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CONVERSAZIONI DI PALAZZO PETRANGOLINI  2008

RICORDO DI PAOLO VOLPONI:  IL SIPARIO DUCALE


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Il sipario ducale

G. Mosci: Premessa

Silvia Cuppini

Catia Migliori

Antonio Fontanoni

IV di copertina

 Un'Italia attaccata da un morbo secolare, invasa da piaghe turpi e da escrescenze impure, illuminata e ottenebrata dalla luce cupa delle bombe di piazza Fontana a Milano, è quella che Volponi fa riaffiorare al di là del composto « sipario » di Urbino e dei suoi domestici televisori. Un'Italia che ai due diversi ordini di personaggi in cui il romanzo si articola, appare comunque indecifrabile, lontana, straniera, un'altra « storia »: ma in base a interpretazioni e strategie e programmi di segno opposto. Dalla poliedrica specola televisivo-urbinate, infatti, si sporgono e si ritraggono   i superstiti eredi e « ministri » dei conti Oddi-Semproni, perduti e spenti (tra demenza e furbizia) in un impossibile sogno « ducale » ; e i vecchi anarchici e amanti Subissoni e Vivés, chiusi ma ben vivi dentro i loro ricordi di Guadalajara. Nella lucida coscienza critica della sua donna e nell'istintivo rifiuto opposto alla prepotenza da una serva derelitta, ideale « creatura » di lei, il farneticante e immaginoso antinazionalista e antiunitario Subissoni (ultimo dei grandi folli e diversi volponiani) trova l'indicazione di una scelta emblematica : uscire dal ben munito conforto della « casa », spezzare la gabbia preziosa di Urbino, lacerare il « sipario », abbandonare il « teatro » delle nostalgie e dei rimorsi per misurarsi con la « peste » di una « storia » centralizzatrice, livellatrice e autoritaria che si può ancora cambiare. Ben radicato — con i suoi miti e conquiste di consapevolezza — nel filone maestro della problematica di Volponi, questo romanzo presenta anche alcune sostanziali novità : la mancanza di un protagonista preordinato, che matura invece attraverso le progressive interazioni tra le due serie di capitoli alterni (le due storie parallele) ; l'adozione — per la prima volta lungo un intero romanzo — della terza persona, con dichiarati interventi esterni dell'autore, come in un romanzo all'antica; il più accentuato ricorso al comico-grottesco, in continua lotta con le indulgenze e « innocenze » urbinati ; la funzione motrice dell'intelligenza « quieta e forte » di Vivés; tutto questo sembra rivelare un più esplicito, quasi programmatico, atteggiamento di distacco- partecipazione critica dello scrittore, che scaturisce dall'interno stesso della potente « corporalità » volponiana e delle sue attive contraddizioni, in una tensione di ricerca implacata e feconda.

Gian Carlo FerrettI

 

 

IL  GIORNO mercoledì 25 giugno 1975

 IL NUOVO ROMANZO DI PAOLO VOLPONI

Dietro il sipario la verità nascosta.  L'elemento chiave del romanzo

è lo schermo televisivo, un simbolo di quella storia ufficiale che manipola i fatti.

 di GIULIANO GRAMIGNA

 

 «Memoriale», il primo libro di narrativa di Paolo Volponi, porta la data del 1962; «La macchina mondiale», del '65; poi un lungo intervallo fino a «Corporale» uscito nel '74; e ora, a distanza di appena un anno, un nuovo romanzo, «Il sipario ducale». Questo genere di reperti ha, s'intende, scarsa importanza ermeneutica e critica. Tuttavia la contiguità cronologica con «Corporale» può diventare un dato di lettura, collegando anche e-steriormente il nuovo romanzo con il precedente (il vero collegamento avviene all'interno). Sebbene, in un colloquio con Lorenzo Mondo, Volponi abbia collocato alla radice del «Sipario ducale» un «risentimento verso la critica» e una sfida («volete il romanzo tacile, capite solo quello? Eccolo qua...»), il libro in realtà non rinnega per nulla «Corporale» con la sua magmaticità e i suoi tormentati e necessari sperimentalismi (per inciso, bisogna riconoscere che la prospettiva sia pur breve del tempo ha reso giustizia a «Corporale» che appare la proposta recente più coraggiosa e autentica di un testo insieme globale e «disseminato»). Insomma: «Il sipario ducale» non è, a dispetto delle apparenze, né un romanzo tradizionale, cioè antisperimentale, né un romanzo semplice, cioè senza volume. La lettura che si tenterà qui sommariamente sarà diretta a difendere un'opera di vera forza, integrità, complessità anche contro il rischio di un «successo» malinteso, falsato.

Il teatro del «Sipario ducale» (e si vedrà che particolare pluralità di significati acquisti il termine «teatro») è Urbino, su cui si proiettano le vicende di una coppia di anarchici reduci dalla guerra spagnola, Vivés Guardajal e il professor Gaspare Subissoni; e di un'altra coppia parallela, il giovanissimo conte Oddino Oddi-Semproni e il suo tirapiedi-autista pubblico Giocondo Giocondini. Il tempo storico è quello del dicembre del '69 con la strage alla Banca dell'Agricoltura di Milano. E' stato sottolineato che le strutture (apparenti) del racconto sono quelle di un romanzo «canonico» con i suoi bravi «personaggi» e luoghi identificabili, che le avventure di Subissoni-Vivés si alternano a quelle di Oddino-Giocondini, un capitolo per coppia, anche se verso la fine la ripartizione non è più rigorosamente rispettata. Che Subissoni rappresenta un altro di quegli emarginati, «diversi», folli congeniali a Volponi (da Saluggia a Crocioni a Gerolamo Aspri): feroce oppositore dell'unità d'Italia come gaglioffa e fittizia imbracatura che ha spento nel Paese ogni reale libertà e intelligenza, soffocando le autonomie locali (i suoi testimoni sono Pisacane e Cattaneo) etc. La notizia delle bombe di Milano turba i due a-narchici e specialmente Vivés, chiamata a ripensare tutto il proprio passato e futuro («io sento che sto ricominciando o cominciando...»). Ma la morte di Vivés interrompe questo ripensamento e traumatizza all'estremo Subissoni, che tuttavia trova uno scam-"n lina ragione di continuare (o -un transfert, psicanaliticamente?) nell'assumersi la protezione. di Dirce, dolce e inflessibile bimba-puttana campagnola, che Oddino voleva fagocitare nel suo «teatrino» nobiliare.

Ebbene: tutti questi dati o informazioni, a mio giudizio, sono ancora inessenziali al libro di Volponi. Essi trattengono il lettore alla periferia del testo, dove esso è più semplice e commerciabile, ossia non è ancora testo. Si vorrebbe invece indicare qui, sia pure grossolanamente come impone lo spazio, quali sono i condotti, le strade che conferiscono i sensi molteplici di questo «Sipario ducale», cioè come esso produce la propria significanza; insomma individuare le «voci» che parlano nello spessore del libro.

La vera presenza dominante, il significante chiave del romanzo è lo schermo televisivo, il riquadro lattiginoso davanti al quale Oddino passa gran parte delle sue giornate e a cui gli stessi Subissoni e Vivés angosciati chiedono un senso, magari da contrastare, da negare. La Tv è così la «Voce», non solo in senso stretto, materiale, ma anche simbolico, a livello di rappresentazione letteraria simbolica, di quella Storia ufficiale che manipola i fatti, uccide, impone le colpevolezze,- secondo la logica ottusa, caparbia, eterna del potere. Essa è dunque il Significante irresistibile di quella Unità i-taliana che Subissoni detesta. Questa voce-immagine ubiqua e mistificatrice, meccanizza la Storia e gli uomini e s'identifica, come una minaccia, con le bombe e la strage. essa è la «comunicazione» di quella peudo-storia  che si serve delle bombe per affermarsi; è dunque, in questa sua «larghezza», una delle invenzioni più affascinanti e originali del testo. La televisione, «occhio-mente di Ciclope», si affianca e insieme si contrappone al «teatrino»: teatrino è (per Subissoni) l'Italia unitaria; teatrino è anche l'Urbino borghese e conformista: come tali, questi teatrini rientrano nella voce, nel «codice» della Stona delle stragi. Ma teatrino è pure il mondo chiuso di Oddino, dove egli si proietta idealmente le sue filmine gratificanti, di giovin signore  di potente in nuce; e lo è il corpo stesso di Subissoni (vedi pag. 113) dove sussulta, ondeggia, crolla e si riprende una «diversità».

Subissoni e Oddino riscrivono, ma in modo opposto, il codice dell'automa. Ma mentre ciò che vi è di meccanico, di burattinesco in Subissoni, che Volponi volentieri accentua (i suoi gesti scoordinati, il suo marciare sbilenco, lo stesso occhio bianco e piangente, accecato da una baionetta franchista...), non è nient'altro che la reazione al fluido elettrico di polemica, di «rifiuto» concreto o di lotta che gli viene da Vivés, gli automatismi di Oddino sembrano quelli della statua di Condillac, i cui sensi e affetti siano condizionati non dall'odore della rosa ma da un'immagine morta della propria importanza, dei propri previlegi storici.

In Vivés si manifesta, invece, il codice «doppio» della azione e dell'immobilità meditativa. I termini non sono affatto contrastanti. Vivés si prepara ad agire sulla storia (e lo farebbe se la morte non la cogliesse) e agisce effettivamente sul racconto, soprattutto attraverso la sua capacità di concentrazione, il suo «fermarsi» in una ragione insieme speculativa e civile, il suo voler sapere per operare. E' dunque l'esatto opposto dei succubi della televisione ossia della Storia delle bombe; si pensi ai suoi quaderni, alle sue letture ostinate, allo spietato esame del proprio corpo etc. Quando il romanzo parla attraverso la voce (il codice) di Vivés, prevalgono le sequenze di carica preparatoria, di riesame, di rievocazione critica: «Vivés continuò per almeno due ore a guardare la linea dalla quale il muro scendeva verso la finestra...». Naturalmente l'immobilità qui non è abbandono o rinuncia ma equilibrio,' condensazione di forze per l'azione. Vivés certo è elemento capitale, connotante del romanzo: ma non semplicemente perchè arricchisca la galleria dei personaggi femminili volponiani con una nuova immagine dolce e fiera. In Vivés, oltretutto, si fondono e coesistono le due facce grottesca e tragica del libro.

«Grottesco» è, naturalmente, il codice che comprende la maggior parte, se non tutte le tirate, allocuzioni, uscite, pantomime di Subissoni. Una lettura come quella che si è cercato di suggerire, riesce a ristabilire nel suo giusto valore anche certi aspetti del libro che parrebbero rientrare negli schemi romanzeschi tradizionali. Si prenda per esempio il monologo di Subissoni nelle prime pagine: esso non è il vecchio monologo, il «trucco» e-spressivo attraverso il quale l'autore raggiunge il fine pratico di presentare ai lettori il suo protagonista, di somministrare loro tutto il carico di informazioni che ritiene necessario alla comprensione della storia. Vi esplode, né più né meno, uno dei discorsi che reggono il libro, la voce del delirio (calcolato), del paradosso polemico, della «violazione del normale» tanto cara a Volponi.

La voce della Storia delle bombe (in cui viene inglobata anche la marionetta Giocondo Giocondini, ilare servo pieno di macchinazioni e di stupidità); la voce degli automi; la voce della meditazione-azione: ecco alcuni dei livelli o sensi che si mescolano nella treccia del romanzo di Volponi e che ho cercato di separare per comodità di lettura. Dalla loro mescolanza nascono quegli effetti di deformazione mitico-fantastica che Volponi fa subire alla realtà storica e geografica senza mai abbandonarla per l'astrazione e senza mai tradire la sua ideologia civile. Per questo il libro ha una densità e insieme una trasparenza rarissima negli esempi di questi ultimi anni.

 

 

 

PAESE SERA venerdì 1 agosto 1975

  Una intervista con lo scrittore: politica e letteratura

VOLPONI: LA RAPINA DELL'INTELLIGENZA

Nella nuova situazione - dice il vIncitore del premio Viareggio -

si ha la sensazione che qualcosa sia finita per sempre

e che si possa cominciare a costruire il nuovo

di DANIELE DEL GIUDICE

  

PAOLO Volponi, due settimane fa, era a Viareggio per ritirare il premio letterario versiliese, assegnato con senno al suo Sipario ducale. Era arrivato con la giacca appesa ad una spalla, la cartella al braccio e un'aria da lavoratore in un ambiente in cui tale qualifica non potrebbe essere attribuita a molti. Dell'intervista che gli feci allora, la parte più letteraria la usai per le corrispondenze; ma di quel dialogo, iniziato e interrotto più volte nei due giorni del premio a causa delle cerimonie e dei preparativi, sono avanzati alcuni argomenti riguardanti, in modo più generale, la cultura e la politica. Riportarli può essere utile: non perché la visione della realtà di uno scrittore, al di fuori della sua riproduzione nei romanzi, abbia valore particolare o comunque superiore al giudizio di un politico o di un economista; ma piuttosto perchè queste riflessioni testimoniano di un mutamento, o anche soltanto dell'esigenza che esso avvenga, in una classe ambigua, doppia, polivalente, come è quella degli intellettuali.

A Volponi, che alla vigilia delle elezioni del 15 giugno aveva fatto dichiarazione di voto comunista, pagandola poi con l'allontanamento dal segretariato della fondazione Agnelli, avevo chiesto come dovesse intendersi la presa di posizione di molti intellettuali (di tanti fino allora incerti) a favore del partito comunista italiano.

«Che sorte ha — dice Volponi — l'intellettuale in questo paese? Servire l'azienda senza avere potere effettivo, insegnare in una scuola morta, dove la ricerca non passa. La più grande rapina che il capitale ha compiuto è stata quella dell'intelligenza. E non soltanto presso gli intellettuali. Quando si costringe un operaio a fare per anni lo stesso lavoro meccanico, senza chiedergli un'opera che coinvolga la sua intelligenza, senza impiegarlo in modo che egli sviluppi la sua cultura, esprima realmente se stesso, non c'è più solo sfruttamento di salario e di braccia ma avvilimento della persona umana. Il PCI ha cercato di rompere questa concezione del lavoro, sia per l'intellettuale sia per l'operaio. Forse per questo ha riscosso quella adesione alla vigilia delle elezioni e quel risultato subito dopo».

Ritorna il vecchio discorso, il discorso di sempre: per lo intellettuale una funzione diversa da quella avuta finora, e prima ancora, un'altra impostazione del suo rapporto col reale.

«Ci sono oggi tante cose da fare: nella nuova situazione determinata dal voto, gli intellettuali possono mettere a frutto la loro capacità di costruire. Si ha la sensazione che qualcosa sia finito per sempre e che si possa cominciare a costruire il nuovo. E' finito lo Stato Italiano (non la Repubblica della Resistenza, che forse non ha mai nemmeno avuto luogo); è finito quello Stato che fece la destra storica nel '90 e nel '95, che fece il fascismo, e che trovò la sua logica conseguenza e sopravvivenza nella democrazia cristiana. Si aprono davvero possibilità nuove: se l'intellettuale vuole davvero inserirsi in questo processo, deve modificare il suo modo di avvicinarsi alla realtà.

«Io ho sempre creduto nell'industria come strumento dì produzione, come il più efficace sistema per moltiplicare i beni. Ed uno dei difetti dell'intellettuale è stato sempre la sua lontananza dall'industria, il suo approccio troppo umanistico alla realtà. La cosa più interessante, oggi, è la dinamica dell'economia, il suo rapporto con la dinamica sociale; e credo che sia necessario approntare strumenti che non siano soltanto descrittivi e interpretativi (la letteratura), ma strumenti di conduzione e di piano, strumenti utili per imbrigliare questo fenomeno e porlo al servizio di un prioritario disegno politico.

«All'intellettuale, in sostanza, chiederei di proseguire nella ricerca, nella sperimentazione (che è uno dei fondamenti del materialismo), di scrivere saggi se è un saggista e romanzi se è un romanziere, ma di sapere anche cos'è un piano regolatore o un piano di programmazione, di saperli, se non elaborare, giudicare e combattere o sostenere a seconda della loro impostazione».

L'industria, che fu al centro di Memoriale e della Macchina mondiale,i primi due romanzi di Volponi, che, seppure in un settore lontano dalla produzione, gli ha dato per ventun anni impiego presso la fondazione Olivetti, resta oggetto del suo principale interesse, come osservatore, come interprete della realtà, come scrittore. Resta anche come rimpianto per una possibilità di beneficio sociale («sistema per moltiplicare i beni», ha detto prima) non realizzata.

«Il fatto è che, secondo me, il neocapitalismo da noi non c'è mai stato. C'è stata sì l'esplosione del consumo di beni industriali, ma non una nuova concezione dell'industria e tanto meno un capitalismo cui corrispondesse, come è stato negli altri paesi, una reale e diversa pianificazione. U nostro neocapitalismo è morto sul nascere, soffocato dalla vecchia struttura economica e dall'insufficienza di poteri pubblici. Neocapitalismo avrebbe dovuto significare, prima di tutto, programmazione economica; e, se c'è stato un fallimento in Italia, è stato proprio quello della programmazione».

E all'industria sarà dedicato   il   prossimo   romanzo?

«Penso alla storia di un dirigente d'azienda con molte illusioni, che ha creduto nell'industria come grande produttrice di cultura e che ha dovuto poi scoprire che il capitalismo è sempre lo stesso ed oggi, quando ormai non può più fare prelievi sul salario, li fa sull'erario, cercando la complicità dell'amministrazione pubblica per difendere la rendita, lo penso infatti che l'attuale politicizzazione dell'industria sia da guardare con molta attenzione e molto sospetto: l'industria si è mangiata infatti il capitale, le sono rimaste soltanto le speculazioni finanziarie e gli stipendi dei lavoratori e, come ultima cosa, la produzione.

«Ecco perchè oggi cerca di diventare ministeriale, di trovare una tranquillità, di mettersi le spalle al sicuro, di sistemarsi come fosse un ufficio staccato del genio civile. Lo Stato, d'altra parte, subisce: e perchè è ricattato dai problemi dell'occupazione e perchè ha conservato la sua primigenia miopia e inettitudine. Non è uno Stato moderno il nostro, non riesce neppure ad essere uno stato paleoindustriale. E' sempre stato al servizio della grande borghesia agraria, industriale, professionale, di quella borghesia che, anche da un punto di vista capitalistico, non rischia e non ha nessuno spirito d'impresa. Ecco, in tutto questo complesso universo di sfumature, di tensioni, di masse in movimento, vorrei inserire la vicenda di un dirigente d'azienda affetto di un sogno industriale che gli si appanna e confonde, che gli si rompe in mano».       

Daniele Del Giudice