" diceva lui, ma c'era chi sussurrava che per tutta la giornata della pugna di Mentana egli restò rintanato in un chiavicotto col fucile scarico fra le gambe.  Ih! come andava in bestia quando qualcuno di noi birbanti, gli rinfacciava questo eroismo! Ci trattava da vigliacchi, papalini, da nemici della patria, e qualche volta da figli di p...

Mio compagno di banco era il mio amico d'infanzia che ho nominato sopra.  Eravamo proprio la dannazione di questo professore e quando uno di noi (eravamo chiamati dai compagni i "fratelli Maccabei") faceva una lazzaronata, proprio ora che ci penso erano "lazzaronate", il professore del gallico idioma spingendo lo sguardo al di sopra delle lenti che teneva attaccate alla punta del naso, e rivolgendosi a noi due gridava "vada fuori!".  I Maccabei prendevano all'unisono i loro libri e se ne andavano.  Giunti a metà cortile ci si fermava e quello che non era l'autore della lazzaronata tornava indietro rientrava in classe e chiedeva:

«Professore aveva detto a me o al mio compagno?»

«Avevo detto al suo compagno ma adesso vada fuori anche lei » rispondeva l'insegnante che aveva mangiato la foglia. Il che era nei desideri di entrambi.

Questo professore se pur avanti negli anni era un camminatore fantastico.  Per darvi un'idea delle sue virtù podistiche eccovi un episodio.  Pochi anni dopo, lo ero già maestro fuori Urbino e ritornavo da Urbania in bicicletta, te lo incontro in una località vicino alla città che, fagottino sotto il braccio, mi veniva incontro con passo discreto.  Ci fermiamo, ci salutiamo, domanda mie notizie e da un discorso all'altro io le chiedo:

«Sempre in gamba professore! Fa una passeggiatina?»

«Se ti piace chiamarla "passeggiatina" fai pure, ma io la chiamerei "passeggiata", una delle mie solite passeggiate».

Si era in località denominata "Tufo" a quattro chilometri dalla città ragion per cui, gli chiedo:

«Va forse a Montesoffio? (sette chilometri da Urbino) »

«Più avanti caro, molto più avanti»

«A Urbania? (sedici chilomatri) »

«Eh! per andare solamente in Urbania non ci metterei nemmeno le mani!»

«Ma non anderà mica a S. Angelo in Vado? (venticinque chilometri)

«Più avanti! più avanti!» E per non tenervi più in sospesa mi disse con la massima naturalezza che andava a Firenze a trovare certi suoi parenti...

«A piedi????»

«Come vedi.  Eh! che merito c'è andare a Firenze in treno?»

«C'è la comodità!»

«Gran bella prodezza! io non monterò mai in un treno! Sappi del resto che sono andato a piedi perfino a Roma dato che non mi è stato possibile andarci con Garibaldi... Vado a Firenze passando per via Bocca Trabaria, Borgo S. Sepolcro, Arezzo e a Dio piacendo nella città dei fiori»

«Quando fa conto di arrivarci».

«Domani sera. » E seppi infatti che c'era veramente arrivato usando sempre il "cavallo di S. Francesco", a quanto raccontò, l'indomani del nostro incontro.

Ma lascio il professore della Scuola Tecnica e ricordo quello d'italiano della Scuola Normale o Magistrali.  Un tipo del genere di quello or ora nominato.  Anche quello era un vecchiotto di rispettabile presenza, di buona prestanza fisica e guardandolo in viso lo si sarebbe detto un uomo di talento e di cultura.  Poco o niente di tutto ciò.  Più vicino ai settanta che ai sessanta tirava avanti per raggiungere maggior numero d'anni per liquidare la massima pensione.  Alle Normali eravamo tutti giovani seri e pertanto il problema della disciplina non faceva spavento ai professori.  Le lezioni di questo professore consistevano nel leggere con una certa "verve" alcuni appunti scritti di suo pugno in un vecchio scartafaccio e li leggeva adagio in modo che noi si potesse trascriverli nei nostri quaderni per poi impararli a memoria, perchè pretendeva sul serio che si recitassero le lezioni mnemonicamente e... guai a cambiare una virgola dal suo scartafaccio.  E' di lui l'osservazione che mi fece una volta mentre ripetevo la lezione.  Lo scartafaccio del professore portava scritto a proposito della Divina Commedia: «Prima di Dante ci furono altri scrittori che trattarono dei viaggi da oltretomba ma Dante col suo poema vi impresse il suggello indelebile (attenti indelebile) del suo ingegno e dopo di lui il ciclo delle visioni si chiuse per sempre».

Dove diavolo era andato a pescare quest'affermazione il fatto sta che l'aveva sposata con tale affetto da ripeterla a iosa.  Io ripetei come era scritto nello scartafaccio professorale, ma ebbi l'audacia di sostituire la parole "indelebile"che mi sembrava troppo leccata, con quella più alla mano "incancellabile".  Non l'avessi mai fatto! Si inquietò e mi disse:

«Tu non l'hai studiata come si deve la lezione».

«Ma professore mi sembra...»

«Ti sembra! ti sembra! ma non è così; senti. » E rilesse il suo scartafaccio caricando la voce sulla famosa parola indelebile.

«Mi sembra la stessa cosa»

«Sempre ti sembra eh? Indelebile è una parola più bella e io voglio quella».

E rivoltosi al suo segretario particolare, che era un nostro condiscepolo, il più anziano che riscuoteva la sua fiducia e gli aveva perciò affidato il registro di classe, gli disse:

«Segnagli quattro per incoraggiamento...»

Talvolta però il registro lo adoperava direttamente lui e allora erano guai perchè i "quattro per incoraggiamento" lui li segnava bensì nel registro, ma... a vanvera cioè dove andavano andavano senza preoccuparsi se il "quattro" per Tizio lui, senza ricercar troppo nel registro, se lo appioppasse a Caio o a Sempronio bastava scendesse a fianco di un nome…

Ecco a un dipresso una lezione di commento della Divina Commedia.

«Dante e Virgilio sono avanti la porta dell'inferno.  Sopra come nelle porte delle botteghe c'é scritto la descrizione delle delizie infernali:

«Per me si va nella città dolente» ...

e giù giù a recitare le terzine finché arrivò:

«Lassate ogni speranza voi che entrate»...

Spesso, da buon marchigiano qual'era, il professore usava parole dialettali e le faceva usare anche a... Dante.  «Dice il professore, Dante legge, si stropiccia gli occhi, rilegge e poi domanda a Virgilio: «Ma dì oh! E che significa quell'avvisetto?»

«Beh! dice Virgilio, spiega a chi deve entrare che cosa lo aspetta lì dentro».  

Dice Dante: «E a me quel "lassate ogni speranza" non va per niente a fagiolo». 

E intanto tremava il coraggioso!  ma Virgilio lo assicura: «Ma va là, che quel che è scritto non è per te.  Non ce pensare ed entriamo.  Entrano e ti sentono subito una musica "de sospiri pianti ed alti lai".  Immaginate quel "fifone" di Dante come ci si divertisse!...»  Non continuo per decenza poetica.

Ricordo che un giorno festivo il professore mi incontra in piazza e mi abborda scherzosamente così: «Dove vai... fenicottero?». 

Ed io: «Vado un po' a zonzo...»

«Bene.  Io vengo con te.  Ossia facciamoci compagnia e andiamo a spasso».

Lo seguo per via Bramante, passiamo la porta di S. Lucia e facciamo il Giro Dei Debitori.  E qui andando a passo di lumaca mi espone il suo "curriculum vitae".

«Qual tu mi vedi - cominciò con gran enfasi - qual tu mi hai veduto e mi vedrai finché starò in questo"paese", io sono un "professore d'italiano".  Non ti scandalizzare se ti dico che la "laurea" non ce l'ho e non l'ho mai avuta ma, come puoi vedere a scuola, io me la cavo bene lo stesso (a chi lo diceva?) e mi arrangio meglio di certe barbe di professoroni, come il mascalzone che dirige la nostra scuola, che a guardarli e sentirli danno l'impressione che tutto l'uman scibile sia racchiuso, come avete cantato voi studenti nell'operetta "La fuga d'Angelica", nelle loro cucurbita pepo.  Non è cosi?»

Non risposi.

E lui: «Come ti dicevo io non sono laureato.  Ho fatto da ragazzo il ginnasio e liceo in un seminario; finito il quale, tagliai la corda nel 1866 e corsi ad arruolarmi con Garibaldi (anche lui garibaldino!).   Ho pugnato, non fo per dire, da prode nelle aspre giogaie del Trentino, a Bezzecca e dintorni.  Cesarino (Cesarino era il professore di storia delle Normali) ti avrà insegnato che a poca distanza dalla città il nostro Generale ebbe l'ordine di rinculare (testuale!) e lui rispose: "Obbedisco " e... rinculò.  Ritornai a casa con una medaglia al valore in... saccoccia e dovendo pur fare qualche cosa per magnare con qualche rimasuglio di cultura appresa in seminario, mi presentai privatamente all'esame per la patente di maestro di grado inferiore (il patentino com'era chiamato allora che corrispondeva al passaggio dalla seconda alla terza Normale; il patentone si conseguiva alla fine del corso cioè alla terza classe.  Il patentino abilitava all'insegnamento nelle scuole elementari inferiori, l'altro in quelle superiori.  Dato che io ero ex Garibaldino fui promosso, diamine!, a tambur battente.  Vero è che si trattava di un esamuccio di scuola elementare.  Nozioni più che elementarissime.  In pedagogia dimenticarono di interrogarmi ed hanno fatto bene perchè io questa materia non la conoscevo nemmeno di saluto.  Ho detto che fui promosso e chi compilò il diploma, il professore di calligrafia, un perfetto alcolizzato, invece di scrivere che io ero stato abilitato all'insegnamento del grado "inferiore" scrisse "superiore" (lo stampato era uguale tanto all'uno che all'altro grado con lo spazio libero nei confronti del detto grado che doveva essere specificato di pugno del segretario.  Mi accorsi io dell'errore e per scrupolo di coscienza! ne parlai al direttore il quale avendo firmato ad occhi chiusi il diploma si strinse nelle spalle dicendomi: «Niente errata corrige lasciamo il diploma com'é e... buona notte e ben ti serva».  

Così andavano le cose a quel tempo degli albori dell'unità nazionale.  Manco a dirlo io non feci obiezioni e il diploma... esagerato mi servì ad avere un posto di maestro in una quinta elementare in un paese vicino al mio dal bellicoso nome Monte Vidon Combatte.  E lì dovetti davvero combattere con un canagliume di ragazzi che mi diedero da fare più dei mangia sego, i tedeschi, della terza Guerra d'Indipendenza... Questo mio tormento durò ben poco, finché quei fanfaroni dei francesi vollero nel 1870 andare a rompersi il muso coi Prussiani e quel serafico e fesso, per me, di Garibaldi andò ad aiutarli dopo l'affronto che ci fecero a Mentana, e noi più fessi di lui a corrergli dietro».

Io con intenzione gli chiesi:

«A Digione prese lei la famosa bandiera ai prussiani?»

«Eh, non mi voglio far bello con le penne del pavone... Io aiutai a prenderla.  E quei camorristi discendenti dei druidi sanguinari non ci hanno nemmeno ringraziato anzi nella loro "cameraccia" ci sono stati deputati che hanno persino detto male di Garibaldi, ma a quei smidollati codini e forcaioli disse il fatto loro Victor Hugo... Basta non mi ci far pensare che divento una bestia.  Ritorno in patria per riprendere il mio posto di maestro e ti trovo invece la comunicazione di nomina a insegnate di pedagogia nella Scuola Normale Femminile di...  Si vede che qualche ispettore, capitato durante la mia assenza dove io facevo il maestro avendo saputo che io avevo combattuto a Bezzecca e stavo combattendo a Digione a fianco dell’Eroe dei due Mondi, deve aver trovato incongruente che un soldato della fatta dei Garibaldini dovesse insegnare in una scoletta elementare deve aver fatto presente al Ministero l'anacronismo e il Ministero provvide come ho detto.  

Pedagogia?  Ma che è questa roba?  Mi pareva, sì, di averla sentita nominare, ma quando e dove? In seminario avevo sentito ronzarmi un qualche cosa di simile, ma in effetti si trattava di "teologia" Beh.  Guardiamo in un vocabolario.  E lessi che si trattava di "scienza della educazione " e che non si trattava di arabo; ragion per cui dissi fra me e me: e insegniamo pure la Scienza dell'Educazione.  

Mi portai alla sede destinatami mi presentai in uno scalcinato ufficio di un grande edificio monacale che ospitava la"scuola" e annesso collegio femminile .  Alcuni cassabanchi dei tempi di Noè; un tavolo da osteria dietro il quale mi si presentò in piedi la segaligna lanternuta sagoma della, direttrice che con una voce da cocorita spelacchiata così mi abbordò:

«Lei sarebbe il professore di "Pedagogia e Morale?"»

«Di pedagogia sì, almeno così mi hanno scritto quei del ministero, di Morale non so niente signora direttrice».

«Prego signorina se non le dispiace». E mi mostrò la mano sinistra priva della fede.

«Avrei dovuto immaginarlo e... mi scusi».

«Il professore di pedagogia è tenuto anche all'insegnamento della Morale un'ora, per classe alla settimana»

«Una morale abbastanza diluita, pensai fra me, se essa occupa così poco posto nell'orario settimanale!»

Per non dilungartela più del bisogno, ti dirò che la direttrice mi guardò subito con simpatia come con simpatia mi guardarono gli altri insegnanti quasi tutte donne e le allieve, fior di bellezze... Perchè, via! non ero un brutto giovane e poi la mia fronte era circondata dell'aureola dell’eroe.  Però... però in mezzo a tutte quelle donne mi sembrava di aver cambiato sesso.  Le mie lezioni consistevano, per venire incontro alle aspirazione delle allieve, nella descrizione spesso romanzata dei furori delle battaglie, negli aneddoti della vita di Garibaldi, alcuni veri altri fantasiosi, come sono i tanti che si raccontano.  E, in quanto alla Pedagogia, mi attaccai al libro di testo di un certo "Tonso" la di cui materia era divisa in Tomi e negli ultimi minuti prescritti dall'ora di lezione facevo tirar fuori un Tomo è dicevo alle alunne:

«Studiate a casa di qui fin qui...»

E siccome le allieve non studiavano nè di qui fin qui, nè di qua fin qua, io alla fine del trimestre dettavo un tema sulla materia non letta, le ragazze scribacchiavano copiando dai tomi del libro, io non leggevo niente e alla fine regolavo i punti trimestrali sulla scorta di quelli dei miei colleghi.  

E malgrado questo agli esami finali le ragazze fecero la loro discreta figura e tutto procedette per il meglio, perchè sapevano i... titoli dei capitoli del testo che ripeterono con un certo ordine.

Al secondo anno di insegnamento mi capitò fra capo e collo una di quelle tegole che proprio l'ombra di Garibaldi m'ha salvato da più gravi provvedimenti disciplinari.  Ti racconto il fatto ma tu non scandalizzarti, che alla fin fine non avvenne niente di immorale, nessuna tragedia e alla conclusione dovetti dire: "Tutto bene quel che finisce bene".  

C'era fra le allieve della seconda classe una ragazza, un fiore di bellezza, non troppo intelligente come sono tutte le donne belle.  Avrai notato, amico mio, e se non lo sai te lo dico io, che le donne belle non sono generalmente intelligenti e, se ti imbatti in qualche donna intelligente, vedrai che per la massima parte sono brutte... Costei mi guardava con un certo interesse, te l'ho detto non ero brutto, i miei occhi si posavano spesso su quegli "occhi di sole".  Era una collegiale.  Una volta la direttrice dovette allontanarsi dalla sede e io ebbi da lei l'incarico di sostituirla, vuoi nella direzione, vuoi nell'insegnamento, perchè la direttrice insegnava matematica.  Ti immagini le mie lezioni di matematica! Le faceva in mia presenza un'allieva che era veramente un cannone in quella materia e era così brava che riuscì a mettermi nella testa i misteri del teorema di Pitagora, di quelli di Talete e di altri scienziati che per la pace dei ragazzi meglio sarebbe stato per loro non fossero vissuti.  L'incarico direttivo lo esplicavo sedendo in direzione e ficcanasando nei fascicoli personali dei miei colleghi e così venni a sapere dalle note caratteristiche della Direttrice che io ero giudicato "pedagogista di non comune valore" e "dotto anche in cultura letteraria".  Nientemeno!

Una sera che indugiai dopo le lezioni a scrivere una lettera nell'ufficio direttivo sento in corridoio un cicaleggio di voci allegre femminili.  Erano le allieve collegiali che spesso in ore extra scolastiche e di ricreazione per il collegio scendevano (il collegio era al piano superiore) al piano dov'erano allogate le scuole e invadevano il corridoio per giocare.  Esco dall'ufficio direttivo per vedere di che si trattava, ma al mio apparire le ragazze scappano impaurite ma sempre ridendo per la scala che menava al collegio.  Una, e precisamente quella dagli "occhi di sole", non si scompone, non scappa anzi mi saluta graziosamente.  Io avevo trent'anni, ero scapolo e, pur non essendo un libertino, quel celestiale sorriso mi fece perdere "lo ben dell'intelletto" e una forza demoniaca più forte della mia volontà mi spinse verso quella ragazza fino al punto di abbracciarla e, arrossisco ancora al ricordo (ma non arrossiva gran che, anzi sorrideva di compiacenza, l'amico professore) e la baciai ma un bacio solo e sulla guancia destra...

Fu l'affare di un secondo.  L'atto non sfuggì all'occhio di lince di una suora che allora allora si era affacciata alla porta in cima la scala per richiamare la ragazza la quale tirò un urlo, non per l'affare del bacio ma spaventata dalla voce della suora, si sganciò dalla mia presa e fuggi facendo le scale a quattro a quattro.  "Patatrac! - dissi dentro di me - sono fritto".  Fritto non fui ma... fregato sì, perchè la suora fece rapporto alla superiora, questa alla direttrice della scuola al suo ritorno, la direttrice a sua volta al Provveditore e la cosa arrivò al Ministero il quale con un"rescritto" mi trasferì ad altra sede molto lontana da quella fino allora occupata, a Treviglio (fra parentesi sede assai migliore sotto ogni rapporto) e non basta: la lettera di trasferimento mi annunciava in pari tempo che non essendo io più degno di insegnare la Scienza dell'Educazione e tantomeno la Morale, venivo trasferito alla cattedra d'italiano.  E così dal 1890 ho insegnato e insegno la "lingua di Dante"e non del tutto indegnamente, perchè questa è una materia che a dire il vero mi piace assai.  

Ho dimenticato di dirti che la sede di Treviglio era maschile (il Ministero giudicò che le precauzioni non sono mai troppe).   Da Treviglio, parecchi anni dopo fui tra sferito nelle Marche a S. Ginesio e da S. Ginesio a Urbino dove finirò la mia carriera.  

Chiesi io: «E la ragazza che di tanto mal fu causa subì nessuna punizione?»

«Nessuna punizione anzi si pensava di premiarla per aver difeso la sua virtù dalle violenze di un... bruto che sarei stato io».

«E l'ha più vista?»

«Ti dirò, quella ragazza è mia moglie...»

E infatti non mi disse i particolari del suo matrimonio limitandosi a dire che anche per la scuola gli era di grande aiuto.  Ed infatti correva voce che i componimenti nostri li correggesse lei che contrariamente alla teoria del professore sopra annunciata, la signora era stata e lo era ancora una bella donna e intelligente per giunta.

«E lasciamo questo argomento - mi disse a un certo punto il professore - e facciamo ancora quattro chiacchiere per far notte».  

Mi parlò di Manzoni perchè secondo lui I Promessi Sposi sì è un romanzo dove qualche cosa c'é, ma la grammatica, la grammatica, misericordia!»

«Ma scherza professore? Manzoni sgrammaticato?»

«Ma non hai letto nel primo capitolo che la serva del curato è... celibe? che se me lo scrivi tu in un componimento ti "scacco" un quattro grande come una casa; che fa dire a Don Abbondio quand'é chiamato dal Cardinale nel 23° capitolo "Mi hanno significato che vossignoria mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato..." Bello eh! quel "mi e me?" E nella conversazione col marchese dice: «... questa buona gente son risoluti di andare a mettere su casa altrove...» Ma dimmi il soggetto è singolare o plurale e quel "son" è plurale o singolare? Ma questa amico mio è grammatica dei miei "coglioni"... (Ripeto le testuali parole del mio letterato professore).   Già era andato a Firenze a fare il bucato! che se c'é gente infame nei confronti della grammatica questa è proprio la gente toscana.  Del resto è noto l'episodio del cinque che Manzoni si buscò in un componimento di quinta elementare che scrisse lui già anziano per un nipotino che non aveva voglia di comporre.  Ah! questi grandi! questi grandi! E del resto il grande Carducci, morto ieri l'altro a Bologna e per il quale ci siamo"sbaffati" una bella vacanzina, non ti mette il "Resegone" a ponente quando ti dice?

                                      ...Il sole

ridea calando dietro il Resegone

Un poeta letterato dovrebbe essere anche un buon geografo, mi pare, e lui che a Lecco c'è stato a concionare di Manzoni che in vita l'aveva in tasca, doveva vedere che i monti del "Resegone " sono dalla parte contraria che il sole non poteva nè riderci dietro e nemmeno calarvi.

Ma grazie, al cielo per me, eravamo arrivati nel pian del Mercatale dove nello "sferisterio (ora non c'é più) si svolgeva una partita di "pallone col bracciale" sport, allora in gran voga, di forza di occhio di sveltezza del quale scrisse un libro lo stesso De Amicis assistendo alle partite che si svolgevano allo sferisterio di Torino.

 

Della Scuola Normale un'altra figurina di insegnate che mi piace ricordare era il professore di ginnastica.  Un tipo di piemontese schietto.  Anche lui deve aver combattuto per l'indipendenza italiana ma non nelle file garibaldine che del resto non vedeva di buon occhio lui.  Come tutti i piemontesi era monarchico per la pelle e buon suddito di casa Savoia.  Soleva dire, se non erano i cannoni di Vittorio Emanuele e la lungimirante saviezza politica di Cavour l'Italia non si faceva "libera ed una", nemmeno per la misericordia di Dio.  

L'insegnamento della ginnastica era, secondo i programmi di allora, teorica e pratica.  Un'ora di teoria e due di pratica alla settimana.  In quanto alla teoria per il nostro professore la cosa si risolveva a far declamare a tutti indistintamente gli allievi questa definizione: "La ginnastica è quell'arte scienza che basandosi sulle leggi della fisiologia determina i movimenti del corpo umano e li indirizza ad uno scopo prefisso".  In quanto allo scopo prefisso, qual'era indovinalo grillo!  La definizione l'ho ancora nella memoria perchè avendola sentita suonare agli orecchi in un triennio almeno per un migliaia di volte ed avendo dovuto ripeterla agli esami trimestrali e a quelli finali non poteva scapparmi di mente tanto facilmente.  Poi c'era la pratica: marcia, schieramenti, esercizi alle pertiche e alle parallele e salto in lungo e salto in alto come se si dovesse prepararci a fare i saltimbanchi.  Ricordo che nelle sue concioni teoriche di tutto ci parlava fuori della teoria bastando per lui sapere a memoria la definizione sopra detta.  Chiamava Dante "il cantor della Francesca" e Garibaldi "l'eroe dal mussolo rosso" e via di questo passo...

Si piccava d'essere un clinico o giù di lì, perchè, per conseguire il diploma di abilitazione all'insegnamento della ginnastica, dovette studiare anatomia.  E che di medicina ortopedica se ne intendesse lo dimostra il fatto che avendo un giorno un allievo slogato un piede nel fare il salto lui lo fece girare per il corridoio a passo di corsa (così diceva gli ossi si rimettono a posto) che poco non mancò che non si slogasse anche l'altro piede e che ad ogni modo procurò all'infortunato una tale infiammazione da costringerlo al letto per qualche giorno.  A me un giorno prese una specie di svenimento.  Lui mi fece sedere per terra con la schiena contro la parete, poi mandò a prendere nella taverna vicina un bel litro di vino e me ne fece bere due bicchieri a me dicendomi da perfetto brentatore [1] che questo era l'unico modo da far passare gli svenimenti... e difatti lo svenimento passò o per meglio dire si trasformò in una solenne sbornia che mi dovettero accompagnare a casa i miei compagni.  E lui lo sapeva a ragion veduta perchè delle sbornie ne prendeva in media una al giorno, due in giorni di vacanza e non aveva mai avuto, ci diceva sempre, un raffreddore o una influenza.  E qui ci diceva che Noè fu salvato dalle acque per esser stato l’autore di simil liquore, che allegri ci fa.  Che il grande clinico di quel tempo Augusto Murri molto spesso guariva i suoi malati ubriacandoli... Non ho detto che il restante vino fatto venire in iscuola per guarire il mio svenimento se lo bevette lui come una spugna.

Alla chiusura del terzo anno del Corso Normale e il giorno stesso in cui doveva svolgersi il consiglio dei professori per gli scrutini finali lui era ebro già dal mattino.  Qualche ora prima dell'inizio dello scrutinio te lo incontrai in piazza con il registro sotto il braccio.  Appena mi vide mi si fece incontro e mi disse:

«E’ la Provvidenza di Dio che mi ti fa incontrare.  Senti so che tu hai una bella calligrafia; l'avevo bella anch'io ma ora mi si è guastata perchè mi "trema il pulso" quando scrivo.  Debbo presentare all'adunanza dei professori il registro debitamente compilato con i punti di scrutinio.

Io li ho segnati a matita, mi fai il piacere di passarli in penna ma veh! con la tua bella calligrafia perchè voglio fare la mia figura anche col registro che il direttore ci tiene molto a vederlo ben scritto.  Bada, i punti debbono essere scritti in lettere dell'alfabeto e chiari.  E poi è un lavoro che devi farmi subito.»

«Professore ben lieto di poterle essere utile.  Fra due ore ci ritroviamo qui in piazza e lei sarà servito a dovere».

«Bene io vado al caffè e ti attendo lì. (Al caffè si vendeva anche il vino per i clienti cui il caffè urtava i nervi) ».

Vado a casa; mi prendo una penna nuova e mi metto al lavoro.  Giunto al mio nome vedo che il professore mi aveva assegnato "otto" quel che bastava per ottenere la dispensa dall'esame.  Potevo essere soddisfatto della magnanimità del professore perchè seppure all'esame trimestrale avessi recitato benissimo la famosa definizione alla pratica, ahimè, il salto in lungo riuscì troppo corto, quello in alto troppo basso, alle pertiche feci ridere perchè l'arrampicata non superò i quindici centimetri dal suolo.  Alle parallele mi si ruppero i bottoni dei pantaloni... Insomma il professore mi aveva trattato anche troppo bene ma io non fui di questo di questo parere e poiché avevo io la penna dalla parte del manico, pensai di trasformare l'otto in nove e il triste pensiero messo in atto trasformò invece l'otto in dieci, cifra tonda.  Già che volevo far trenta, pensai; meglio far trentuno e Dio me la mandi buona!

Ho saputo come andò poi la cosa al consiglio dei professori.  Quando il direttore arrivò allo scrutinio di ginnastica leggendo sul registro che il professore gli aveva consegnato e vedendo quell'unico dieci disse: «Non sapevo che S... era un ginnasta così perfetto.  Il professore che sapeva che punto mi aveva dato spalancò gli occhi, ebbe una contrazione nervosa e lasciò andare un poderoso starnuto, uno di quegli starnuti che facevano l'effetto di un terremoto e che erano la sua specialità.  Ma non disse nulla.  Non voleva proprio far sapere che il registro, strumento delicato della scuola, era stato nelle mani mie!  La sera studiai di non farmi vedere da lui il quale invece venne a stanarmi in casa non per "cicchettarmi" ma per rallegrarsi con me della conseguita abilitazione e poiché mio padre mise in tavola un fiasco di vin buono lui il professore fece onore a bacco bevendone parecchi bicchieri e dimenticando il voto che io mi era auto-assegnato in ginnastica.  Tuttavia mi mise nella necessità di accompagnarlo a casa, quasi sorreggendolo, tanto le gambe sue si erano indebolite.  Avevo fatto la mancanza, giusto che ne sostenessi la pena.  E così per istrada tra un scivolone e 1'altro, una piroetta e 1'altra, un moccolo e l'altro, (il più gentile dei moccoli era" sacramenta!") si mise a cantare l'aria di Turiddu "quel vino è generoso ed io più del bisogno ne ho tracannato...".  Poi volle darmi anche dei consigli per l'avvenire, per la mia carriera ecc.  «Tu - mi disse - dovresti iscriverti nella Massoneria, una società patriottica che ha fatto l'Italia più e meglio della Carboneria.  Io che sono un "trentatrè" (sapevo assai che cosa volesse dire trentatre!) potrei iniziarti».  «Ne parleremo domani professore ma niente da fare credo» E difatti di massoneria mai volli saperne.

E qui faccio punto col parlare delle scuole che ho frequentato.  Con la licenza Normale e abilitazione all'Insegnamento Elementare io entravo così nella vita e iniziavo la mia professione di maestro per diventare poi direttore didattico e infine Ispettore Scolastico grazie ai concorsi che feci e che, con l'aiuto di Dio;superai benone.  Oggi ripeto, sono giubilato e non avendo altro da fare mi diletto a tormentare questa modesta Olivetti per fissare sulla carta i ricordi della Città.

 

 

 

LA FUGA D'ANGELICA

 

I goliardi di un tempo, che formavano l'élite della vita giovanile scapigliata di Urbino, spesso organizzavano spettacoli teatrali con rappresentazioni, di solito operette, e qualche volta perfino di opere... (le riviste non erano allora in uso) e per la bisogna chiedevano la collaborazione anche degli studenti delle scuole secondarie.  E qui mi piace ricordare una operetta nella quale mi ci produssi anch'io nelle vesti di una... modista.  E non si imbarchino le ciglia!  Proprio una modistina (potevo avere sedici anni) con corpettino viola, pettorina bianca, gonna a fiori che mi arrivava alle caviglie, parrucca bionda, cappellino piumato.  Perchè bisogna sapere che a quei tempi di severi costumi non era cosa morale che una ragazza anche la più disinvolta, anche la più sfacciatella, anche la più civettina, salisse in palcoscenico specialmente a fianco di quei capi scarichi che erano gli studenti.  Ancora si risentivano le regole del cessato governo pontificio che bandivano le donne dalla scena.  Nemmeno le allieve levatrici che frequentavano la Scuola di Ostetricia annessa alla nostra Università e diretta da quell'illustre ginecologo che fu il prof.  Giuseppe Bedeschi, chirurgo primario del nostro ospedale e che gli anziani come me ricordano con venerazione e ammirazione, nemmeno le studentesse di ostetricia dico si sentivano di prestarsi a fiancheggiare l'attività teatrale dei loro spregiudicati colleghi.  Ragion per cui le parti delle donne dovevano essere interpretate dai rappresentanti del sesso virile beninteso camuffati da sesso gentile.  E per questa bisogna erano scelti gli studenti più giovani delle Tecniche o del Ginnasio.

L'operetta di cui parlo era intitolata "La fuga d'Angelica" ma niente di ariostesco per quanto tra i personaggi ci fosse anche Orlando.  Angelica era nell'operetta la figlia del Rettore dell'Università (soggetto del lavoro, la vita universitaria di una città) e della quale era innamorato corrisposto, beninteso, uno studente sentimentale chiamato Orlando.  Personaggi oltre ai due sopra detti, un altro studente materialista e spaccamontagne innamorato, anche lui corrisposto (e come!) della serva del rettore chiamata Susanna.  Altri personaggi: il Rettore, il suo segretario, un cameriere di trattoria, tre guardie di pubblica sicurezza, tre cacciatori e buon numero di studenti di sartine e modistine che formavano il coro e il corpo delle comparse.  Studenti con berretto goliardico a due punte e studenti più giovani vestiti, come ho detto da donne che cantavano con le voci allettatrici d'evirati cantori.  Ma erano tutt'altro che evirati.  

Ecco all'ingrosso in succinto la trama del curioso lavoro: all'alzarsi del sipario entrano gli studenti che fanno sapere al colto pubblico (colto e numeroso fino all'inverosimile) :

Noi siam gli studenti dell'Università,

I giovani più ardenti noi siam della città

Clienti inarrivabili del monte di pietà

Perchè mai non ci bastano i soldi di papà...

E dopo il coro entrano saltellanti e sorridenti le donnine che sotto mentite-spoglie si presentano così:

Siam sartine modistine, vispe allegre chiacchierine.  

Siam vivaci, siam carine tutti i giorni siamo quà...

a ripassare le lezioni degli studenti? Ohibò!

Accarezzando gli studenti dicono o meglio cantano:

Procuriam lieti momenti a quei poveri studenti

Stanchi affranti sonnolenti che davver ci fan pietà.

E poi studenti in divisa maschile e quelli in divisa femminile cantano all'unisono:

Viva la vita dello studente

Ciò che significa non far mai niente

Mangiare, bere, fumar, dormire

E la fatica sempre fuggire

E questo è sempre stato e già si sà

l'ufficio nostro all'università.

evviva la faccia della sincerità!!!

Dopo di che i giovani se ne vanno abbracciati e a passo di carica per non scontrarsi con i colleghi camuffati da professori universitari...

Eccoli i docenti, a passo di funerale imponenti e seri.  Il pubblico guarda sbalordito ora il palcoscenico ora alcuni palchi dove si affacciano le sagome dei professori, quelli veri, e non possono credere ai loro occhi perchè nel palcoscenico ci sono gli stessi professori in carne ed ossa.  Ma che hanno questi venerabili signori il dono dell'ubiquità?  Infatti, tra il gruppo dei professori del palcoscenico, il professor Budassi troneggia e gesticola come sa gesticolare solamente lui con caratteristici movimenti delle braccia che usava quando concionava nelle piazze (era un repubblicano propagandista) o in Corte d'Assise (avvocato di grido).   Ma l'avvocato Budassi, che è anche il sindaco di Urbino, è lì nel palco riservato alla Giunta Comunale! che ride a crepapelle come ridono tutti che hanno capito lo scherzo.  Ma quello che canta vicino al prof. Budassi è il prof.  Miccoli il protomedico della città e illustre docente di medicina legale che come al solito alla destra ha un bastone sul quale si regge e cammina lento e pesante, nella sinistra un paio di polli che regolarmente acquistava si può dire tutte le mattine alla piazza del mercato prima di andare alla visita dei suoi malati all'ospedale e far lezione all'Università.  Gli piaceva mangiar bene e gli studenti lo sapevano, ragion per cui te lo presentarono in palcoscenico con la carne preferita.  Più in là nel gruppo scanzonato degli studenti truccati e travestiti da professore c'é il professor Micci tutto chiuso nel suo palamidone con gli occhiali scuri ed un cappello a cencio che gli arriva fino alle orecchie, poi il prof. Calderoni, alto con una testa da imperatore romano, e poi il prof. Zerboglio di diritto penale, il prof.  Vanni, il rettore.  Insomma tutto il corpo accademico imitato alla perfezione.

Il coro con voci da bassi profondi e tromboni sfiatati canta:

Noi siamo i professori dell'Università

Che illustriamo le cattedre di varie facoltà

L'umano intero scibile in noi racchiuso sta

E noi lo riversiamo sopra l'umanità.

Però siam severissimi con gli studenti è vero

Spesso a Bacco e Venere volgiamo anche il pensiero

E se dell'anno al termine bocciam senza pietà

E' per serbare incolume la nostra dignità.

Nel gruppo dei docenti vi era compreso anche il segretario dell'Università, un brav'uomo e sollecito funzionario, ma aveva un difetto di pronuncia che lo studente che lo imitava ripeté alla perfezione da destare la più schietta ilarità.  Ricordo che una, sera (il lavoro fu ripetuto parecchie sere) i polli del professor Mircoli, male legati e peggio tenuti, scapparono di mano allo studente, volarono in platea del che fu fatto un carnevale indiavolato.  Aggiungo che i polli passarono sotto le gambe degli spettatori famelici di platea, sparirono di circolazione e mai si seppe chi li sollevò da terra nè in quale padella andarono a farsi friggere.  E mentre questo avveniva il coro dei professori seguita a cantare:

Se gli studenti vengono a tutte le lezioni

Finiscono col romperci... le tasche dei calzoni...

Ai puntini di reticenza la bacchetta del direttore d'orchestra, che era l'autore della musica (una musichina semplice e carina), si ferma segnando la battuta d'aspetto di effetto indovinato e curioso.  Una sera la battuta d'aspetto fu coperta da una voce del loggione che precisò che cosa rompevano ai professori gli studenti se venivano a tutte le lezioni.

Finito il coro di presentazione il corpo accademico, quello finto del palcoscenico, se ne andava compassato e grave accompagnato da una specie di marcia funebre.  Poi comparivano i quattro innamorati i quali in un grazioso quartetto ti cantano:

Fondendo insieme i palpiti dei nostri quattro cuor

Fuggiamo che già avvicinasi l'ora per noi d'amor...

E la fuga comincia.  Avanti in un carretto i quattro innamorati, Angelica e Orlando, che da perfetti platonici stanno a rispettosa distanza l'uno dall'altro, Camillo e la servetta Susanna che di platonismo non ne vogliono sapere stanno stretti stretti nell'estasi d'amor.  Seguono a passo di corsa i colleghi studenti a braccetto con le sartine e modistine.  Sono inseguiti dal corpo accademico al comando del rettore che grida che "Mi hanno rubato la figlia nonché la serva".  

Al secondo atto inseguiti prima e inseguitori poi, fanno sosta in una trattoria di campagna e quivi gl'innamorati dicono che faranno il loro "nido d'amore" al che il coro completa:

Fate qui pure il vostro nido d'amor ma intanto

Mettiamoci in un canto ed ordinar da ber...

E da mangiar...»

Ma la sosta è interrotta dall'avvicinarsi dei furenti professori; gli studenti scappano i professori entrano.  «Disperate! - grida il rettore - nemmeno uno studente si trova qui, ragion per cui qui non si fa niente...» I professori protestano: 

Come niente? A riposare non si deve un momentino?

Nel frattempo uno spuntino c'entrerebbe un po'di far...

E al cameriere che presenta loro il menù cantano:

Se vorrem la pasta asciutta o minestra solo in brodo

Chiameremo sodo sodo, cameriere !

Se vorremo dei fagioli o ciascuno una braciola

Chiameremo a squarciagola, cameriere!

Ma nemmeno loro hanno il tempo di mettersi a tavola perchè c'è chi li ragguaglia che studenti e rispettive "spose future e remote" si sono imboscati nel bosco di sotto la trattoria e corrono ad acciuffarli.  E li acciuffano.  

Al terzo atto la scena, come tutte le scene finali, cade nel patetico.  Dopo le prime sfuriate del rettore cui danno man forte i professori e dopo che il rettore ebbe dal rapitore l'assicurazione che Angelica è ancora "pura casta ingenua come una... vedovella" pensa sollecitato anche dai colleghi e pregato da tutto il coro di studenti e sartine di "perdonare" non senza essersi grattato l'angolo del naso perchè non ci vedeva gran che chiaro sulla ingenuità e relativa purità di una... vedovella scappata in un bosco ma quando Orlando rettifica che non si tratta di una "vedovella" ma di una "rondinella" e allora canta con voce di basso profondo qual'era in arte:

Perdono ad una rondine che fugge col rondone?

Perdono ad un rondone che fugge con la rondine?

Perdono ad una rondine perdono ad un rondone?

Cioè son due le rondini e due sono i rondoni!

Già perchè c'era nel rapimento anche la serva che sapeva cucinare degli arrosti magnifici e allora:

Perdono a tutte e due, perdono a tutte e tre

Perdona tre, ma che: perdono a tutte e quattro

E impappinandosi e agitando la massa che portava seco come un capo tamburo, grida:

Non ci capisco un... diavolo

Andate tutti al... cavolo

Perdono general...

Studenti e relative sartine e modiste si mettono a saltare come caprioli; e comincia una ridda frenetica di danze selvagge cui, dopo aver fatte un po' di cerimonie, presero parte anche i professori smettendo le vesti e la camuffature professorali e mostrando i loro visi di studenti scanzonati, mentre sartine e modistine nella frenesia della danza tiravano su le vesti mostrando i pantaloni maschili e tutti cantano l'inno goliardico

I canti di gioia, i canti d'amore...

e quando lo studente-rettore si gettò a tuffo nel buco del suggeritore cala il sipario...

Cari dolci ricordi !

O giorni o placide

Sere sfumate

In risa in celie

Continuate !

Non voglio chiudere questo capitolo se non vi dico che lo studente che sosteneva la parte d'Angelica era un giovanottino di forme, fattezze e viso quasi femminili, ma aveva al suo attivo di maschio un... figlio che, come si seppe poi, aveva avuto dalla sua fidanzata che avrebbe sposato a laurea conseguita.  Avrebbe fatto bella figura come attrice, ma nel cantare cadeva la donna e sorgeva il maschio.  Lui si sforzava di comportarsi come gli antichi evirati cantori, ma non riusciva, e i suoi acuti di "soprano lirico" suscitavano la più schietta ilarità degli spettatori.  

E a questo proposito voglio raccontar qui quanto mi fu raccontato vent'anni dopo a Recanati.  Pressappoco nell'anno che fu rappresentata a Urbino, la"Fuga d 'Angelica" fu rappresentata anche al teatro Rossi di Macerata Marche e per opera di quei goliardi.  Anche quei studenti si trovarono dapprima in serio imbarazzo per la scelta della prima donna; per le stesse identiche ragioni per cui ci si erano trovati gli studenti urbinati.  Ma essi alla fine furono più fortunati dei nostri perché, mentre si facevano le necessarie ricerche di un giovane con voce di contralto, alcuni studenti maceratesi si erano portati per diporto a Recanati.  Ascoltando la messa in canto nel Duomo recanatese sentirono in cantoria, unita alla voce dei putti della schola cantorum, una voce con timbro di contralto melodiosa, intonatissima e alta, con sfumature di note e di acuti che mandarono in visibilio gli studenti.  Capirono dovesse essere la voce di un ragazzo perchè sapevano bene che le donne in chiesa allora non potevano cantare.  Uno di essi disse estasiato ai compagni:

«Questa voce ci vorrebbe per la nostra "Fuga d'Angelica"»

In quel momento la voce come quella di un angelo si levava squillante sotto le volte della Chiesa nel suo a solo del Benedictus qui venit in nomine Domini, hosanna in excelsis.

«Non c'é nessuno a Macerata che canti così bene! Ma quello è Orfeo! Davvero che a sentire questo ragazzo le bestie feroci correrebbero ammansite ai suoi piedi, i fiumi arresterebbe il loro corso, proprio come ci dice la mitologia»

Chiesero ai vicini chi era quel soave canterino e ne ebbero in risposta che era Beniamì il figlio del campanaro.  Finita la funzione i giovani si portarono in sacrestia abbordato il campanaro chiesero a lui notizie del figlio.

«Di quale figlio volete notizie? Che dei figli ne ho cinque; volete notizie del prete?»

«Ma no! Del ragazzo che abbiamo sentito cantare diansi in chiesa»

«Ah! di quel birbaccione di Beniamì» disse con compiacenza il padre.

Avute le notizie i giovani con disinvoltura tutta goliardica chiesero il figlio a... noleggio per cantare nel teatro di Macerata.  Rispose il campanaro:

«Io son bensì il padre del ragazzo ma a casa ora ha il comando il maggiore dei miei figli, Don Abramo che è quel prete che in questo momento si leva i paludamenti.  Sentite a lui ma... credo che farete un bel fiasco»

Gli studenti si rivolsero al sacerdote e con gran deferenza e rispetto gli ripeterono la richiesta e questa volta in presenza del canterino che disceso dalla cantoria si era avvicinato al fratello e ai giovani coi quali parlava.  Quando il ragazzo, un bel giovinetto con un bel viso e due occhi vivi ed espressivi di media statura, sentì la richiesta si mise a saltare dalla gioia, ma questo non servì a smuovere il religioso fratello che rispose ai giovani:

«Ma giovinotti scherzate? Mio fratello appena quindicenne cantare in un teatro? e vestito da donna? e, quel che peggio, da ragazza che si fa rapire dal moroso? Ma non ci pensate nemmeno che io lo permetta... e tu - disse rivolto al ragazzo che aveva messo il broncio - fila a casa se non vuoi che ti ci accompagni a calci dietro... ».

Fu irremovibile.

Gli studenti ritornati a Macerata informarono del fatto i colleghi e tutta la goliardia maceratese si mise in movimento per raggiungere lo scopo di avere il giovane Orfeo nel loro teatro.  E riuscirono nello scopo grazie anche la collaborazione del professore di Diritto Canonico collega e buon amico del fratello del ragazzetto, il quale riuscì ad assicurare Don Abramo che si trattava di uno scherzo studentesco, che nulla c'era nè di male nè di immorale sulla manifestazione teatrale.  Tutta la popolazione attendeva l'avvenimento e il ragazzo sarebbe stato ospitato in casa sua e vigilato... E così fu.

E fu anche un trionfo per l'operetta in genere e per il ragazzo in ispecie che al suo apparire in scena fu salutato da una salve di applausi per l'ammirazione che destò la sua personcina slanciata e ben formata e il viso che era davvero un amore da non trovarne un altro in tutta Macerata nemmeno fra le rappresentanti del "sesso gentile"... Quando poi la sua voce squillante e melodiosa si levò nelle sala, il pubblico che, non si aspettava tanto, andò in visibilio e coronò la prima romanza di una vera e propria ovazione.  

«Ma quella è una vera e propria ragazza, dissero i più, non poteva essere un maschio perchè nulla aveva nè la presenza nè la voce...»

«Ma quello - disse un recanatese che era fra gli spettatori - è l'usignolo del borgo...»

Borgo come per antonomasia e per ricordo leopardiano si chiamava all'uso del suo paese, Recanati.

«L'usignolo del borgo? ma chi è?»

E l'altro :

«E' Beniamì il fratello del Cappellano del nostro Duomo, Don Abramo Gigli, è proprio Beniamì che tutte le mattina quando si reca nella farmacia dove è garzoncello canta per tutta la strada da svegliare e rallegrare i recanatesi.  Si chiama Beniamino Gigli quel bardascio (ragazzo in italiano). «Ah! se lo facessero studiare ma sai che artista diverrebbe!»

E furono davvero facili profeti quegli spettatori perchè dopo una decina d'anni il suo nome risuonerà nelle cronache d'arte teatrale del bel canto lirico nei principali teatri italiani, stranieri ed in modo speciale americani.  La fuga d'Angelica, fu si può dire il suo felice debutto e il primo può trionfo.

 

DOCENTI UNIVERSITARI

Ho parlato sopra di professori che ho avuto io nelle scuole da me frequentate ma siccome ho parlato anche di Università mi piace ricordare, sebbene io non abbia frequentato le aule universitarie del mio paese, anche alcuni docenti noti non solo ai goliardi ma anche ai cittadini.

Ricordo il prof. Antonio Vanni che per molti anni fu il venerato, beneamato, dotto rettore che al nostro ateneo ha dato i tesori del suo ingegno e della sua mirabile attività.  Toscano di nascita si stabilì nella nostra Urbino e la sua vita era la famiglia e l'Università.  Fu anche chiamato dalla fiducia dei cittadini a cariche pubbliche quali quelle di consigliere comunale e di altri enti; i suoi affetti, la famiglia e i figli; la sua passione, l'università e gli allievi.  Per le sue capacità direttive e organizzative, per la sua vasta cultura non solo nelle discipline giuridiche di cui era insegnante ma anche in molte altre, e, per l'affetto che si era guadagnato da parte degli allievi i colleghi, lo elessero dopo qualche anno di insegnamento "Rettore Magnifico" e lo riconfermarono per molti anni fino a che dovette lasciare la cattedra per raggiunti limiti di età.  Spesso si univa agli studenti in qualche passeggiata ed era curioso vedere quell'omino (perchè era piccolo di statura e di fattezze al di sotto del normale) in mezzo a quei ragazzoni e ridere e scherzare con loro.  Il mio più vivo ricordo di questo professore, i cui figli furono miei amici, risale ad una delle annuali cerimonie goliardiche che consisteva nel battesimo dei matricolini.  I matricolini se volevano essere immessi nella goliardia con diritto di coprirsi col "berretto goliardico" dovevano essere battezzati.  Mi spiego: con una adunata festaiola, che si svolgeva in piazza o in teatro, uno studente parato a vescovo, mitra in testa pastorale a sinistra, premeva la chiavetta di una bottiglia di acqua di selz e l'acqua annaffiava la testa del matricolino che inginocchiato avanti a lui subiva, volente o nolente questo curioso battesimo. La cerimonia che ricordo si svolse al teatro Sanzio con"canti di gioia" e discorsi commemorativi tutti scanzonati come scanzonati erano gli attori.  Prima che l'assemblea si sciogliesse i goliardi chiamarono a viva voce in palcoscenico il Rettore: «Ci parli il magnifico! ci parli il magnifico!»  E il Magnifico dovette fare di necessità virtù salire la scaletta e quando fu presso i suoi allievi si rivolse al pubblico e disse: «Ma dicono il Magnifico ma, come tutti possono vedere, sono la negazione di ogni magnificenza anche se mi levo sulla punta dei piedi; "magnifica" è questa gioventù scapigliata che ci fa rivivere gli anni belli...»   Non potè finire che due giovani lo alzarono sulle braccia mentre il vescovo gridò "Ecce homo"...

Questo sistema di alzare sulle spalle i professori mi ricorda un altro di essi appartenente a nobile famiglia urbinate.  Non ho mai sentito parlare delle qualità scientifiche di costui ma da quel che mi era dato capire doveva non doveva eccellere in dottrina e sapienza.  Era buono e comprensivo; esaminava a maniche larghe e nessuno ricordava bocciature date da lui.  In una certa occasione di onorificenza ricevuta, si racconta che gli studenti vollero fargli festa a modo loro, s'intende.  Lo attesero fuori la porta dell'ateneo e, come al solito lo sollevarono in alto portandolo in processione per la piazza allora "Vittorio Emanuele" oggi "Rinascimento".  Uno degli studenti "portantini" si vede che, inavvertitamente beninteso, gli aveva messo una mano in una parte delicata del corpo professorale e stringeva.  Il professore che vedeva le stelle dal dolore si mise a gridare senza riguardo:

«Mi avete preso per un... coglione!»

«Ma no! - gli risposero tutti - Lei è il più bravo dei nostri professori il più intelligente, il più furbo»

«E io vi dico che mi avete preso per un "coglione" e lo stringete troppo, mi fate un male del diavolo; lasciatemi!»

Quando Dio volle gli studenti capirono e lo deposero a terra che lui non ne poteva più davvero.  

Un altro professore che la mia memoria ricorda ben in confuso era il prof.  Merigioli Secondo che non godeva fra gli studenti la fama di chiara... fama; anzi era senz'altro giudicato una nullità per non dire una bestia addirittura.  Lo vedo ripeto molto in confuso: un vecchietto curvo con due occhialoni che gli coprivano metà del viso, che a qualunque stagione indossava una "vecchia zimarra" tanto temeva l'aria di "Urbino ventosa".  Era severo il contrario di quello precedente e bocciature ne dispensava a larghe mani.  Un giorno gli studenti per vendicarsi della sua che loro chiamavano "pignoleria" gli fecero trovare sulla cattedra un bel mazzo di "fieno".  Il professore salito in bigoncia visto quel presente trovò la presenza di spirito di dire sorridendo (lui che non rideva mai) dopo aver fiutato una bella presa di tabacco:

«Chi di voi ha lasciato la colazione sopra il mio tavolo? Può venire a ritirarla e gli concedo anche di consumarla durante la mia lezione e buon pro' gli faccia».  

Gli studenti riavutasi dalla impressione che questa uscita aveva loro procurato, lo applaudirono e da allora lo giudicarono meno citrullo di quel che credevano, che fosse.

Fra i tanti altri docenti universitari che io ricordo tutti avanti negli anni e di rispettabile presenza ricordo molto bene perchè allora era già normalista, un giovane professore; barbetta alla D'Annunzio, occhiali a stanghetta d'oro (o d'ottone?) vestito come un damerino, un arbitere eleganziarium una vocetta fessa che tutti giudicavano un bravo promettente maestro del "giure" che insegnava Diritto e Procedura Penale e si atteggiava a "sperimentatore".  Per esempio un giorno entrò nell'aula e, senza dir verbo, torna indietro come sorpreso da un pensiero.  Poi ritornò sedette in cattedra e cominciò ad interrogare gli studenti presenti.  Chiede al primo che cade sotto il suo... monocolo (perchè per atteggiarsi a distinto portava anche il monocolo):

«Lei mi dica se diansi quando sono entrato la prima volta camminavo spedito o lento?...»

E il giovane sorpreso da questa domanda risponde:

«Ma mi è sembrato camminasse come sempre; piuttosto svelto...»

«Le sembrava però.  E lei, dice ad un altro, è dello stesso parere del suo collega?...»

«Io? veramente non ci ho fatto caso»

«Non ci ha fatto caso? Ma entrava il suo professare e doveva farci caso... Nemmeno lei, dice ad un terzo, ha fatto caso o non ci ha fatto caso?...»

«Ecco le dirò, dice, il nuovo interrogato un po' confuso, le dirò che mi è sembrato che camminasse spedito»

«Anche a lei è "sembrato" ma coi "sembrato" non si fa la storia e nemmeno i processi.  E poiché io oggi voglio parlarvi dell'importanza delle testimonianze nei giudizi penali così prendo lo spunto da questo semplice esperimento per dirvi che bisogna ben guardarsi dalla attendibilità dei testimoni che se si dovessero prendere tutti in serietà i testimoni non passerebbe processo senza incriminarne almeno la metà...»

Un noto professore napoletano giurista di chiara fama, si dice che abbia iniziato il suo insegnamento nella nostra Università (già la nostra Università come quella di Camerino come quella di Ferrara che a quel tempo erano"libere") erano il trampolino di lancio dei professori verso l'insegnamento nei grandi atenei e sia pur detto, di passata.  Molti docenti del nostro vecchio ma pur glorioso studio raggiunsero alti gradi non solo nell'insegnamento superiore ma anche nei più alti delicati uffici della vita nazionale.  Questo professore si chiamava Pepere, meridionale tutto nervi e sempre accigliato brontolone e poco pulito nelle espressioni e il termine più gentile che usava verso gli allievi che lo facevano "incassare a buono" era "figlio dei miei luridi amplessi...".  Ma era di valore nel vero senso della parola tanto che prestissimo raggiunse l'insegnamento nelle primarie università d'Italia e finì nella sua città natale a Napoli dove condusse a termine la sua opera di maestro del "diritto".  Si ricordano di lui due episodi che mi furono raccontati da uno studente mio amico. Uno studente si presenta agli esami della materia del nostro professore e senza aver frequentato le lezioni anzi senza nemmeno conoscere l'insegnante.  L'esame volgeva al male perchè il candidato si era preparato solo su dispense dove non aveva capito un bel niente del contenuto delle lezioni.  Rispondeva parlando a distesa e dicendo fesserie robuste e pronunciando spropositi cavallini.  Il prof. Pepere si grattava la testa, sbuffava come un bufalo e lo scoppio d'un temporale pareva imminente; ma questa volta facendo forza a se stesso si contenne e si limitò a chiedergli:

«Ma mi dica: dove ha letto lei tutte queste fesserie?»

«Nelle dispense di un certo prof. Pepère...»

«Ed è proprio il prof.  Pepère che ti boccia, all'anema tua

Il secondo, non posso precisare se questi due episodi si svolsero nel nostro ateneo o in quello di Napoli, è questo: quando il prof. Pépere ricevette l'onorificenza di Commendatore gli studenti gli fecero trovar scritto sulla lavagna della scuola questi versi alquanto rustici:

Se la commenda crescere

Fa il nome alle persone

Con la commenda Pépere

Diventa un pe... perone

Da figurarsi quel che successe quando il professore salito in cattedra e volti gli occhi alla lavagna lesse... Si scatenò l'ira di Dio! Grida il professore:

«Siete tutti figli...»

Completa il coro degli studenti:

«dei suoi luridi amplessi»

Urla vieppiù Pépere:

«E' troppo poco! Tutti figli di... puttane»

Nacque il finimondo, la lezione non si svolse ma in sua vece corse per 1'aer religioso della scuola scambi di insolenze fra docente e discenti da far passare passi salmodiaci le ingiurie che si scambiano i facchini di piazza.  Dovette intervenire: il Rettore ed altri professori per calmare gli spiriti che si erano fatti bollenti assai... Ma poi gli studenti riconobbero i loro torti, il professore convenne che il suo frasario poteva andare in una assemblea di un parlamento ma non nella sacrosanta aula di una scuola e tutto finì lì.

 

Dei professori dell'Università mi piace ricordare anche il prof.  Nicolai Fiocchi, che insegnava filosofia del diritto e insegnava filosofia pura al liceo cittadino.  Uomo integerrimo e d'ordine fu per parecchi anni sindaco della città di parte "destra" e lasciò morendo la sua villa ai "Quattroventi" (???) per colonie per figli del popolo e così si smentì la voce essere lui e quelli di sua parte reazionari panettoni, nemici del popolo sofferente... Il prof. Nicolai diede la prova che anche allora non era strettamente necessario militare nei partiti di "sinistra" (e partiti di sinistra erano considerati i Repubblicani, quattro noci in un sacco come li chiamò Carducci, ed i Socialisti, giovane partito dei lavoratori) per venire incontro ai bisogni di chi soffre.

 

PERSONALITÀ URBINATI

E giacche ho parlato di docenti voglio qui, ricordare anche personalità che non sono del campo delle scuole.

Un altro urbinate, che la generazione "passata" ma vivente ricorda con la massima simpatia, era il Conte Ettore Gherardi figlio del Comm. Pompeo fondatore dell'Accademia Raffaello.  Il conte Ettore come del resto il suo illustre padre che io non ho però conosciuto, si studiò continuamente di rinverdire il suo blasone con opere di sollievo a favore della sua città che adorava e della quale era uno dei più attivi esponenti.  Presidente di parecchie istituzioni cittadine, dove esercitò una attività fattiva e piena di zelo, aveva creato anche un giornale locale, un settimanale dal titolo "L'ECO DI URBINO" che riportava articoli che interessavano la nostra città, trattava argomenti di vita cittadina, faceva la cronaca degli avvenimenti urbinati che i grandi giornali quotidiani più diffusi in città come, "La Tribuna", "Il giornale d'Italia" e "Il Resto del Carlino" non avevano come hanno oggi, pagine di cronache regionali o provinciali, il che riusciva gradito e interessante non solo ai residenti in Urbino ma, e più specialmente agli urbinati extra muros cioè a urbinati residenti in altre città ed anche all'estero ai quali l'Eco portava la voce e l'aria, per dir cosi, della città natale.  

E l'Eco stesso non mancava di fare particolari segnalazioni di urbinati che fuori di Urbino si distinguevano per operosità, per studio, per titoli, per onorificenze, ecc. .  Io stesso che per ragioni professionali ho vissuto fuori della mia città, ricordo quanta gioia entrava in casa quando arrivava questo nostro messaggero di notizie del loco natio.  Purtroppo qualche volta ci si leggeva il necrologio di qualche urbinate passato a miglior vita.  Ma che? Qualunque cosa triste ci portasse l'Eco era largamente ristorata dalle altre notizie della interessante (molto interessante per i lontani dalla città) vita che si svolgeva all'ombra delle slanciate torri del palazzo di Federico.

C'erano le rubriche "Su e giù per Urbino", "Chi va e chi viene", "Fiori d'arancio e crisantemi" ed altre, le quali permetteva anche agli extramuros di seguire il movimento demografico della città, come se ci si vivesse entro le mura...

In quanto ai necrologi il nostro simpatico conte non lesinava davvero a conforto dei familiari dei defunti, non faceva differenze fra ricchi e poveri, dotti o... non dotti, giovani o vecchi.  Tanti, che lasciavano la vita terrena e che avevano conosciuto il conte o il conte conosceva loro, erano ricordati nel suo giornale e... gratis et amore per le famiglie.  Disposto magari a ricordare la serva di una famiglia sua conoscente, ricordò un venditore ambulante di candele steariche che girava di strada in strada gridando "Miiiira!", la marca delle candele, quando la luce elettrica non c'era o non era entrata nelle case e lo ricordò con il soprannome che portava, Martlon.  E tanti tanti ricordava per fare onore alla loro memoria...

Posso ben dire che debbo a questo benemerito nobile concittadino se lontano parecchie centinaia di chilometri dalla mia città ho potuto finchè egli visse seguire con affezione le vicende della mia città, dei miei concittadini e specialmente i trionfi oratori forensi del padre mio nell'agone dei cimenti delle Assise o del tribunale...

E colgo l'occasione per ricordare che al tempo in cui si riferiscono queste memorie di giornali cittadini non c'era solamente 1'Eco di Urbino ma anche giornali politici come l"Aurora", socialista, il "Dovere", clericale (oggi si direbbe democristiano), "Epoca", repubblicano, il "Corriere Metaurense", monarchico se non sbaglio, il "Montefeltro", il "Lavoratore" ed altri di cui mi sfuggono i nomi.

Altra personalità della vecchia vita urbinate è, ed è doveroso il ricordarlo, l'ingegnere Luigi Falasconi che fu per parecchi anni assessore poi sindaco della città.  Politicamente era di parte repubblicana ma anche lui tutelò nel miglior modo gli interessi della nostra città.  A lui si deve la costruzione dell'acquedotto che allora rispondeva alle necessità dei concittadini che oggi, purtroppo e come vediamo, non risponde più ai bisogni reali della città.  Ci furono in origine difetti di costruzione da non imputarsi certo agli amministratori e che si basarono su calcoli o meglio su speranze nella portata delle sorgenti... Ma non è qui il caso di rievocare questi errori che solo possono fare chi fa...

Altri personaggi da sottrarre "ad oblivione"? Eh! ce ne sarebbero e ci vorrebbe troppo, solo per elencarli.  Vorrei ricordare una persona a me tanto cara e che so che è ancora ricordata dai vecchi della quale vengono tramandate di padre in figlio e di generazione in generazione le virtù eccellenti di mente e di cuore.  Piuttosto che parlarne qui allego in appendice un racconto dal titolo "L'avvocato dei poveri e qualche sua vicenda".  Attraverso quel racconto conoscerete la persona alla quale alludo, tanto di vivace ingegno quanto di grande modestia; leggendo se vi aggrada lo scritto che presento come racconto ameno, non vi meraviglierete se sentite dire che egli visse e finì come nacque.  Povero nacque e povero morì lasciando ai suoi larga eredità di affetti e il conforto di sentirlo ricordato con simpatia e riconoscenza da tanti urbinati ed anche da forestieri.

Ho ricordato sopra il sindaco Ing. Falasconi ed ho detto che a lui si deve la risoluzione dell'allora problema idrico della nostra città.  Vale la pena ricordare l'avvenimento specialmente oggi che qui non si fa che parlare di deficienza d'acqua e del prossimo impianto di un nuovo acquedotto con sorgenti al Monte Nerone.  Ma io mi riferisco, come ho detto, al periodo cha va dal 1890 a quello del 1910.

Ecco: prima del 1908 i rifornimenti idrici ci venivano dai pozzi di cui ogni casa urbinate era fornita.  (Le vecchie case hanno ancora i vecchi pozzi, negli scantinati o nei fondi ma oggi affatto trascurati).   C'erano poi i così detti pozzi pubblici come quello del Pian del Mercatale, della Prima Barriera di Porta Nuova, di S. Domenico, della piazzetta denominata appunto "Piazza del Pozzo Nuovo" oggi quasi tutti coperti ma che si resero utili nel periodo dell'ultima guerra quando bombardamenti o devastazioni resero inservibile l'acquedotto.  Il sottoterra del territorio urbinate era ricco di acqua tanto ricco che a detta degli storici serviva fin dalle guerre romane ad abbeverare i "semoventi" di cui erano ben dotati gli eserciti dell'antica Roma.  L'amministrazione Falasconi rimise sul tappeto la questione, riprese studi e progetti precedenti modificandoli e, per ragioni economiche e altre che non qui il caso di riferire, si scartò la sorgente del precedente progetto che doveva essere Monte Boaggine (zona Carpegna - Villa Grande) e ci si attaccò alle "Cesane" E l'attuale insufficiente acquedotto ha origine da quelle colline.  

Ma a proposito di acquedotti voglio qui ricordare una delle vecchie "mascherate" che gli urbinati solevano fare il giorno di mezzaquaresima (segavecchia) a scopo di beneficenza.  In uno degli ultimi anni dell'ultimo decennio del 1800 la consueta mascherata ebbe per tema appunto l'acquedotto.  Erano di solito mascherate satiriche anche questa di cui vi parlo, portava "in giro" i progetti per l'acquedotto.  Il mio ricordo è preciso: Nella piazza del mercato delle erbe fu innalzata una fontana fasulla ma ben fatta e con meccanismi interni da far scaturire acqua a volontà.  Poi un corteo di maschere vestite da servette, da lavandaie, da... osti, arrivò in piazza e l'acquedotto fasullo viene inaugurato lanciando l'acqua prima in aria poi addosso la gente, mentre al coro delle maschere, accompagnato da organetti canti sull'aria della romanza del campanaro dell'operetta "Santarellina" allora in voga.

E' tanti e tanti anni che l'acqua ci manca

Ed era ormai stanca la nostra città.

E più avanti:

Si sperò dalla Boaggine

Discendesse per Lavagine...

E giù giù su questo tono fino ad arrivare a questa "osanna" in istretto vernacolo:

Accident ma tut Urbin

Manca l'acqua, è cher el vin (*)

Accident ma chi padron

Ch'en san di' che parolon (**)

 

(*) Il vino su riteneva caro, perchè costava quattro soldi il litro.

(**) Si alludeva ai consiglieri comunali che non sapevano fare che discorsoni.

 

E la canzone si chiudeva:con questa, invocazione che parodiava le parole del "campanaro" dell'Operetta:

Osanna alleluia il vino plebeo

gloria in excelsis deo

Amen amen.............  

 

E per quanto niente abbia a che fare coll'acquedotto voglio accennare ad un'altra mascherata in relazione ad un altro problema cittadino: La ferrovia S. Arcangelo-Urbino.  Da poco era stata inaugurata la ferrovia Urbino-Fabriano ma si voleva il prolungamento a S. Arcangelo anche per servire l'alto Montefeltro e mettersi in comunicazione con l'arteria Ancona-Bologna.  Quindi agitazioni, comizi, articoli nei giornali.  Dirò di passata che lì per li non se ne fece nulla, poi si cominciarono i lavori a brevi tratti che contiuarono fino al 1923 e raggiunsero parecchi paesi feltreschi, ma, poichè i lavori procedevano a tronconi, il treno non poteva essere attivato, ragion per cui questi si troncarono e la ferrovia S. Arcangelo-Urbino è ancora un pio desiderio.  Una mascherata di mezza quaresima ebbe per centro di interesse o satira che dir si voglia l'argomento in parola.  All'imbocco del corso Garibaldi dalla piazza, fu fatto l'imbocco della galleria.  Mi spiego: la strada è ostruita da una specie di tendone attaccato da una parte al "palazzo nuovo" e dall'altra al palazzo "Castracane".  Il tendone raffigura l'imbocco del tunel; un'arcata spalmata di nero-fumo e sopra questa didascalia: "TUNNEL DEI CAPPUCCINI DI LA' DA VENIRE".  La piazza è la stazione.  Ecco che arriva il treno da S. Lucia, via Raffaello.  Il treno è preseduto da alcune pariglie di... somari che trainano la... macchina, la macchina è un carro camuffato molto bene da locomotiva cui non manca il camino fumogeno e la guardina con il fochista e macchinista nelle tipiche divise e facce del colore di Lumumba dietro altri carri camuffati da vagoni dai finestrini dei quali spiccano visi di viaggiatori e viaggiatrici, poi il bagagliaio pieno di... fieno che chiude.

Il treno si ferma in piazza (ce n'è voluto per fermare gli asini motori!).   Si presenta il capo stazione col fischietto in mano, scende dal treno il capo-treno con un trombone ad armacollo, si fanno avanti le autorità con tanto di sciarpa tricolore attorno alle loro abbondanti epe, gran cilindri in testa alti a un dipresso un bel metrò, mentre la banda improvvisata suona l'andante della "Marianna la va in campagna".  Un gran discorsone di saluto della maschera rappresentante il sindaco in ciabatte e maniche di camicia; tutti fumano anche per la locomotiva che non fuma affatto.  Ma bisogna partire per... S.  Arcangelo e allora il capo-stazione grida: "Partenza!".  Risponde il capo treno con un gran "pronti".  Squilla la tromba "tata" e i somari dopo aver recalcitrato alquanto e ricevute parecchie frustate sulle orecchie, scalpitano e il traino si muove.  Alcuni facinorosi vestiti da cantonieri ferroviari si avvicinano al tunnel e con una valanga di randellate rompono il tendone d'accesso al corso e permettono al treno di entrare in galleria che poi altro non è che il Corso Garibaldi o, come dicevano i nostri vecchi, "Strada Nuova", mentre il sindaco, voglio dire il cittadino mascherato da sindaco, lo saluta pronunciando con gran enfasi:

Un bello e orribile

mostro si sferra,

corre gli oceani

corre la terra

corrusco e fumido

come i vulcani

i monti supera

divora i piani

accompagnato da una salve di fischi... E cosi la ferrovia Urbino - S. Arcangelo è inaugurata.  Peccato che a sessant'anni dalla sua inaugurazione il treno ancora ci deve passare e ormai ci si è messo il cuore in pace che non ci passerà più...

Ma ho scantonato alquanto perchè se non isbaglio parlavo di persone in vista nel ventennio (non confondiamo: voglio dire nel ventennio 1890-1910) e a queste debbo fermarmi.  Altri se crederà di farlo, potrà occuparsi di persone e fatti più recenti che del resto sono ancor vivi nel ricordo dei più e non solamente degli anziani.

 

Una figura di nobile di antichissima famiglia, si vuole che la casata risalga all'anno mille, era il Conte Ubaldini: imponente nella persona, attillato nel vestire sempre in nero con sparato bianco, scarpe di pelle lucida (una gran distinzione per quel tempo la pelle lucida) che scricchiolavano da sentirle a notevole distanza, cordiale con tutti anche con gli umili e povera gente.  Era si può dire l’ultimo discendente di sì nobile antica e storicamente gloriosa famiglia che sapeva col suo contegno austero e dignitoso mantenere il tono che ad essa famiglia conveniva.

In contrasto con lui, il Dott. Domenico Gasperini certamente più dotato di beni di fortuna, ma un convinto socialista (il socialismo era allora agli albori) fanatico tribuno malgrado possedesse parecchi poderi e la professione medica, che esercitava con un certo valore specie nel campo della ginecologia e ostetricia, gli permettesse di vivere materialmente da gran signore.  Era in buona fede; quando parlava di socialismo si elettrizzava, si commoveva e riusciva a trascinare le folle.  Nessuno credo, e nemmeno gli avversari, gli rinfacciavano il contrasto con le idee che predicava e la floride condizioni della famiglia.  Credo facesse anche del bene nei confronti dei poveri in attesa che nel cielo della internazionale socialista spuntasse il "sole dell'avvenire".  Al suo nome è intitolata una strada della città nuova anche perchè con il sorgere del fascismo egli subì persecuzione, ebbe la casa devastata (e fra i devastatori c'erano parecchi suoi ex compagni di fede socialista passati per opportunismo e per desiderio di menar le mani, allo squadrismo) e dovette riparare a Roma dove si dedicò esclusivamente all'esercizio della sua professione e dove morì.

Malgrado la predicazione del dottor Gasperini e di altri correligionari nel ventennio di cui parlo non si ebbero nell'urbinate deputatati socialisti e nemmeno amministrazioni socialiste; qualche amministrazione di blocco così detto popolare formato da socialisti, repubblicani, radicali, ma di breve durata perchè l'accordo fra quei partiti, specie fra quello socialista e quello repubblicano come del resto avveniva nella Romagna e nelle Marche non c'era; non ci poteva, essere, accordo fra i due partiti proletari che si contendevano il primato sul popolo lavoratore.  Durante l'amministrazione bloccarda si ebbero sindaci repubblicani come l'avvocato Budassi che ho citato a proposito della "Fuga d'Angelica" e l'ingegnere Falasconi pure citato sopra a proposito dell'acquedotto.  Sindaci socialisti no; se mai assessori socialisti.  In quanto a deputati non ci fu nessun socialista; si ebbe invece per una quindicina d'anni un onorevole repubblicano il Prof. Angelo Battelli un luminare delle scienze fisiche e matematiche, nativo del Montefeltro ma politicamente valeva nulla.  I voti che ricevette nelle varie elezioni erano voti personali non certamente dei repubblicani che erano allora come oggi quattro gatti, o per dirla con le parole del Carducci quattro noci in un sacco... Erano i feltreschi che votavano per i loro illustri figli a qualunque partito appartenessero, anche se monarchici... Erano i ben pensanti che votavano per questo repubblicano amico con tutti: monarchici, clericali, preti e provvido di favori coi suoi elettori.  Beh! dei favori ne fece moltissimi a enti e privati; a Sassocorvaro fece"pareggiare ai regi" un istituto privato di pura marca clericale e quel ginnasio che tuttora funziona oggi governativo, porta precisamente il nome di "Angelo Battelli".  Si vuole che si sia molto adoperato per rendere promiscua la Scuola Normale Bernardino Baldi con gran vantaggio per le ragazze provenienti dalla Scuola Tecnica; si dice che di altri problemi si sia curato e con buoni risultati ma la Ferrovia S.  Arcangelo - Urbino che tanto vantaggio avrebbe apportato alla sua terra feltresca.  Riuscì a farne iniziare i lavori che ad altro non servirono che a combattere la disoccupazione di queste zone allora veramente depresse, ma non riuscì a condurla a termine e la ferrovia da quasi cinquant'anni iniziata e lì nell'abbandono più completo, salvo i fabbricati per le stazioni e i caselli per i cantonieri, usati per tutt'altre faccende, come per abitazioni private, scuole ecc.

 

A proposito della "Fuga d'Angelica" ho ricordato professori Mircoli, Bedeschi, Budassi.  Il professor Bedeschi era il direttore del corso di ostetricia per le levatrici presso la nostra Università e chirurgo primario del nostro ospedale chiamato allora di "S. Maria della Misericordia" cambiata poi la denominazione in"Ospedale Civile" da fanatici amministratori atei e massoni.  Il prof. Bedeschi godeva fama in Urbino e città vicine di chirurgo valoroso come poteva esserlo ai suoi tempi e ricordo benissimo che al solo nominarlo a grandi e piccoli passano i brividi di vena in vena perchè si diceva: "lui non fa complimenti; taglia giù...".  Beh! i complimenti non li faceva quando era necessario non farlo perchè nessuno meglio di lui metteva in atto il detto: "Il medico pietoso fa la piaga puzzolente...".  E lui di... piaghe puzzolenti non ne voleva sentir parlare.  Energico nelle cure com'era tempista negl'interventi che si risolvevano sempre in bene.  Sempre contornato dai medici locali per i quali era collega, amico, consigliere, maestro.  Quando c'erano operazioni all'Ospedale era ben difficile trovare in giro dei medici che se non erano occupati a visitare i loro malati erano a fianco del chirurgo per assistere alle operazioni.  Allora la chirurgia era, a confronto di quella attuale, nella notte dei tempi, basti pensare che l'anestesia tanto per citarne una veniva allora somministrata versando clorofornio o etere da una bottiglietta su una specie di maschera di garza o addirittura su un tampone posato tra naso e bocca del paziente qualche minuto prima che cominciasse l'intervento ed era l'unica difesa valida contro il dolore.  Ma frequenti erano le complicazioni specialmente di carattere polmonare che spesso portavano alla morte anche dopo un intervento in sé felicemente riuscito; tanto da creare lo"slogan": l'operazione è andata bene solamente che il malato è morto... Non si parlava di trasfusioni per combattere quelle carenze di sangue che si verificavano durante gli interventi... Non si facevano quelle analisi preventive in uso oggi; anche l'ambiente operatorio lasciava a desiderare dal lato dell'asepsi.  Eppure il Prof. Bedeschi bene se la cavava e con buoni risultati da far ben pensare che oggi sarebbe stato un chirurgo se non alla Valdoni o alla Dogliotti, certo di chiara fama e di abilità superiore alla comune.  

A lui si deve se l'ospedale fu nel 1906 trasferito dai locali angusti insufficienti di via Raffaello, dove ha avuto sede per decine e decine di anni, nell'attuale residenza ricavata dal monastero di S. Chiara provvedimento che fu per quel tempo salutare per l'ampiezza dei locali, per la sua esposizione... per quanto non fu risparmiata la critica non tanto sull'ambiente e sulla attrezzatura quanto per il fatto di avere il nosocomio fra il carcere e la "Corte d'Assise" e a un chilometro in linea retta il cimitero.

Ho anche nominato a proposito della "Fuga d'Angelica" il prof. Mircoli, il protomedico della città che pur non avendo una condotta aveva la cura ospedaliera: era chiamato dai medici a dar pareri; a presiedere consulti e insegnava, e mi sembra di averlo detto, "medicina legale" nel nostro Ateneo, del quale fu anche per qualche anno rettore.  Se il professor Bedeschi primario chirurgico era temuto per i suoi ferri, il Prof. Mircoli che ferri non adoperava era temuto per i suoi brontoli.  Sì, perchè se lo chiamavano quando il caso non poteva essere di sua competenza, erano scenate da oscurare l'aria.  Già alla sola chiamata e quando non sapeva di che si trattasse cominciava a brontolare.  Gli era fatica il muoversi e camminare, perchè sofferente non ricordo se di vene varicose o di gotta; era obeso e si poggiava sul bastone... Una cosa non mancava mai di fare la mattina presto: portarsi nella piazzetta del mercato e comperare qualche pollo di cui era buongustaio... Sul letto del malato si comportava da buon medico; dotato di vero occhio clinico faceva diagnosi sicure al cento per cento ma se la malattia era cosa di poco conto diceva quasi risentito senza far capire se faceva per scherzare o sul serio: "Questa è ipocondria"... Malato e famigliari inarcavano le ciglia al suono di queste parole ma tosto si rasserenavano alla spiegazione.  E lui scandiva: "Voglio dire, poltroneria... che sta meglio di me e che mi fate perdere tempo...".  E giù una strapazzata solenne ai familiari, strapazzata che tutti accoglievano con... gioia, perchè era indizio sicuro che il malato non correva nessun pericolo... Altrimenti se si trattava di male per il quale non c'era nulla da fare allora... allora diceva reciso e deciso: "Chiamate il prete!".  E purtroppo ce n'era proprio di bisogno.  "Volevo dire, continuava per istrada col collega che aveva sollecitato il suo intervento, volevo dire: chiamate il beccamorto.  Aveva questi modi di fare che la gente tollerava appunto per la sua bravura e la sua bontà di "burbero di buon cuore".

Altre personalità di quel tempo vorrei ricordare come il Dottor Professore Agrestini docente di Chimica Farmaceutica" e direttore della Scuola di Farmacia dell’Università, e sacerdoti esemplari, magistrati retti e austeri pubblici funzionari di alto valore, ma altri argomenti mi attendono, ossia altri argomenti immagazzinati nel mio ricordo voglio qui trascrivere.

 

AVVENIMENTI CITTADINI

 Ne ricordo parecchi di questi avvenimenti nei quali anch'io feci la mia brava comparsa o per meglio dire la mia partecipazione.  Ricordo benissimo quando nel 1894 fu scoperta la lapide nel frontale dell'Università in ricordo del soggiorno in quel palazzo, ospite di Bonaventura da Montefeltro, di Torquato Tasso; cerimonia solenne con discorsi, musica e gran partecipazione di autorità e di popolo.  Io rappresentavo 1'Asilo Infantile con un gruppo di miei coetanei della stessa classe e ascoltavamo i discorsi scappellottandoci l'un con l'altro (e che dovevamo fare se Torquato Tasso non lo conoscevamo e non sapevamo nemmeno se stesse di casa al Mercatale o al Monte?)  E presi parte per la stessa ragione anche alla inaugurazione del medaglione nel frontale del Municipio dedicato al famoso medico Francesco Puccinotti che fu medico curante anche di Giacomo Leopardi.  Saranno state brave persone a nostro debole raziocinio, ma che non ci ispiravano interesse per la semplice ragione che non le avevamo mai nemmeno sentite nominare... ma se ne diceva tanto bene che non si vedeva l'ora di vederlo comparire dietro la tenda che copriva la lapide e quando la tenda cadde vedemmo li appiccicato un uccellacelo nero di sinistro augurio il medaglione di Puccinotti e noi guardandolo si diceva: "Quello è Lisandre Scafulla detto Paparina", una figura di salumaio e cantante lirico di cui parlerò in seguito.  

Ricordo che in primavera quando

Zefiro torna e il bel tempo rimena

i fiori e l'erbe...

si faceva con la massima solennità la Commemorazione Raffaelesca con una tornata alla sala maggiore del Palazzo Ducale, premiazione ai migliori allievi della "Belle Arti" (Oggi Scuola per la Decorazione del Libro) uno dei migliori istituti artistici d'Italia, diretto per qualche anno dallo scultore celebre Ettore Ximenes autore di parecchi importanti monumenti italiani a Garibaldi, a Verdi, a Ciceruacchio, Tommaseo... e che diede all'Italia artisti di chiara fama, pittori, scultori, architetti e insegnanti di materie artistiche.  Poi corteo alla Casa di Raffaello e banda comunale alla sera nella piazza del Monumento, mentre per tutta la giornata era un garrire di bandiere nei balconi tanto allora era sentito il culto al nostro Divino Concittadino; mentre oggi... ma sorvoliamo.  Ricordo la gioia che provavo nel prender parte coi miei compagni di scuola bene inquadrati per quattro e sfilare per le vie cittadine! Mi sembrava che tutti dovessero guardar me come il più ben vestito...

A proposito di Raffaello voglio ricordare l'inaugurazione del Monumento che si è svolta nel 1897 e di cui ho un preciso ricordo.

 

MONUMENTO A RAFFAELLO.  Prima del 1897 il nostro Divino Pittore era ricordato in Urbino dal nostro Liceo che prende il suo nome, dal Teatro che prende il suo cognome, da qualche semibusto e dalla statua che è in, Duomo a fianco dell'Altare della Madonna della Misericordia, dono del patrizio urbinate Fulvio Corboli alla sua città e da qualche semibusto.  

Nel 1897 la città, con una sottoscrizione, credo nazionale, e con l'adesione del Governo nonché di artisti italiani si pensò di erigere all'Urbinate un monumento degno di Lui e della sua arte.  Bandito il concorso cui presero parti scultori di grido, la scelta cadde sul bozzetto dello scultore torinese, Luigi Belli, e per la verità ed a giudizio dei più e dei competenti la scelta fu assai felice.  Ricordo che allora ero ragazzetto delle scuole elementari e vedo ancora nella piazza Federico lo"scasso" del terreno per deporvi il basamento e vedo tanti miei compagni saltare nell'interno; ma lo scasso era poco profondo poco più di mezzo metro.  Poi nell'andare a scuola seguii i lavori per l'erezione del monumento che durarono parecchio.  Ricordo anche che l'arrivo della statua in un carro da trasporto come usava allora trainato da muli e somari è stato salutato dal concerto cittadino; il relativo corteo salì per il Pincio e la statua fu depositata nella piazza Federico.  Poi ci furono le solenni feste dell'inaugurazione che durarono parecchi giorni con l'intervento di artisti italiani, di autorità provinciali e regionali e nazionali e gran quantità di gente venuta da tutte le parti d'Italia e più specialmente da città e paesi vicini.

Fu invitato da parte del Sindaco della città il re allora regnante Umberto 1° che non venne per quanto tutto facesse sperare nella sua partecipazione.  Il fatto diede la stura a discorsi ironici.  C’era chi sosteneva che l'invito fu fatto in modo che il sovrano non accettasse dato che allora era preoccupazione di non poco conto la visita del re per svariatissime ragioni.  Questo fatto di una invito ad husum delphinis diede lo spunto ad un poeta scanzonato a scrivere la seguente poesia in versi martelliani (metrica alessandrina).

 

L'INVITO 

Il sindaco è ricevuto dopo molte richieste e lunga anticamera dal re in Quirinale e giunto alla presenza sovrana parla:

IL SINDACO.  

Depongo ai piedi suoi un rispettoso invito.  

La mia città festeggia con un solenne rito

L'Angelo dei pittori.  Di sua augusta presenza !

(tra sé:) Di cui a dire il vero farei tanto ben senza

Onorar dee la povera e modesta città,

Di cui sindaco sono, la vostra maestà.

IL RE. 

Grazie.  Il gentile invito ond'ella è apportatore

M'é grato sopra ogni altro e mi commuove il core;

Ma d'infinite cure sono ormai stanco e scosso

E accettare l'invito francamente non posso.

IL SINDACO (con slancio lirico).   

Non può? Che dice? Attendemi una cittade ansiosa

Che le riporti a volo la nuova avventurosa

E a me il destin serbava l'onta di riferire

Che il nobile sovrano ricusa di venire?

Ah! venga, venga; i patrii colli del natio mio suolo

Dove librano l'aquile sull'Appennino il volo

Sotto il mite chiarore della sabauda stella

Risplenderan di luce più fulgida e più bella!

Un popolo festante lo attende o maestà

L'onor di sua venuta t'imploro per pietà.

IL RE

Ebbene annunzi pure che viene il re

(Volgendosi all'aiutante di campo)

E lei disponga tutto per la partenza

II SINDACO (appoggiandosi ad una sedia)

(Ahimè !)

IL RE (invita il Sindaco a sedere e intavola con lui un'amichevole conversazione)

Conosco appena i luoghi perchè ci fui bambino

E' comoda, mi dica, la via dal mare a Urbino?

IL SINDACO

Polve africana turbina in vorticosi giri .

Credo che nei deserti meglio assai si respiri.

(il sindaco vede in questo colloquio la sola ancora di salvezza)

IL RE

Ma in compenso però la via non sarà lunga

IL SINDACO

Maestà che mai dice? Prima ch'ella a noi giunga

Cinque ore di vettura con celeri cavalli,

IL RE

Sarann splendidi i colli verdeggianti le valli.

IL SINDACO

Tutt'altro son dirupi scoscesi e son burroni

La patria naturale dei fulmini e dei tuoni.

IL RE

Possibile? E allora come mai Raffaello

Trovò il nido natio così ridente e bello?

Che nelle tele pingere solea i patrii colli

Sotto un cielo purissimo verdeggianti e molli?

IL SINDACO

Non i nostri, lo creda, son dell'Umbria i colori

E dell'Umbre colline i fulgidi splendori

Tanto che tenero ancora bambinello

Scappò per non tornare, il nostro Raffaello.

IL RE

Ad ogni modo, credo, un luogo decoroso

Non mancherà io penso dove cercar riposo.

Possedete una corte nei ricordi gentili

Bella, grande...

IL SINDACO

...Lei burla.  Una corte? Un cortile.

Varrà si qualche cosa ma per l'antichità,

Ma è indegna di ricevere la vostra maestà.

Stanze tutt'al più adatte per farne dei granai

Ma una stanza reale questo mai e poi mai.

IL RE

Ma i duchi così splendidi se la storia non mente

Vivevano secondo lei come povera gente?

IL SINDACO

I duchi erano uomini tirati su alla buona,

Malgrado lo splendore d'una ducal corona.

Armati ed a cavallo salìano i mascalzoni

Gran strepito destando, perfin su pei scaloni.

Andavan perfin scalzi e una bugia non dico,

basta guardar la statua del duca Federico!

Scrivevano in un modo da accapponar la pelle

"Dilecta matre et patre et dilecte sorelle"

Mi pigli il primo discolo che passi per la via

E non scrive con tanti error di ortografia.

Facevan le finestre grandi come i portoni;

Per lasciar ampio ingresso ad aquile e rondoni

Ed ecco perchè il Duca per far la strada corta

Passò per una finestra credendola una porta.

IL RE

Ma le duchesse adunque dormìan sopra la paglia

O attendate coi duchi sui campi di battaglia?

IL SINDACO (con slancio lirico)

Oh povere duchesse! Quando venìano spose

Piene di sogni l'anima, gentili graziose

Schiacciando i seni morbidi sulle ferree corazze

Dei fidanzati loro! Oh povere ragazze!

Lasciar per sempre i fulgidi palazzi ov'eran nate

Le sale risplendenti le camere dorate.

 

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[1] Portatore di brenta, un piccolo tino per trasportare mosto o vino a forma di lungo cono da portare in spalla