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XVIII°  Concorso  2019 SEZIONE ANTOLOGICA:
CHI SCRIVE di VITTORIO SANCHINI

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Urbino: illuminazione

Via dei
Maceri

Ultracentenari
d'altri tempi

 Discolato

Lucaraccio

Chiesa Trinità  e Filanda

Dal Pianaccio alla Piazza

 

Chi scrive,  racconto autobiografico che descrive il periodo dalla nascita ai 17 anni, quando consegue il diploma Magistrale. Vengono descritti costumi e persone tipici del ventennio 1890 - 1910 (ndr).

 

Chi scrive è un vecchio urbinate pensionato che per rompere la monotonia della sua giubilazione gli è venuta l'uzzola di ricordare la vita della sua città nel periodo che si può considerare a cavallo di due secoli e precisamente dell'ultimo decennio dell'ottocento e del primo del novecento valendosi della memoria che a sì rispettabile distanza d'anni la sente, a suo sollievo, ancor fresca.  Molti dei ricordi sono piuttosto frammentari; sono quasi visioni che si disperdono sull'ala del tempo.  E per meglio ricordare lo scrivente farà il cicero pro domo sua vale a dire parlerà di lui, il che gli darà occasione e spunto per intercalare le notizie che particolarmente e personalmente lo riguardano con quelle che riguardano questa mia cara città

culla dei miei avi, terra diletta.

Io nacqui, mi hanno sempre detto, nelle primissime ore di una bellissima giornata di settembre.  (Non ve ne importa niente? E grazie lo stesso) Nei primissimi crepuscoli della mia memoria oltre ai visi dei miei genitori, vedo quello scarno della mia nonna materna;

alta solenne vestita di nero

che mi voleva un bene dell'anima.  Era essa che mi conduceva sempre a spasso giacché mia madre doveva lavorare in casa da sarta e mio padre era occupato allo studio perchè quando lui si sposò era ancora uno studente universitario.  (Non glie ne serbo rancore, diamine! di tanta fretta).  Vedo adunque mia nonna che per uscire, si copriva la testa con uno scialle nero (scialina) che a quei tempi le donne del popolo portavano ripiegato a triangolo che dalla testa passava sulle spalle e scendeva sulla schiena.  (Dico subito, fra parentesi, che le signore della nobiltà e dell'alta borghesia portavano il cappello, copricapo di gran distinzione, con piume, nastri e spilloni come i moschettieri del re di Francia, quelle della media e bassa borghesia si coprivano il capo con il velo; nessuno, donna o uomo che sia, usciva per istrada a capo scoperto che la moda di sans capeau oggi largamente usata anche in pieno inverno, non era accennata nemmeno dai ragazzi; sarebbe stata davvero una bella originalità girare per istrada a capo scoperto! Lo facevano i barbieri come... "marchio di fabbrica").  

La mia nonnina/adunque che mi voleva un gran bene, ripeto, per istrada parlava con me di cose serie come fossi stato un adulto (quando morì io potevo avere cinque anni) e mi diceva spesso che quando io vidi la luce del sole, volendo intendere, beninteso, quando nacqui, era ancor notte alta... 

«Ma se era ancor notte alta, saltai su una volta a dire io, come ho fatto a veder la luce del sole? (ma che logica!) »

«E' un modo di dire, nipotino mio».  Chiaro però che se non c’era la luce del sole doveva ben esserci nella stanza dove mia madre

con gran dolor m'ha partorito...

come scrisse non ricordo quale poeta, la luce di una candela o di una fumigante lucerna a petrolio che questo a quei tempi era il normale sistema di illuminazione casalingo ed anche cittadino.  

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Urbino: illuminazione

Via dei
Maceri

Ultracentenari
d'altri tempi

 Discolato

Lucaraccio

Chiesa Trinità  e Filanda

Dal Pianaccio alla Piazza

ILLUMINAZIONE PUBBLICA IN URBINO fra 1800 e 1900

A questo punto apro una lunga parentesi per parlare appunto del sistema di illuminazione di quei tempi.  Niente luce elettrica; qualche lume a gas nei caffè nelle farmacie e nei negozi di gran lusso.  Le vie erano illuminate da lampioni retti da bracci di ferro che ancora si vedono nelle nostre vie secondarie e che oggi sostengono lampade elettriche.  Ho l’impressione però che allora si dovesse vedere più di adesso.  Ricordo i lampionai che fra lusco e brusco si vedevano girare per le piazze e le vie cittadine,con una lunga scala in ispalla con in cima due ferri a uncino da fissare sull'asta e il pentolino del petrolio, carburante di larghissimo impiego, sulla mano sinistra.  Li si vedevano arrampicarsi nella scala, riempire il serbatoio dell'olio minerale, come il volgo chiamava il petrolio, accendere e... discendere.  Alle prime luci del giorno ecco il lumaio che con un lungo tubo e senza scala in faccende a spegnere con un poderoso soffio nel tubo la di cui estremità è sistemata vicino la fiamma.  Dirò a titolo di informazione che a luna piena non si accendevano lumi bastando per la bisogna i chiari e bianchi raggi della "casta diva".  Ritorno ai lampionai che qualcuno chiamava anche"lumai"; ricordo che quando costoro passavano per le piazze e per le vie erano spesse volte guai perchè specie quando il lumaio doveva girare o un per fila-destr o per fila-sinistr, il lungo arnese che portavano sulle spalle andava a sbattere o sulla testa di qualche passante o rompeva i vetri di qualche finestra di piano terreno con conseguenti questioni fra lumai e colpiti che finivano sempre con la ragione del del lampionaio, che se non l’aveva la voleva.  E ricordo una di tali scenette.  Ero fermo in cima a via Valbona quando vedo il lampionaio della mia contrada soprannominato "el Mat" da quanto era savio, che scala in ispalla e pentolino nella mano sinistra dalla piazza infila via Valbona (allora la mia famiglia aveva trasferito la sua dimora in "Via Barrocci già S. Giovanni").   Una donna dalla cima di via Lavagine lo chiama e gli grida:

«O Mat, csa te preper da cena stasera?».  El mat fa un dietro front e risponde: «En t'avev det ch'voi el stoccfiss sa le fev cott?» (non ti avevo detto che voglio lo stoccafisso con le fave cotte? - Da ora in avanti scriverò fra parentisi la traduzione delle frasi più ortodosse del vernacolo urbinate).  Nel fare il dietro-front la scala dovette seguire la manovra del portatore e la parte posteriore di essa colpisce la tuba (cappello a cilindro) di un signore che proprio in quel momento passava di lì.  Il cilindro ruzzola a qualche metro lontano e il signore, che per l'appunto era il sindaco della città (niente popò di meno), montò in bestia redarguendo severamente il suo dipendente (i lampionai erano dipendenti comunali e alcuni di essi compreso il "matto" si definivano"pubblici ufficiali illuministi comunali").   Questo pubblico ufficiale non si scompose gran che e rispose un po’ altezzoso al suo principale: un po' in italiano un po' in dialetto: «Aveva da stare attento "lui" che i' en ci ò minga i occh mal cul...» (Doveva stare attento lei che io non ho gli occhi nel sedere).  Non ricordo quale seguito abbia avuto la vertenza che del resto fece smascellare dalle risa i presenti.  

E per chiudere con l'argomento della illuminazione, dirò che la luce elettrica fece una provvisoria apparizione nella nostra città nel 1897 in occasione delle solenne feste per l'inaugurazione del monumento li Raffaello per tener fede alla promessa fatta dai programmi dei festeggiamenti che la piazza Duca Federico dove il monumento fu allora allogato (traslato al Monte cinquant'anni dopo) e le principali vie cittadine sarebbero state illuminate a giorno.  Finite le feste e, diceva il popolino, "finiti i quattrini", si smobilitò la "luce a giorno" e si ritornò a quella "a notte" cioè ai cari vecchi lampioni.  Finché nel 1899, se ben ricordo, l'amministrazione comunale si modernizzò in fatto di... illuminismo e fece il gran sforzo finanziario di un impianto elettrico definitivo che è quello vigente tuttora; la relativa energia ci veniva da Fermignano.  

Ma ritorno ai casi miei e cioè al giorno fatidico della mia nascita.  Nacqui, lo ripeto anche se non ve ne importa un fico secco, di buon mattino tanto buono che era ancor... notte.  Ma quando la "lucerna del mondo" come Dante chiama il sole, si trovò alto sull'orizzonte i civici palazzi, le torri, i balconi si ammantarono di bandiere che garrirono per tutta la giornata al sole settembrino e le scuole e gli uffici, e le officine restarono chiuse in segno di festa... la sera concerto in piazza con programma, d’occasione... Ma intendiamoci; nessuno pensi che la città facesse festa perchè era nato e "vagìa" nella sua culla questo zero d'uomo che sono io, ma perchè il giorno della mia nascita combaciava, per dir così, col diciottesimo anniversario della Breccia di Porta Pia e conseguente caduta del potere temporale dei papi.  Era adunque festa nazionale.  Curioso: io e i miei fratelli nascemmo tutti in giorni ricordativi: mia sorella il giorno di Natale, mio fratello, ultimo rampollo della stirpe e purtroppo il primo a lasciare questa vita terrena, il primo giorno dell'anno che era anche il primo giorno del primo anno secolo, 1° gennaio 1901 tanto è vero che gli fu imposto il nome "Primo" pur essendo il terzo.  Ma io divago troppo.  Ritorno a bomba.

La nonna volle che i miei genitori mi rinnovassero il nome di un suo figlio morto appena ventenne e per il quale portò il lutto fin che visse.  Fra parentesi: questo affare di portare il nome di uno zio morto giovanissimo creò in me, specie negli anni della romantica gioventù la persuasione che anch’io sarei morto prematuramente anche perchè un mio maestro di scuole elementari che aveva il sistema di segnare nelle pagelle e nei registri le note caratteristiche dei suoi scolari a me riservò queste note: divagato e di poca salute.  Ho sotto gli occhi la fotografia della scolaresca di quell'anno (1899-1900) e vedo con un senso di dolore che dei trenta scolari tre soli sono ancora in vita: io e un mio carissimo amico del quale avrò occasione di parlare in seguito.  E i deceduti, quando io ero "divagato e di poca salute", erano sani come lasche, forti come tori... Non faccio commenti...

La via dove sono nato é quella dei Maceri a fianco del Pian del Monte.  La nonna mi diceva che Maceri era un pess gros (un pezzo grosso) vissuto al tempo del duca Federico che faceva dì mestiere l’alabardiere (la nonna storpiava bene questo nome difficile).  La verità è che in quei paraggi nei tempi andati ci doveva essere un maceratoio non so di che cosa (di guado, pianta tintorea blu, ndr).  Ora che sono vecchio mi è sempre caro di fare una capatina in quella strada che vide la mia infanzia.  Non ci sono notevoli cambiamenti da quel tempo; una casa o due rimodernate.  Tre case recentemente fabbricate dove ai miei tempi c'era un orto.  Passo e ricordo e rivedo gli abitanti di quel tempo.  Proprio così ricordo uomini e cose.  Ecco in quella casupola, e tale è rimasta, ci stava un anziano che si chiamava di soprannome Pinza che dava fior di granatate alla moglie e davanti ai nostri occhi; la moglie, una povera scema, fuggiva di casa ridendo e tutti dicevano che lui era un avanzo di galera e lei una povera pazza.  In quell'altra casa ci stava Pansa un uomo tutta pancia; più in là Polenta un lattivendolo in gioventù e poi c'era la casa di Pundorin che aveva fatto l'ortolano dell'arcivescovo; e poi c'erano Magnagatt,  la Bafara, la Gambina d'argent e Manon, un infermiere.  Tutti o quasi tutti, meno Manon, anziani e provenienti dalla campagna che avevano abbandonata per invalidità.  L'urbanesimo allora avveniva per invalidità congiunta all'anzianità specie quando le famiglie campagnole si erano disgregate, il che avveniva però molto raramente.  La via dei Maceri, forse perchè vicina, allora, alla campagna, godeva la prerogativa di essere preferita dagli ex contadini.  E si trattava di "vecchioni" alcuni dei quali avevano superato anche i novant'anni.  

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Via dei
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Ultracentenari
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 Discolato

Lucaraccio

Chiesa Trinità  e Filanda

Dal Pianaccio alla Piazza

ANEDDOTO SUGLI ULTRACENTENARI

E a questo proposito voglio ricordare e mettere alla meglio in carta il racconto che uno di questi vecchi, però ancora arzillo di mente e di corpo, fece una sera di piena estate mentre, sdraiati per terra, mio padre ed alcuni altri del vicinato si stava a godere il fresco all'aperto dato che la strada non era sede di... passeggio.  Racconta il vecchio con gran enfasi e in una forma letteraria tutta contadinesca:

«Ai temp mia (miei) la gent campeva 'na mucchia (molto).   N'ho conosciuto i' de quei ch'aveven fnit i cent'ann... Campeven di ann perchè lavreven, beveven, en fevne i stravisi, s'alseven prest e givne a lett sa le galin...».   Per meglio intendere la storia io la trascriverò in italiano salvo qualche frase dialettale che darà maggior colore ai dialoghi.  

«A temp del pepa in Urbin se steva propri ben.  I poret troveven da magnè tut i giorn ti convent i ova ne devne cinque sa 'n sold, el pen era ner mo era per nó sincer... - continua il vecchietto - Negli ultimi tempi del governo papale arrivarono e si sparsero prima nelle campagne urbinati i sodati piemontesi per prenda Urbin.  E la presero infatti dopo una battaglia nella quale ci rimise la vita uno svizzero nella piazza all'inizio di via Lavagine.  Questo disgraziato, molto coraggioso del resto non volle consegnare arm e bagai come fecero i suoi compagni.  (A questo proposito dico che in seguito a questo avvenimento quando due o più persone si fermavano in quel punto c'era sempre chi diceva, e questo lo ricordo anch'io, non ci fermiamo che qui c'é morto uno svizzero!...).  Prima che i soldati piemontesi provenienti dalla Romagna entrassero in città un colonnello accompagnato da altri ufficiali percorreva a pia (a piedi) uno stradino che dalla Piv de Cagna (Pieve di Cagna) porteva a Montcalend mentre il grosso della truppa procedeva per la strada maestra.  Ad un certo punto gli ufficiali si fermarono presso un vecchio contadino che a giagia per terra piagneva propri d'gust (steso per terra piangeva forte).   Il colonnello lo interroga:

«Che cosa vi è successo nonnino per piangere cosi a dirotto?»

«M'ha mnet (bastonato) mi pedre».

«Vi ha bastonato vostro padre? Ma quanti anni avete voi?»

«So' bocchet ti ottantadue el mes de dlà (Sono entrato negli ottantadue il mese passato) ».

«Ottantadue anni e avete il babbo vivo?»

«E perchè avria da essa mort? (e perchè dovrebbe essere morto?) - rispose risentito il vecchio asciugandosi le lagrime - Vedete signor caporale è chel vecchj che va su per cla rampeta (stradetta in salita) sa chel fasc de bregh tle spalle (con quel fascio di legna grosso sulle spalle)». 

Il generale divertito di questo incontro conforta il vecchio con queste parole:

«Be' calmatevi il mio uomo che quando prenderete moglie non vi ricorderete più di queste busse paterne».

«Chiappè moj i'? fossa mat! n'ho pres quattre dle moj: due n'ho spedite al campsant e le altre due m'han piantet e adess so'arnut a viva sa mi pedreMa ohè! sa lo tocca filè dritt sinò c(i)gnet da caschè (il vecchietto aveva preso quattro mogli, due gli erano morte due l'avevano piantato e lui ritornò a vivere col padre col quale bisognava rigar diritto altrimenti botte da gettare a terra)».

«Vi saluto nonno, gli dice il colonnello» il quale raggiunse il babbo del bastonato, lo ferma e gli chiede:

«Voi siete il padre di quell'uomo laggiù?»

«Per mi disgrezia perchè me fa dannè l'anima e el corp»

«E l'avete bastonato?» gli disse con severo cipiglio.

«Perchè le vostre legg proibischen ma i genitor da coreggia i fioi quand en ubdischen

«Non lo proibiscono ma io domando: che cosa avrà fatto di male un vecchio di quell'età per trattarlo così duramente?»

«Csa ch'ha fat? Ah! gnent! ha trattet mel el su non!»

«Avete detto il suo nonno?»

«Me per! E quel vecchio che sta a sedere davanti la porta d'chesa nostra; quella malassò...»

«Ma scusate quanti anni avete voi? So bene che vostro figlio ne ha ottantadue...»

«... e i' n'ho novantotto... Mi pedre ha centosedic ann... I' me so' sposet prest com'han fat tutt i Sorci...»

 «I sorci?...»

«Si noi siamo tutti Sorci... Sapet ansi, che macché in ste poder ce stann da ducent ann i Sorc e tutti c'hann fat tant de cappell perchè i Sorc èn statti tutti fior de galantoni...»

«E i signori Sorci hanno fatto tutti il soldato?»

«S'l'han fat! Penset che un Sorc è stat per fin sa Napolion tla Russia che com vo sapret è mille migli dla da Roma e ha passet la... Tresina (evidentement la Beresina), ch'sè bagnet tutt e ha pres un rafredor che ancora 'i ha da passé perchè l'acqua era giaccia.  I' da giovin so' stat a fè el soldeta sa un cert... un cert... e chi s'arcorda el nom de chel generel! C'é el somar del pret ch'se chiema lostess... Ah! Garibald.  I e mi pedre me pèr ch'avem fatt la nostra part e ades en ce nit a rompa i coion da nì sa voialtre, che stavolt nè i' nè mi fiol en ce freghet, piuttost ce dem resistenti alla leva (renitenti alla leva) ».

«Però che fibre! Disse il colonnello continuando la sua via verso Urbino...»

Vera o no questa storia io l'ho raccontata come la sentii allora e come spesso la ripeteva mio padre per dimostrare la longevità dei vecchi nostri di un tempo.

 

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Via dei
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d'altri tempi

 Discolato

Lucaraccio

Chiesa Trinità  e Filanda

Dal Pianaccio alla Piazza

 LUCARACCIO

 Ricordo un altro abitante del vicinato.  Uno scanzonato di nobili sensi e di educazione così fine da guadagnarsi il peggiorativo del suo nome di battesimo, Luca.  Era un calzolaio anzi un ciabattino che, quando ne aveva voglia, il che avveniva ben di rado, e quando il tempo era buono che col tempo cattivo si rinchiudeva in qualche osteria (a quel tempo si diceva che le osterie di Urbino erano 666) e lì a bere ed ubriacarsi e poi tornare a casa a bastonare moglie e figli.  La moglie che doveva procurare il pane alla famiglia andando a lavorare a giornata. Stanca di busse un bel giorno dopo esser picchiata afferra un bottiglia piena d'acqua e la rompe della testa di Lucaraccio che da quel avvertimento, che gli procurò alcune ferite suturate nel vicino ospedale, si guardò bene dal menar le mani sulla donna e sui figli.  

Dicevo che quando era tempo buono metteva il suo bischetto fuori della porta e lì a tirar spago, batter chiodi, tirar di lesina accompagnando il lavoro cantando pezzi d'opera con discreta voce e giusta intonazione che l'uomo aveva buon orecchio.  Allora la musica lirica era la delizia non solo dei cultori di Euterpe ma anche del popolo lavoratore e passando per le strade si sentiva nelle case il canto di qualche tenore improvvisato "La donna è mobile" o " Di quella pira" di un soprano che lavava i piatti al canto "Addio del passato - Bei sogni ridenti" o di un baritono che rincorre i figli col motivo "Cortigiani vil razza dannata" e nelle osterie si sentiva spesso il coro dell'Emani "Beviam beviam del vino beviam..." o quello del Fra Diavolo "il vino mantien la forza nel sen..." o il brindisi della Cavaleria Rusticana "Viva il vino spumeggiante..."

Un giorno mentre Lucaraccio stava lavorando cantando a voce alta l'invocazione di Edgardo della Lucia "Tu che a Dio spiegasti l'ali" ma lui da perfetto scanzonato parodiava con queste parole: "Tu che a Pio pestasti i calli", gli si avvicina un contadino che gli chiede se sapeva dirgli dove stava el maestre Pepp (era il maestro Peppe un ometto che per sbarcare il lunario raccoglieva a casa sua i ragazzi del "Monte" facendo loro un po' di scuola per dieci soldi al mese; una scuola privata che nei mesi estivi frequentai anch'io e con un certo profitto.

«Ch'sa che dett?»,

«M'aveto da diro dove sta tun chesa el mestre Peppo

E Lucaraccio:

«Csa ch'é fat, è cac... tel lett? E me 'l vieni a di' ma me? Di' ma tu moj che cambi i lensol»

«M'aveto capito malo; m'aveto da diro dove s'alloca el maestre Peppo.»

«Ho capit; ho capit; l'è fatta tel lett; magna men e bev de piò e vedrò che un'altra volte en te succed»

Noi ragazzi che assistevamo al dialogo ci si faceva le gran risate.  Alla fine Lucaraccio gli dice:

«Ah! vó parlet del maestre Giuseppe»

«Propri lo quel sopp» (era zoppo il maestro in questione)

«Sta malà!»,

«Dov...?»

«MALA' t'ho det! Onna se stupid! (onna, espressione dialettale che indica una gran quantità).  Sta tun cla chesa dop quella sa i scalin... Va oltra ch'tel digh i' quand ce se' arrivet...»

Il contadino si mette in moto e Lucaraccio dopo averlo fatto alquanto camminare gli grida dietro:

«Le passeta! Torna indietra...»

E il contadino torna indietro, fa qualche passo e sente che Lucaraccio gli grida:

«L'é passeta un'altra volta; va avanti»

E cosi lo manda avanti e indietro per qualche tempo finchè il contadino stanco piglia la ricorsa si appressa al suo... informatore e gli dice:

«Me chiapeto (prendete) in giro, tu me cojoni?»

E stretti i pugni si accinge a farli sentire a Lucaraccio, il quale afferra il trincetto e sta per scagliarsi sul suo avversario.  Questi mette la destra in tasca e ti tira fuori un acuminato coltello e ci sarebbe scappato non dico il morto ma perlomeno il ferito se un carrettiere che stava di casa lì presso non fosse accorso ai nostri urli e non avesse separato e disarmato i contendenti.  Sono passati quasi settant'anni ma ho ancora presente quella scena che potrei far da testimonio in tribunale ancor oggi e riferire tutti i minimi particolari...

 

Ritorno a me o per meglio dire a questa benedetta Via dei Maceri che vide fiorire la mia infanzia.  Di fronte alle casupole che ho detto c'era e c'è tuttavia la grande fabbrica dell'ex convento degli Scalzi oggi e da più di sessant'anni adibita a colonia agricola per minori traviati, sezione della Casa di Rieducazione, allora completamente disabitata la di cui custodia era affidata ad un ortolano che ne curava alla meglio il vasto scoperto.  Era allora proprietà comunale come tutti gli ex conventi espropriati dallo Stato alle congregazioni religiose.  Vale la pena ricordare questo fatto: l'amministrazione comunale del tempo pensò di usare lo stabile e annesso largo scoperto per una scuola agraria di cui si sentiva la necessità.  E poiché il comune con le sue finanze non poteva permettersi il lusso di mantenere una scuola, insegnanti e attrezzatura, cedette allo Stato locali e terra a patto che la vi istituisse una "scuola agraria" di grado, sia pure, inferiore, ma scuola pubblica cioè aperta a tutti specialmente ai figli dei rurali.  Invece lo stato vi istituì bensì una scuola di agricoltura pratica ma come sezione della casa di rieducazione che allora era una "casa di pena" per i minori condannati per reati comuni; un carcere insomma che il volgo chiamava discolato. E così gli urbinati di allora e relativi amministratori rimasero, come si suol dire, contenti e canzonati.  La chiesa, un vero gioiello d'architettura, fu adibita nel corso degli anni a usi vari, magazzeno, palestra ginnastica, rimessa, finché con lodevolissimo recente provvedimento rimessa a posto e restituita al culto.
 

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Via dei
Maceri

Ultracentenari
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 Discolato

Lucaraccio

Chiesa Trinità  e Filanda

Dal Pianaccio alla Piazza

[DISCOLATO]  La mia casetta come quasi tutte quelle di Via dei Maceri aveva ed ha le finestre che dominano si può dire parte della città e si affacciano sui tetti delle case di Via Raffaello e la mia casa specialmente aveva di fronte la grande mole della sopra detta Casa di Rieducazione.  Di questa ho un ricordo infantile impressionante che non mi è stato mai facile dimenticare.  Si tratta di un ammutinamento di giovani reclusi.  Avrò avuto cinque anni di età e mi vedo affacciato ad una finestra della mia casa tenuto ben stretto dalle mani di mia nonna terrorizzata.  Di lì potei vedere ciò che avveniva in quel sinistro stabilimento attraverso le inferiate dei finestroni.  Già in precedenza si era sentito parlare del trattamento veramente inumano cui erano sottoposti quei disgraziati figlioli, tanto è vero che i genitori di quei tempi quando volevano spaventare ben bene i loro figli indisciplinati minacciavano: "Ti metto nel discolato"; una cosa da far paura!  Queste paroline, non fo per dire, me le sono sentite fischiare spesse volte agli orecchi anch'io.  Adunque quei minori che scontavano nel carcere che avrebbe dovuto essere correzionale colpe non loro ma degli ambienti in cui erano vissuti in libertà (sì alcuni anzi buona parte le avevano fatte ben grosse: omicidi, parricidi, rapine e non dico quante ladronerie!) venivano sottoposti a dure punizioni che, lungi da correggerli, accrescevano nel loro animo la ribellione e la insofferenza ad ogni disciplina.  Il personale stesso di vigilanza era costituito di secondini usi a trattare con ergastolani, vale a dire con la feccia della società non più ricuperabile al vivere civile; feccia anche loro dato che allora era ritenuta vile la professione del "magazziniere di carne umana" com'era definito il carceriere e perciò i più negati ai più elementari sensi di educazione e di pietà.  Un pomeriggio, adunque, verso il tramonto giunge agli orecchi degli abitanti dei Maceri e vie adiacenti un sinistro rumore di vetri e suppellettili che si infrangono accompagnato da urla di ragazzi e di secondini che minacciano e percuotono... Si corre alle finestre e si vedono dietro le inferiate scene tremende: secondini che lottano con i reclusi, reclusi che scappano gridando disperati.  Per quanto la mia buona nonna volesse trarmi dalla finestra dove osservavo con terrore ciò che avveniva in quel tetro casamento, io non ristetti dal guardare specialmente i ragazzi arrampicati alle inferiate che chiedevano aiuto e secondini infuriati che li staffilavano e ben forte.  Sentivo la gente che dal di fuori, dalle finestre, dai tetti che gridava e le donne in massima parte: "Vigliacchi, carnefici, risparmiate la carni di quei poveri bimbi".  Ma ormai non mi regge il cuore di descrivere più a lungo queste angosce, nè di riviverle in tutta la loro tragicità.  Dirò solo che dopo qualche ora di questo inferno il chiasso cominciò ad affievolirsi e cessare quasi del tutto.  Nei corridoi girano carabinieri e soldati a dare man forte agli agenti per sedare il tumulto.

Si seppe poi che i giovani più che alle minacce e botte, si erano arresi alle paterne esortazioni degli ufficiali dell’esercito... Ma sì! Nella notte si sentirono urli di giovani ai quali i secondini facevano pagare, specie a quelli ritenuti i caporioni della rivolta, il fio della loro ribellione.  Quando penso a quel fatto e al trattamento inumano che si riversava a quei poveri scarti della società e lo metto a raffronto con gli attuali sistemi di correzione e rieducazione dei ragazzi traviati, sistemi che se non scevri da qualche imperfezione sono però improntati ad una pedagogia correttiva moderna ed umana; non mi resta che dire che anche in questo campo molto si è fatto e molto si farà per il bene sociale.  A proposito di quell’ammutinamento sentii dire più tardi, ma in modo molto confuso che ai poveri ammutinati erano state rincarate le pene che dovevano scontare, ma si seppe anche che il ministro della Giustizia fece piazza pulita dal direttore ai carcerieri, e ciò perchè pressato dalle proteste dei cittadini di ogni ceto e della stampa.

Le finestre della mia casa natale mi ricordano un'altra scena che però oggi non mi dà pena il ricordarla.  Dalle finestre della mia casa si vedeva la sottostante città fino alla piazza e in isbriscio la grandiosa mole del duomo con la sua bella artistica cupola e il suo brutto campanile, brutto rispetto quello di S.  Francesco e alle snelle torri del palazzo ducale.  Una sera il campanile si trasforma in fiaccola ma non certamente in quella "olimpionica" causata o meglio accesa dalla caduta di un fulmine durante il temporale della giornata.  Di giorno nessuno se n'era accorto ma quando le tenebre cominciarono a calare le fiamme e il fumo si fecero ben distinguere.  Da casa sento il vociare della gente che corre verso il centro e le grida delle donnette che credono che dal campanile del duomo abbia inizio l'Apocalisse, o perlomeno la distruzione della città.  Mi vedo nella finestra della camera dove mia nonna allettata da parecchio tempo per la malattia che la condurrà alla tomba e guardo le fiamme che s'alzano al cielo.  Ricordo che la mia nonna chiedeva con sospensione d'animo:

«E dove mi porterete a morire se il fuoco arriverà alla nostra casa?»

«Eh! prima che arrivi qui se ne dovranno bruciare delle case» rispondeva mio padre.  Io non so perchè, avevo in mano un vecchio Crocefisso col quale qualche volta giocavo.  E la nonna mi disse:

«O Ririn (essa mi chiamava con quel diminutivo del mio nome) cessa il fuoco?»

E io:

«Seguita sempre e si fa sempre più bello, (volendo dire più vivo) »

«Prega, prega quel Signorino che hai in mano che lo faccia cessare»

«Nonna è tanto che lo prego che me lo ha detto anche mamma ma non mi dà retta.  Gli debbo dare una c(i)gnata? (bastonata)».  

Ricordo che mia nonna si scrupolì, ma finì col ridere della mia scappata.  Il cupolino andò distrutto ma le fiamme si fermarono lassù sebbene poco si fece, e non si poteva far di più per quei tempi, per lo spegnimento.  Il vecchio cupolino era ben fatto come la cupola della chiesa.  Fu surrogato con un altro che è quello attuale, su disegno di un professore di... calligrafia.  Ci furono, ho saputo molto più tardi, polemiche e critiche e l'autore del disegno fu tartassato abbastanza dalla stampa.  Uno scrittore scanzonato scrisse che la gente era entusiasta di quel sopracampanile e voleva il... bis; ma altri incendi non si verificarono.  Allo scoprimento di quel capolavoro la gente agitò i fazzoletti e gridò ad una voce: "Bravo! bene! Vogliamo il bis".  Ma il bis non fu accordato perchè altri fulmini si guardarono bene dal toccare un simile cimelio che è ancora lassù, sulla punta estrema della città di Raffaello della città che vive dell'arte più pura.  E il cupolino, che sembra piuttosto un pentolino rovesciato, domina il più alto pinnacolo della città a rendere ancor più brutto il massiccio campanile del duomo che funziona anche da torre civica perchè ivi dimora da secoli il campanone civico dalla voce sonora e armoniosa che da secoli ha la funzione di suonare per le solennità religiose, per quelle civili (suonò a gloria nientemeno anche per la presa di Roma sopra la testa dell'Arcivescovo che non poteva certo gloriarsi della caduta del potere temporale dei papi...) per la chiamata dei "padri coscritti", i consiglieri comunali, in adunanza come si fa per chiamare le "api nei bugni vuoti".  

E' ancora alla via dei Maceri che vi riporto per muovere con me a fare una visitina nella zona del "Monte" come la si denominava allora e che oggi porta il pomposo nome di "città nuova" perchè ci è andato a stare Raffaello ossia il suo Monumento e nel giro di un ventennio appena si è popolata di case moderne e... Ma procediamo con ordine.

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Urbino: illuminazione

Via dei
Maceri

Ultracentenari
d'altri tempi

 Discolato

Lucaraccio

Chiesa Trinità  e Filanda

Dal Pianaccio alla Piazza

[SS. TRINITA' e FILANDA]  Nel tempo cui si riferisce la mia povera descrizione via dei Maceri sbucava nella piazzetta antistante la chiesa degli scalzi e perla verità da allora non si è mossa di un pelo dal suo posto.  Una breve rampata e siamo alla sommità di Via Raffaello.  Di fronte altra rampata e, allora e fino ad un ventennio a questa parte, dopo una ventina di metri ci si trovava di fronte alla chiesa della SS: Trinità, non officiata, con annesso altro convento anche questo il tutto di proprietà comunale.  Il convento era adibito a filatoio di seta ed era denominato appunto "Filanda" la chiesa era adibita a magazzeno della medesima.  La chiesa non era troppo grande ma a tre navate.  Si conservava il campanile senza campane beninteso ed aveva un vasto orto.  Il filatoio funzionava due mesi all'anno e precisamente nei mesi estivi e le povere filandaie lavoravano dieci o dodici ore al giorno guadagnandosi una lira giornaliera, le maestre, le esperte vogliamo dire; dodici soldi le sottiere, quelle che stavano al comando delle maestre, e sei soldi le allieve.  Eppure si accontentavano e quel piccolo guadagno serviva loro a pagare i debiti, dicevano, fatti durante l'inverno.  Era bello e poetico, passando sotto i finestroni del filatoio, sentire quelle voci femminili sciogliere i loro canti tra il rumore dell'acqua cadente e degli arcolai che giravano:

Scarpette nere segno di gelosia

Prima tu eri mia ed ora non lo sei più...

oppure:

Avete le bellezze di Sant'Anna

Gli occhi neri di Santa Lucia

Prima tu eri mia ed ora non lo sei più..."

oppure

Fareste innamorare il re di Spagna

Di Francia, d'Inghilterra e di Turchia

Prima tu eri mia ed ora non lo sei più..."

Erano versi alla buona ma toccanti cantati com'erano con tanto sentimento da quelle povere lavoratrici.

 

LA FILANDA

E a proposito della filanda voglio subito ricordare che le necessità del filatoio consigliarono i dirigenti del medesimo a trasformare il vecchio e inservibile campanile in ciminiera per smaltire nel miglior modo il fumo delle caldaie.  L'intelligenza del geometra che ideò il lavoro consigliò di non abbattere il campanile ma di far passare nell'interno di esso il camino e farlo uscire dalla sommità per qualche metro di altezza.  Ne uscì fuori un massacro di architettura che per decenni fece bella mostra di se sull'alto del monte assumendo la sagoma di un bottiglione che uscisse dal tetto con un collo lungo lungo.  

 

 

A questo fatto è legato un ricordo di quando ero studente intorno al 1906.  Non ricordo se anche allora ci furono polemiche per questo obbrobrio di lavoro; ricordo solo che il professore d'italiano, che era un socialistone battagliero e fervente, per una delle prove d'esami trimestrali, come si praticava allora ogni tre mesi nelle scuole secondarie, ci diede per tema di componimento questo tema: "Un Campanile trasformato in ciminiera.  Pensieri e riflessioni".  Io sempre divagato, come mi aveva qualificato il maestro delle scuole elementari, e poco propenso a pensare e riflettere me la cavai così:

«Svolgimento: Il campanile della Trinità ha cambiato fisionomia e sesso: prima era un campanile adesso è una ciminiera.  (Punto e basta)». 

Ricordo che il professore segnò in calce uno "zero" grande come un pallone volante ma poi ripensandoci ci aggiunse un "più" per significare che qualche cosa avevo scritto.  Rimasi male ma pensando che il professore poteva aver ragione, sì perchè il mio svolgimento poco... svolgeva, lo pregai che mi restituisse il foglio che avrei aggiunto quello che mi era rimasto sulla penna, cioè i pensieri e le riflessioni.  Il professore, molto gentile del resto, me lo restituì ed io aggiunsi questi pensieri e riflessioni:

«Prima le campane col loro monotono rintoccare rompevano i timpani alla gente, oggi il fumo ostruisce le narici alla medesima4».  

Il professore trasformò lo "zero più" in " due meno".  I miei compagni più furbi di me ben conoscendo le idee materialiste e rivoluzionarie dell’insegnante si sbizzarrirono ad esporre idee di alto livello sociale e antireligioso.  Ne cito qualcuno:

Adamo C.  definì la chiesa torbido antro dell'oscurantismo e aggiunse che lui lo sapeva per esperienza, essendo stato cinque anni seminarista, e chiamò la ciminiera bandiera e segnacolo di civiltà basata sul lavoro illuminato dai benefici raggi del sole dell'avvenire.  E un nove non glie lo levò nessuno.

Vico B.  che si atteggiava a poeta citò i versi carducciani:

Gittò la tonaca

Martin Lutero

Gitta i tuoi vincoli

Uman pensiero.

Augusto D.  scoperchiò la tomba di Giordano Bruno per invitarlo a levarsi "per cavalcare la fronte dei nostri eserciti proletari e distruggere chiese e relativi campanili; quelle covo della reazione, questi disturbatori della quiete pubblica".  Invito pressoché inutile perchè il filosofo nolano mai ha avuto una tomba in quanto, come tutti sanno, fu messo al rogo a Campo dei Fiori a Roma e le sue ceneri si dispersero per l'aria.

Mario C.  vituperò il cranio di Pio IX che da vivo non voleva mollare Roma all'Italia e se la prese anche con un conte urbinate per il solo fatto che era "cavaliere di cappa e spada del papa".

Ci fu chi scomodò la Vandea, chi l'inquisizione di Spagna, chi rievocò la sinistra figura di Torquemada, inquisitore e carnefice, e chi se la prese persino con le missioni cattoliche che strappano gli schiavi ai negrieri per consegnarli anche più schiavi ad uno schiavista bianco che è il papa...

Domando ora: che c'entrava tutta questa roba con un povero campanile trasformato in camino! Eppure tutto questo mandò in brodo di giuggiole l'ateo professore che pochi anni dopo ritornò al Creatore coi richiesti conforti, diceva la partecipazione, dei crismi della nostra santa religione.

Ora il campanile-ciminiera non c'é più, demolito come fu demolita chiesa e convento durante il fascismo per fabbricarvi la Casa del Balilla della quale furono innalzati anche i muri perimetrali e sarebbe sorto davvero un bel edificio; un bel collegio con palestre coperte e scoperte, piscine, imponenti camerate, se il 25 luglio cessarono i 1avori che rimasero a mezzo per una decina d'anni finchè i muri che si screpolavano non furono abbattuti per farvi sorgere come c'è infatti in efficienza il Palazzo della Scuole Medie e superiori sull'architettura del quale non mi pronuncio (dovrei dire che è una bella infamia, ma mi si risponderebbe subito che io non posso intendermi di arte contemporanea).   

E lasciamo la Trinità col suo campanile-ciminiera col suo convento-filanda e la sua chiesa mercato di bozzoli e ridiscendiamo la breve rampata portiamoci davanti la casa di Timoteo Viti, uno dei primi maestri di Raffaello e diamo una guardata al pian del Monte come era allora.  

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Urbino: illuminazione

Via dei
Maceri

Ultracentenari
d'altri tempi

 Discolato

Lucaraccio

Chiesa Trinità  e Filanda

Dal Pianaccio alla Piazza

PIANACCIO E ARCHITETTURE DAL MONTE ALLA PIAZZA

Ecco: dove ora c'é il Monumento a Raffaello e pubblico giardino. C'era allora un bastione un po' sopraelevato dalla strada che tutti chiamavano il "pianaccio".  Ivi andavano a giuocare i ragazzi, a fare qualche partita a bocce i grandi e le donne dei Maceri e case vicine ci andavano anche a sciorinare il bucato; bella veduta del panorama feltresco.  A destra del "pianaccio" (figure in fondo pagina), dato che il muro di cinta del pianaccio faceva parte delle mura castellane della città, una porta sul genere di quella di Lavagine ma più piccola sormontata da una rustica casetta.  Una porta che durante una dimostrazione di minatori fu facilmente abbattuta.  Ma di questo parlerò in seguito.  A sinistra dove ora c'é l'inizio della così detta "panoramica" c'era un piano al disotto del livello stradale.  Non c'erano case in quei paraggi e dove ora ci sono solamente due vie ampie: la Rocchetta e il Giardino; il resto campagna e incolta anche.  Ricordo che quando quei del Monte volevano o dovevano discendere in piazza dicevano: "vagh in giò, ho da gì in giò".  E andiamo in giò anche noi percorrendo Via Raffaello che attualmente non differisce da quella di allora.  A metà via Raffaello a sinistra e dove ora ci sono gli uffici della Casa di Rieducazione c'era il vecchio Ospedale denominato di Santa Maria della Misericordia.  Giunti a piedi della discesa e attraversato l'imbocco di Via Bramante c'é a sinistra come ognuno vede, l'albergo Raffaello ma allora era una casetta modesta e bassa che si univa alle altre fino alla chiesa di S. Francesco con botteghe rustiche assai e che chiudevano quella che è oggi la piazza del Mercato o delle Erbe che allora era un cortile interno del convento francescano, anzi si dice che fosse la "tomba dei frati" dato che durante i lavori di sistemazione vennero alla luce una enorme quantità di ossa umane.  In seguito le casupole furono abbattute e quello che si chiamava il "cimitero dei frati" divenne la "piazza del mercato delle erbe e della frutta" una piazzetta come si presenta ancor oggi graziosa assai con la tettoia del mercato coperta, alberata, sormontata a destra dall'artistico vecchio campanile di S.  Francesco che risale come il porticato della chiesa omonima, al trecento ed è tutto un ricamo con la sua elegante cuspide cui dà maggiore armonia il concerto delle campana dalle voci severe e dolci che invitano davvero alla preghiera.  Il mercato, prima della piazzetta attuale si svolgeva nella Piazza Maggiore.  La "Piazza Maggiore" era allora, e lo è pressappoco anche adesso, ciò che è il cortile per gli inquilini delle case delle grandi città.  Si chiamava "Piazza VIII Settembre" a ricordo della presa di Urbino da parte dell’esercito piemontese e passaggio allo Stato italiano, come ho ricordato nelle pagini precedenti a proposito della longevità dei vecchi di un tempo.  Allora non c'era, e si capisce, il movimento che c'é oggi; ci si fermavano le così dette diligenze per viaggiatori, qualche landò signorile, e i perdigiorno a chiacchierare del più e del meno.  Durante due mesi estivi ogni domenica sera ci faceva un servizio musicale, il concerto cittadino; ci si svolgeva qualche comizio politico, i di cui oratori concionavano "utile, paziente e bastonato'', come era scritto nella testata di un giornale illustrato del tempo.  In mezzo alla piazza un obelisco con basamento ad ara romana smontato per dar luogo, dopo il funzionamento dell'acquedotto, ad una fontana: un obbrobrio di architettura demolita (in vero, smontata e reclusa nei sotterranei del Palazzo Scolastico, ndr) in seguito anche quella per dar maggior spazio alla piazza che la vita moderna esigeva coi suoi mezzi di trasporto.  Oggi la piazza è denominata" Piazza della Repubblica" a ricordo dei recenti eventi politici che trasformarono l'Italia da monarchia a repubblica. 

Notevoli cambiamenti nelle altre zone cittadine non ne posso annotare perchè non ce ne furono e, se pure ce ne sono state, non furono tali da rimarcarsi.  E del resto Urbino è oggi divisa in "Urbino vecchia" e "Urbino nuova" che è la zona del Monte e adiacenze popolata di nuovi edifici, di case moderne, di vie ampie (???) dove prima della guerra non c'erano che campi prati greppi e fossi.  Qualche accenno di sventramento, ma non quanto ce ne sarebbe bisogno, in qualche viuzza, qualche casa nuova o rimodernata entro la cinta castellana e... fermi lì.  Ma non voglio dilungarmi ancora in questi noiosi ragguagli e ritorno a me, il che ripeto mi darà occasione di parlare in maggiori dettagli della vita della mia città nel ventennio a cavallo dei due secoli... come in principio annunciai.

 

 

 

 

 

 

 

 

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