IT   EN   

Castellani incisore
[autore di 1091 acqueforti]

Paolo Bellini (1994)

Premessa

Il tempo trascorso dalla morte di Leonardo Castellani (avvenuta nel 1984) è ancora molto poco, ma forse sufficiente per tentare una lettura della sua opera più in chiave storica che critica. E ciò vale soprattutto per la sua produzione incisa poiché, se è vero che egli è stato un artista versatile in vari campi, è certo anche che la sua attenzione maggiore e il contributo suo più originale e significativo è avvenuto fra lastre, acidi e punte.


Prima acquaforte, 1928-29, mm 299 x 216
 

L'incisione, dunque. Ma non quella confusa e pasticciata di tanti artisti d'oggi, quella dove sono impunemente confluiti tanti pittori, che mai hanno inciso o acidato una lastra. No, non quella, bensì l'incisione autentica, espressa con il linguaggio che le è esclusivamente proprio, quello della punta e del segno. In Castellani incisore non troverete altra forma di espressione e in lui, che pure è stato pittore, mai si assiste a una confusione di linguaggi.

Tutto ciò, pertanto, cercherò di provare in queste pagine, che vogliono essere un commento storico-artistico della sua attività, dal quale possa delinearsi alla fine una chiave di lettura della sua opera. E ciò fondando affermazioni e giudizi su una diretta osservazione ed esame delle opere per riconoscere a questo grandissimo artista i suoi meriti anche al di fuori di quella «mitologia», tutta urbinate, graziosa e commovente, che finora spesso ha accompagnato la letteratura artistica a suo riguardo, relegando forse in secondo piano taluni meriti suoi artistici, a favore di una chiave di lettura più emozionale e amicale. Un atteggiamento, del resto, del tutto comprensibile nei riguardi di uno che è stato non solo eccellente artista, ma anche uomo di altissime qualità.

 

L'itinerario artistico: tappe e periodi

Gli esordi di Castellani incisore si situano alla fine degli anni Venti, un'epoca difficilissima per l'incisione in Italia. La situazione postbellica, i furori delle Mio padre al tavolo dello studio, 1931, mm. 319x248.seconde avanguardie e i palpiti di quell'anomalo movimento che fu Novecento avevano creato un'atmosfera del tutto particolare, dentro la quale pochissimo spazio veniva riservato dall'attenzione ufficiale agli incisori. C'erano state e c'erano per la verità alcune iniziative editoriali, degne di grande interesse, ma di scarso peso nella situazione di allora. Nel 1919 era ripresa a Milano la pubblicazione dell'«Eroica» di Ettore Cozzani; solo qualche anno dopo, nel 1924, Mino Maccari aveva fondato con Leo Longanesi «Il Selvaggio». Nel 1925 era stata eseguita la tiratura Benaglia per le incisioni di Fattori e poco più tardi Mary Pittaluga aveva pubblicato la sua fondamentale Storia dell'incisione italiana nel Cinquecento (1928), seguita di lì a qualche anno da Benvenuto Disertori, allora docente all'Accademia milanese di Brera, che dava alle stampe la sua L'incisione italiana (Milano 1931). Ma, per la verità, nonostante il valore e l'effettiva consistenza di codeste iniziative, sul momento esse non pare siano state in grado di aprire una breccia nella generale apatia della critica e del pubblico.

Eppure, a dispetto del comune disinteresse, alcuni grandissimi incisori lavoravano nel silenzioImbalsamati n.3. 1936. acquaforte, mm 299 x 216 dei propri studi, noncuranti dell'indifferenza che li circondava. Succede spesso così: la storia dell'arte lo insegna. I tempi oscuri sono stati sovente i migliori per i grandi maestri, che nel quieto nascondimento imposto dal disinteresse delle folle e con piena libertà hanno realizzato incisioni che solo molto più tardi sono state riconosciute in tutta la loro preziosa grandezza. I nomi di questi grandi «nascosti» erano quelli di Casorati, Morandi, Viviani, Bartolini, Soffici, Bozzetti, Mauroner, Molin de Ferenzona, Mezzanotte.

In una situazione come questa ha esordito Leonardo Castellani. Cimentarsi allora nell'incisione significava in partenza inerpicarsi per una strada impervia, ignorata dalla critica e dal mercato. Nondimeno Castellani vi si è avventurato. Il passo è avvenuto a Fano, ove era stato chiamato a insegnare decorazione e ceramica. Era il 1928.

A guardare quelle opere degli esordi, al di là delle evidenti ricerche chiaroscurali [1], spiccano fin da allora due solide caratteristiche, da un lato una stabile sicurezza degli impianti e dall'altro un fare meditativo lento nel procedere, senza improvvisi sprazzi o concessioni all'imprevisto. Opere lente e misurate, paesaggi e nature morte sospese in un silenzio più debitore alla meticolosa attenzione dell'incisore che non alla felicità intuitiva di un momento creativo. Castellani entrava così nel mondo dell'incisione, in punta di piedi, attentissimo e scrupoloso.

Il bello, 1939, acquaforte, mm 165x122Le cronache dicono che in quegli anni egli aveva visto alcuni fogli di Morandi [2], ma di influssi diretti, sul modo stesso di incidere la lastra, sembra ancora di non intravederne. Eppure del grande solitario bolognese Castellani doveva certo essere affascinato, non foss'altro per quel suo incedere meditativo e lento, che tanto gli si confaceva. «Il mio — dirà diversi anni più tardi — è un lavoro lungo, e questo mi rende incredulo dell'immediatezza» [3].

Nel 1930 Castellani viene chiamato a insegnare Calcografia alla Scuola del Libro di Urbino, la prestigiosa istituzione che era stata fondata nel 1925. Ma all'inizio le novità sembrano riguardare solo lo spostamento geografico, nel senso che i primi lavori urbinati dell'artista sono contrassegnati ancora da ricerche luministiche e studi chiaroscurali. La vera svolta, quella decisiva, avviene nel 1933-1934. È solo l'inizio di un passaggio, ora solo tentato e accompagnato peraltro da ritorni all'indietro, ripensamenti e poi nuovi slanci in avanti. Ma in quel 1933 dalla punta dell'artista escono opere come Ca' Quagliotti (Pozza 45), Casa Coen (Pozza 46) e GiovaneConchiglia. 1941, acquaforte, mm 255x330 Quercia (Pozza 61), e subito si avverte un'aria nuova, più spigliata e forse anche più audace. La visione è mossa, i piani sono più articolati e l'immobile equilibrio delle prime composizioni sembra abbandonato. A mio parere comincia qui ad avvertirsi qualche influsso di Morandi.

La trasmutazione è ancora più incisiva e marcata nel Paesaggio marchigiano (Pozza 71), che è del 1934. La luce sempre più invade la composizione, e quella sorta di composto e didattico bisogno di incidere ovunque e con la stessa cura la lastra cede il posto a un fare più libero e sciolto. Spariscono le ombre un po' grevi delle prime opere e qui, per la prima volta si direbbe, Castellani comincia a fare a meno delle linee di contorno, mentre per contro appare ancor meglio definita l'ombreggiatura con tratti diagonali. Si avverte in qualche modo Morandi e del resto una sua acquaforte del 1924 (Vitali 118) potrebbe aver suggerito a Castellani uno spunto inconsapevole per l'organizzazione spaziale del suo Paesaggio marchigiano.

Frutti di mare, 1943, acquaforte, mm 210x177L'artista comunque in questo periodo si muove in diverse direzioni. Sente probabilmente influssi anche da altre fonti: come non vedere, ad esempio, in Paesaggio urbinate IV (Pozza 122) un ricordo di certe vedute umbre di Disertori [4]? Qui, fra l'altro, Castellani ricorre a un punto di vista rialzato, secondo uno schema per lui inconsueto. Compare in questo momento anche un accorgimento strutturale e visivo cui Castellani farà spesso ricorso anche in seguito, costituito dalla presenza in primo piano, o comunque in un livello più ravvicinato, di uno o più alberi, molto spesso cipressi, diritti come candele verso il cielo. Paesaggio al tirassegno (Pozza 116) sembra essere il primo caso evidente di questo particolare accorgimento, ripetuto quattro anni più tardi nella Casa del cantoniere (Pozza 131) e poi ancora negli anni a seguire, con modifiche, a volte anche consistenti, quasi da non permettere più di riconoscere l'iniziale artifizio.

Nel periodo che va dal dopoguerra fino al 1960 Castellani ha stabilmente e definitivamente fondato la sua dimensione d'artista. È stato presumibilmente il suo momento migliore [5]. Dapprima ha fatto uscire dalla sua punta composizioni di paesaggio molto linde e accurate, prove sottili ed eleganti del proprio raggiunto virtuosismo nell'uso della luce. Queste incisioni, haPasseggiata preferita, 1945, acquaforte, mm 153x191 osservato Neri Pozza, «sono fra le sue opere più raffinate di bravura e di eleganza chiaroscurale, dove il mestiere la fa da padrone al punto che rischia di bruciare l'immagine» [6]. Ecco allora visioni inondate da un'abbagliante luce solare, come in Passeggiata preferita (Pozza 177, del 1945), o in Paesaggio estivo con pioppi (Pozza 188), oppure puntigliosi e raffinati esercizi di tratteggio in alcune composte nature morte.

Castellani sta crescendo e il suo soggetto preferito, il paesaggio, si arricchisce in questi anni di quegli elementi che rimarranno poi costanti fino alla fine. Il momento tipico e in qualche modo il raggiungimento di una tipologia di sorpasso avviene intorno al 1948 con Paesaggio al mattino (Pozza 245): si tratta all'apparenza di una veduta come tante altre, ma qui s'assommano, per la prima volta insieme, alcune caratteristiche che faranno di quest'impostazione il segno specifico e proprio dell'arte incisoria di Castellani. Il punto di vista innanzi tutto comincia ad essere da sotto in su, il primo piano dei radi o singoli cipressi utilizzato negli anni precedenti viene qui sostituito da una macchia di vegetazione più compatta, l'ombreggiatura è a diagonali, apparentemente disordinata, ma efficace, con gradazioni d'ombra differenti, fino a far brillare al massimo la luce solare nelle zone lasciate integre d'ogni segno.

Mondavio visto da S. Michele, 1949, acquaforte, mm 320x247Nulla però era lasciato al caso e l'artista coniugava sempre la sua personale impostazione paesistica con una diretta osservazione della natura, assunta e filtrata attraverso i disegni preparatori. Tali disegni documentano, quando vengono raffrontati con le incisioni corrispondenti, la fedeltà dell'artista nel trasporto dal disegno alla lastra, senza peraltro precludergli quelle modifiche che in fase di intaglio riteneva più opportune ) [7].

Codesta osservazione diretta del mondo naturale e gli aggiustamenti successivi in fase creativa sono state le basi su cui naturalmente si è sviluppato quell'impianto tipologico, raggiunto e stabilmente acquisito nel 1948. Esso verrà ripetuto, con mutazioni accidentali, in un crescendo di opere eccezionali nel periodo immediatamente seguente. Così in Paesaggio al mattino (Pozza 244), così in quel foglio stupendo che è Mondavio (Pozza 249), entrambi ancora del 1948, fino ad arrivare a capolavori quali Paesaggio estivo a Urbania lungo il Metauro (Pozza 256), o Il Borghetto di San Michele al fiume (Pozza 269) dell'anno successivo.

Altri fenomeni, ma di minor importanza, accompagnano l'attività di questi anni, come il progressivo abbandono della natura morta, o alcune sperimentazioni visive, attuate in una serie di piccole lastrine degli inizi degli anni Cinquanta. In esse il punto di vista appare più ravvicinato, la visione si restringe su dettagli, come singoli gruppi di alberi o macchie di vegetazione. Il tratto appare quasi più rapido e schizzato, le ombre più fratte e discontinue, spesso senza l'ausilio di alcuna linea di contorno. In queste opere — valgano come esempio Angolo di bosco (Pozza 278) e Il Palazzone dei Principi (Pozza 280) — i rapporti ormai acquisiti fra bianco e nero vengono in parte rivisti. Compaiono in due di queste lastre anche inopinate presenze umane: Paesaggio in Carpegna (Pozza 282) e Viale a Pian del Monte (Pozza 288).La collina di Gadana, 1952. acquaforte, mm 264x257

Era il 1950. Castellani viveva ormai nella quiete di Urbino da vent'anni e progressivamente si era andato spogliando delle note più spigolose della sua antica formazione grafica e aveva ora compiutamente acquisito un proprio personale linguaggio. La tecnica soprattutto, giunta a raffinatissimi esiti, non era più di impaccio alcuno alla libera e fantasiosa scelta dei soggetti, sempre più peraltro vincolati all'ambiente urbinate, alle sue mura, alle case, ai campi e alle colline.

Le note più significative del suo stile incisorio di questo periodo si concentrano in particolare sulle scelte chiaroscurali, ora più ardite, con ombreggiature forti e contrastate, allo scopo di dare risalto alle zone di luce, intense e tutte solari, avendo come interesse primario il risultato atmosferico. Gli esempi in questo senso sono innumerevoli, ma qui mi limito a citare, per comodità di lettura, una sola incisione, La villa nascosta del 1952 (Pozza 307), perché è in qualche modo emblematica delle scelte attuate. L'impianto è sempre lo stesso, ma ora arricchito da sfumature nuove, lucide zone atmosferiche, vellutate e impalpabili a confronto con robuste zone d'ombra. Contrasti intensi e non più spigolosi. Una visione che dura nel tempo, arricchendosi di continuo con successive scoperte visive, che si generano nella durata della visione da parte dello spettatore, quasi che in queste opere sia venuto meno un punto focale unico e l'occhio sia indotto a rincorrere ora qui ora là un centro mai fermo. Le gradazioni dei grigi sono molteplici (si veda Le case nuove, sempre del 1952, n. 310 del catalogo Pozza), frutto di un uso intelligente e variato della punta, e di un differenziato percorso negli incroci [8].

Pergolato a Mazzorbo, 1953, acquaforte, mm 248x332Il discorso sulle tonalità di grigio interessa soprattutto il 1953- È infatti a partire da questo anno che Castellani fa ricorso a un accorgimento che introdurrà poi in diverse altre opere. Consiste nella progressiva eliminazione dei neri e in genere delle ombre più scure, e nel contemporaneo schiarimento di tutte le altre zone, fino ad ottenere una sorta di patina che dà a tutto l'insieme un'atmosfera luminosa e squillante, il fremito dei rami degli alberi che muovendosi variano la luce, le zone soleggiate delle colline, le case imbiancate da una luminosità diffusa e decisa. Forse la prima lastra in questo senso è stata La casa di Lucio del 1953 (Pozza 328), ma poi questa esplorazione è proseguita in diverse altre opere, sempre alla ricerca di valori atmosferici e della più perfetta resa della luce. In Canale a Mazzorbo (Pozza 331), ad esempio, domina con superiore ed evidente pacatezza un'ambientazione luminosa tranquilla e composta, quasi ripetesse le movenze lente del corso d'acqua che raffigura. In altre incisioni l'artista riesce in qualche modo a fondere le due maniere, nel senso che le ombre più scure vengono immerse in un bagno di luce calda e meridiana. L'impianto prevede un percorso visivo già sperimentato, una veduta collinare da sotto in su, partendo dagli elementi di primo piano più scuri, attraverso una superficie macchiettata di zone chiaroscurali, fino lassù in alto, dove sta un cielo terso, limpidissimo e pieno di sole. La collina di Gadana (Pozza 349), che è del 1954, mostra bene queste raggiunte mete e molte delle opere degli anni immediatamente seguenti sono la replica dei risultati conseguiti.

Verso la fine degli anni Cinquanta Castellani comincia a pubblicare la rivista «Valbona» [9]. Nelle sue acqueforti intanto si manifesta una certa tendenza a dare maggior spazio alla vegetazione. Proseguirà su questa strada per tutti gli anni Sessanta, con opere «patinate di luce», con scorci di paese colti nell'ora più arroventata della canicola. I cieli infatti sono sgombri da ogni ombra, bianchissimi eppur caldi, in armonica consonanza con il resto della composizione (anche Disertori ricorreva ai cieli bianchi, ma con altri effetti).

Poi nuove sperimentazioni, nuovi soggetti, variazioni tuttavia sull'unico vero tema che affascinaCa Fabbri a Tavoleto, 1955, acquaforte, nini. 340x280 costantemente l'artista, quello di una resa atmosferica della luce. Ecco allora nel 1964 alcuni soggetti inediti e sorprendenti, come Le mura di Cagli (Pozza 463) o l'Isola Lachea (Pozza 464). Altri consimili seguiranno. Qualcuno fra loro è curioso perché ribalta uno dei cardini principali del suo impianto base, quello della vista da sotto in su. Infatti in Versante a Ponente (1965, Pozza 480) o in Pian del Melo 7/(1966, Pozza 505) il punto di osservazione cambia: ma si tratta di un episodio.

Siamo nel 1966: in alcune incisioni di questo anno, ad esempio Pian del Melo VI (Pozza 509), comincia un'ulteriore opera di lenta semplificazione, una sorta di spogliazione progressiva di ciò che ancora rimane del dato reale, sostituito da una sua traduzione in chiave sempre più personale. Neri Pozza, accennando a questo nuovo atteggiamento mentale dell'artista, è giunto a parlare di «perdita della realtà» [10]. Forse non è vero fino a questo punto, perché non è la realtà che viene abbandonata, quanto piuttosto una visione stabile e completa, normale ed equilibrata di un suo brano, per dar luogo a composizioni riservate a momenti più settoriali e particolari, brani singoli di paesaggio, più concentrati nella resa della luce e delle macchie. Sono incisioni, queste, dominate da cadenze musicali e da una sorta di astrazione ante-litteram. Fra l'altro ritorna qui con insistenza quell'artifizio, che abbiamo chiamato della «patina di luce», che l'artista aveva già tentato con successo nel 1953, presumibilmente, come più sopra si è ricordato, con La casa di Lucio (Pozza 328). Sono fogli chiari, composizioni luminose, con spazi sempre più aperti e di grande respiro. In essi si rarefanno gli oggetti della visione, in un processo di semplificazione che conduce l'artista a limitare la sua attenzione su poche cose, descritte saltuariamente e per parti, lasciando alla luce il compito di definire ciò che la punta non ha tracciato sulla lastra. Così ci troviamo davanti ad acqueforti come La casa sotto il monte (Pozza 523) del 1967, o Nubi a levante (Pozza 588), che sono una sintesi del tanto ottenuto con poco: una casa e un campo, con l'aggiunta al più di una stradicciola assolata (vedi Pozza 585 e 587), ma resa quasi con niente, lasciando la lastra integra, sino a far brillare sul foglio un bianco intenso e luminoso.

Case a Tavoleto, 1955-56, acquaforte, mm 351x249La produzione dell'ultimo periodo, quella degli anni Settanta e Ottanta, è caratterizzata da una presenza sempre più fitta di quelle acqueforti che abbiamo descritto come «patinate di luce», ove tutti i neri vengono attutiti a vantaggio dei grigi. Il punto estremo di questa ricerca appare, come già ha osservato Neri Pozza, S. Chiara (Pozza 916), «spiumata nelle esili piante, di luci radenti, portata a termine con due morsure rapidissime» [11].  In queste opere la definizione del reale rimane sempre più confinata in un'approssimazione accennata e per contro aumentano le zone lasciate bianche, nei cieli luminosissimi e nei prati bagnati dal sole.

Questa produzione è abbastanza fitta fino al 1978. Da qui in avanti l'artista entra in un altro periodo di sperimentazioni. Già nello stesso anno prova infatti alcune acqueforti con un uso di ombreggiature assai più forte del consueto, come in Monte alle Vigne (Pozza 891), o ricerca inediti preziosissimi nei riflessi acquatici di Case a Mazzorbo (Pozza 893). Sovente accompagna l'acquaforte con l'acquatinta, ma qui i risultati non mi sembrano particolarmente significativi. E del resto in un incisore puro e abilissimo come Castellani la commistione di tecniche differenti si avverte con maggior peso e lascia tracce meno cancellabili.

In questa fase sembra di assistere anche a una ripresa di motivi e soggetti delle epoche precedenti. Ritorna qualche natura morta, ritornano tipologie di paesaggi più frequenti negli anni passati. Abbonda anche in quest'ultima fase l'uso della puntasecca, per lo più in lastrine di piccole dimensioni [12]. È una pratica di indubbia curiosità e interesse perché in molti casi l'artista ripete con questa tecnica impianti strutturali e compositivi più volte provati con successo con l'acquaforte. Ciò rende leggibile con una certa facilità e agio le differenze. Il valore puro del segno si perde un po' nella puntasecca e al contrario si ampia la valenza del tocco, in chiave abbastanza pittorica, con un acceso e voluto contrasto fra i bianchi e i neri, mentre appaiono in gran parte assenti sia quelle indefinite gamme dei grigi che caratterizzano le acqueforti di Castellani, sia quella patina di luce che è il segno suo più caratteristico nella produzione più matura.

 

Dei soggetti di Castellani

Dei due soggetti trattati preferenzialmente da Castellani nelle sue acqueforti, la natura morta ha interessato l'artista soprattutto negli anni Trenta e Quaranta e ha avuto poi un secondo momento nella produzione più tarda. Rispetto al paesaggio, trattato assai più spesso, le nature morteDisegno a penna, 1962 per acquaforte, mm 355x250 sembrerebbero a prima vista in Castellani una produzione quasi secondaria. Ma giustamente ha fatto notare Valsecchi che «esse aiutano a capire meglio la sua poetica [...] Oggetti di una vita semplice, magari decaduti dall'uso [...] in questi fogli sparisce anche la lista di cielo, la densità scura prevale sui lucori che corrono sopra gli orli come improvvise accensioni di fosfori e zolfi» [13]. La pensava allo stesso modo anche lo stesso Castellani, che in Quaderni di un calcografo ha scritto: «La natura morta possiede di già una vita solitaria muta e altamente contraria all'apertura di un suono e alla stesura di uno spazio [...] Il segreto della sua vita, se così si può dire, è circoscritto all'inattività, ad una predestinazione che mai si rompe, nascosta entro l'ordine di una posizione definitivamente ferma» [14].

Da tali considerazioni ritorna al lettore una certa sensazione su quel che Castellani pensava della natura. Qualcosa che del resto si legge assai bene, costantemente, nei suoi paesaggi. È appunto una sensazione, di cui l'artista dà continua testimonianza, quasi a convincere lo spettatore che la natura, quella più vera, è senza uomini e senza movimento. È la stessa poetica delle nature morte. I paesaggi di Castellani, visti in quella luce, sembrano essere un'occasione, vagamente pretestuosa, per un momento di contemplazione, «un incanto poetico misto di verità e di grazia» [15]. Del resto, ha osservato Volpini, Castellani «è un contemplativo che passa attraverso un'intensa mediazione sensitiva, un accoglimento del reale che gli riempie il cuore attraverso gli occhi» [16] e lo stesso identico sguardo alla stessa, identica collina è per lui il segno di ciò che essa significa, «la siepe dell'infinito» [17].

I pareri dei critici su questo punto e sulla sua interpretazione, per la verità, non sono sempre identici. Se ad esempio il citato Valerio Volpini trova in questa propensione dell'artista «una vocazione, insieme alla memoria e alla descrizione» [18], per contro Floriano De Santi sostiene che «non c'è nulla di patetico nell'opera di Castellani, nessuna nostalgica effusione dell'anima, anche se quest'opera si raccoglie intorno a pochi temi» [19].

L'oppio del moscatello, 1963. puntasecca, mm 220x155Dunque è bene, comunque, rifarsi direttamente alle opere, senza lasciarsi distrarre da svarioni poetici o seduzioni di tipo letterario. Per cominciare, un dato che emerge con una certa costanza nelle acqueforti di paesaggio di Castellani è che il punto di vista in cui viene collocato lo spettatore sta sempre sotto, ed egli è come forzato a una vista da sotto in su. Tanta costanza non può essere casuale e dunque a ragione c'è da chiedersi se questo abbia un senso. Valsecchi forse ne ha accennato a un'interpretazione quando, sottolineando che lo sguardo di chi contempla l'opera è sospinto sempre «in verticale», ha specificato che ciò avviene «verso lo spazio alto del cielo pulito» [20]. Ancor meglio e più a fondo ha tentato di andare Gastone Mosci [21], rapportando questo continuo guardare da sotto il cielo con una frase che l'artista ha scritto in Vivere nel tuo paese, là dove dice «Ti insegnerei a passeggiare fra i campi e ad amare la terra» [22]. Come dire: la saggezza viene dalla coscienza di stare sotto al cielo.

Se questi tentativi di interpretazione rispondono al vero, ci si rende facilmente ragione della esigua varietà dei soggetti trattati dall'artista. Il punto fondo di quanto aveva da dire veniva espresso perfettamente nella trattazione delle nature morte o del paesaggio. Anzi, di una particolare tipologia di paesaggio, raggiunta, come si è visto, attraverso costanti mutamenti. Ogni raffigurazione, pur partecipando della stessa struttura compositiva, è diversa. Ognuna dice la stessa cosa, ma nello stesso tempo cerca di dire meglio ciò che sembrava all'artista di non aver detto ancora compiutamente.

La scelta rivela l'uomo e la sua interiore, caparbia onestà. Le testimonianze su questo punto sono pressoché concordi. Vi è chi ricorda semplicemente il «suo fare distinto ed affidabile da gentiluomo di campagna dei tempi andati» [23], chi sa e può rievocare momenti mescolati di stima e di amicizia, come recentemente ha fatto Franco Mazzini [24], chi infine ha saputo cogliere di lui aspetti ancor più interiori, modi di essere di questa persona dal carattere fermo e dolce, quieta nel vivere, risoluta nelle proprie convinzioni, capace forse di «osservazioni delimitate, ma acute su aspetti delle cose solitarie» [25].

Aprile a Urbino, 1965, acquaforte, mm 266 x 211Si evidenzia così il mutuo rapporto di interscambio che Castellani aveva stabilito fra il suo vivere e il suo incidere. Lo aveva osservato già Volpini, quando ha scritto che «Castellani, dalla incisione [ha tratto] tutto uno stile di vita e di cultura: l'incisione è puntualità, mestiere e senso della poesia [...] nella piccola comunità, il paese dove si può vivere senza provincializzarsi, ottenendo un dono d'umanità che troppo facilmente si è perduto altrove» [26]. È stato un atto di coerenza continuo, assiduo, non senza fatiche.

I soggetti delle incisioni e quell'inesauribile ricerca sullo stesso tema, nel tentativo di dire qualcosa che poi rimane sempre da dire, questo è un aspetto di quella coerenza, che si nutriva in fondo di due cose, l'attenzione agli altri e la severità con se stesso. È un aspetto su cui si è fermato anche Leonardo Sciascia, quando ha descritto Castellani con queste parole: «rigoroso nei suoi principi, nel suo lavoro, pieno di cordiale attenzione verso le persone e le cose, affabile» [27]. E tuttavia era a suo modo riservato. Era un lato su cui si è soffermato Francesco Carnevali: «Se mai qualcosa fosse da rimproverare in lui, mi sembra proprio questa sua sostenutezza così schiva, il vigile controllo su se stesso, quasi per il desiderio di nascondersi, per il timore di rivelare qualche segreto intimo abbandono» [28]. Ma che cosa doveva rivelare, lui che aveva scritto che gli «uomini che sanno farsi credere, sono quelli che vivono nel faticoso lavoro di alte speranze»? [29]

 

Del suo modo di incidere

Nonostante la grande profondità di intenti, la continua riflessione alle spalle dei propri soggetti e una personalità così esuberante di interiore ricchezza, Castellani non sarebbe comunque pervenuto ad alcun risultato se poi, nel pratico esercizio dell'incidere, non fosse stato sostenuto da un'adeguata perizia tecnica e da una formidabile esperienza acquisita in decenni di reale e impegnato lavoro.

Talune particolarità del suo modo di incidere si incrociano anche con questioni di natura stilistica, come potrebbe essere per la sua presunta vicinanza ai modi morandiani, specie per quanto riguarda un certo tipo di tratteggio incrociato. A mio parere, se affinità vi furono, risiedono solo in esteriori consonanze segniche, poiché il modo stesso di intendere l'atto dell'incidere è diverso, come diversi sono i rapporti che i due instaurano fra la propria incisione e la pittura e quelli, assai più importanti, fra il dato naturale e la sua traduzione artistica [30]. Dunque, ripeto, solo esteriori consonanze segniche, presenti peraltro in un certo numero di opere, ma mai nel segno del plagio o dell'imitazione, bensì come l'assunzione di una chiave formale che avrebbe reso possibile certe sperimentazioni, orientate verso un ordine di traguardi assai lontano da quelli morandiani. Del resto, un fenomeno analogo è avvenuto anche in Lino Bianchi Barriviera. Sulle presunte influenze morandiane Luigi Lambertini ha fatto notare che «il segno di Castellani all'inizio è incrociato e si addensa o si chiarisce per l'insistenza che l'artista vi pone; l'intreccio sovente nasce da una sovrapposizione di segni paralleli vergati da molteplici e differenti inclinazioni. Ad un certo punto sarà evidente anche la lezione morandiana, la quale servirà soprattutto, sul finire degli Anni Trenta, a Castellani per raggiungere quella scioltezza e quella aristocratica eleganza che diverranno quindi il mezzo suo personalissimo per immergere nella luce i paesaggi e le nature morte»  [31].

Un altro aspetto tecnico-stilistico su cui vale la pena di soffermarsi è stato il progressivo passaggio, ben descritto soprattutto da Francesco Carnevali [32], dalle prime, scure opere, battute da una luce radente, e che a qualcuno hanno fatto pensare a Rembrandt, fino all'acquisizione di una gamma di toni chiari e solari. «Castellani era un incisore di genere «chiaro» — conferma Sciascia — la chiarezza era il suo dono, il dono delle sue acqueforti, delle sue prose»  [33]. È una sorta di chiarezza duplice, poiché in ogni suo soggetto Castellani propone contemporaneamente una visione chiara agli occhi e un tema chiaro alla comprensione. La maggior parte dei commentatori si è soffermata soprattutto sul primo dei due aspetti. Così ad esempio, nello stesso brano più sopra citato, Sciascia insiste sul fatto che Castellani aveva una «ariosa e nitida resa del paesaggio», come Segonzac e che non gremiva la lastra di segni e di impronte, come faceva Bartolini  [34]. Ma già nel 1951 Petrucci aveva osservato questo progressivo cambiamento e in quell'anno annotava: «Paesaggi sempre più semplici e ariosi nei quali i contrasti si vanno insensibilmente attenuando e le forme diluendo in una chiarità sempre maggiore»  [35]. Dello stesso parere anche Neri Pozza: «Il suo problema — quello cui tutto subordina — è la luce; quella particolare luce di cicala nel silenzio dell'estate, che lo esalta e lo perseguita»  [36]. E ancora: «L'ora di Castellani è quella in cui il sole cade a picco» [37] e tutto stagna immobile. L'occhio, senza affanno, esplora gli spazi ampi delle prospettive, risale le colline, si riposa nelle zone d'ombra, non si stanca in quelle dorate dal sole.

La visione avviene pacatamente e senza strappi. Come del resto era stata concepita e realizzata sulla lastra. Una misura composta e ordinata contrassegna d'altra parte tutto il modo di lavorare di Castellani, una laboriosa lentezza, di cui rimangono concordi testimonianze di amici, critici e conoscenti. L'hanno sottolineata, ad esempio, Neri Pozza [38], o Franco Mazzini, che di lui ha messo in risalto l'«incedere ponderato, piuttosto lento», aggiungendo: «non l'ho mai visto andar di fretta»[39]. Ma più delle loro è preziosa la testimonianza della moglie Edvige: «Mio marito era molto lento a incidere [...] Eseguiva i suoi disegni preparatori all'aria aperta, li riportava sulla lastra, poi incideva e pensava lungamente al loro completamento, magari cambiando qualche piccolo particolare per armonizzare il paesaggio» [40]. Del resto lo stesso artista, parlando del suo lavoro aveva ammesso con la consueta pacatezza il suo punto di vista: «Ho bisogno — essendo di natura non tanto colta — di riprendere ogni mio lavoro, correggere, e ripensarci per impadronirmi dell'idea con lentezza, e incredulità.  Alcune incisioni vanno avanti per mesi, alcune per anni; altre rimangono per sempre in sospeso. L'immediato l'accetto assai più in certa pittura, nel disegno, nell'acquerello»  [41].

Codesta sua laboriosa ponderatezza dipendeva dal suo modo di essere che gli suggeriva alcuni di quei comportamenti che hanno poi caratterizzato la sua vita, come l'isolamento, ad esempio, o il tenersi costantemente lontano dalle mode e dalla critica, con l'accettazione delle conseguenze che necessariamente derivavano dalle sue scelte.

La prima fra loro è stato il riconoscimento da parte della critica, non solo ovviamente negli anni in cui le incisioni non interessavano né al mercato, né al collezionismo, ma anche in seguito, quando, finita quell'epoca, vi è stato una specie di boom per la grafica. Anche in questo periodo pochi gli hanno prestato attenzione, ma sono stati sovente i critici di maggior talento. Gli altri tuttavia non l'hanno ignorato per una scelta preconcetta. Molto spesso costoro non si occupavano di incisione e, se talvolta casualmente sono entrati in questo campo, è stato quasi sempre solo per parlare di pittori che s'erano messi a fare grafica  [42].

A dispetto del misconoscimento da parte di una certa critica, lentamente tuttavia si è presa coscienza dei molteplici aspetti positivi contenuti nelle acqueforti di Castellani, la sua bravura tecnica, la sua testimonianza di un ordine acquisito con l'esperienza contro le intempestività di altre forme d'arte, il suo uso particolare e ricchissimo della luce. L'anno in qualche modo decisivo è stato il 1974, quando Neri Pozza ha dedicato all'artista un lavoro rimasto fino ad oggi insostituibile, il catalogo generale delle sue incisioni fino a quell'anno. Da lì in poi, come se fosse sollevato il coperchio di una scatola, lasciando sentire finalmente tutto il profumo che conteneva, è stato un crescendo continuo di mostre e pubblicazioni, nuove edizioni, articoli  [43].

Risulta così ben chiaro a chiunque legga questo testo che chi scrive giunge a parlare di Castellani quando ormai le porte sono state aperte e i segreti svelati. Commentatori più bravi hanno già espresso quanto v'era da dire al riguardo. Vorrei tuttavia, in aggiunta, sottolineare un aspetto forse non ancora sufficientemente osservato, ed è la dimensione profondamente etica di Castellani artista, quella qualità morale che costantemente ha conferito alla sua opera. Ci sono artisti in cui regna una stretta coerenza fra il modo di concepire la vita e quello di fare dell'arte. Penso a Picasso, penso su un fronte totalmente opposto a Van Gogh, a Rouault. Coerenza, come caratteristica della propria serietà sul piano sia umano che artistico, rifiutando quelle estrosità non sempre oneste che hanno talvolta contrassegnato un'arte in gran parte priva anche di ogni giustificazione stilistica. Come ha scritto Valsecchi in un commento rimasto celebre (più e più volte a ragione citato), quella di Castellani è stata «un'operazione creativa, fatta di civiltà e grazia antica, così remote da noi da sembrarci fuori del tempo. E tuttavia non estranee perché, alla fine, ci costringono ancora ad accorgerci che al di là delle violenze, dei gesti sbrigativi, al di là dei gusti forti cui ci ha abituati la vita attuale c'è ancora un modo civile e umano, antico ho detto, per un discorso piano, fatto di ansiosi pensieri, ma espresso con immagini chiare e serene» [44].

 

____________________________________________________________


[1] Su questo aspetto hanno insistito molti commentatori, soprattutto sottolineando i -potenti rembrandtiani effetti di luce e ombra» (Angelo Dragone, Leonardo Castellani. Urbino e la sua Scuola, in Annuario della grafica in Italia, Milano, 1986, p. 35).

[2] Cfr. Neri Pozza, Leonardo Castellani. Opera grafica (1928-1973), Vicenza, Neri Pozza, 1974, p. 11.

[3]  Leonardo Castellani, da un Dialogo con Rosario Assunto, Cat. Gali. Aldina, Roma, aprile-maggio 1971.

[4] Si vedano ad esempio La Porta dell'arco della Mandola (Bellini 22) del 1919 e Perugia, Via dei Priori (Bellini 35), che è del 1920 (cfr. Paolo Bellini, Benvenuto Disertori. Catalogo delle incisioni, -I quaderni del conoscitore di stampe-, Milano, nov.-dic. 1972, n. 14, pp. 34-49).

[5] Secondo Mezio, -le più belle acqueforti di Castellani cominciano a venir fuori dal torchio nel 1945, quando l'artista si libera dai trucchi letterari, dai problemi di ottica dalle vaghe tentazioni metafisiche (Alfredo Mezio, in AA. W., La Scuola del Libro di Urbino, Urbino, 1986, p. 88).

[6] Cfr. Neri Pozza, 1974, p. 12.

[7] Alcuni dì questi disegni si trovano riprodotti in N'eri Pozza, 1974, fra le pp. 12 e 13.

[8] Al riguardo De Santi ha osservato: -Se nel primo Castellani la densità dei neri dilagava, ora è la graduale morbidezza dei grigi che invade il bianco della carta con la stessa musicalità di una rima che non si limiti alla finale del verso ma lo risalga e lo fmbeva come un profumo», (Floriano De Santi, L'illimite lirico di Leonardo Castellani, da // linguaggio dell'incisione, I, 1981, cit. in Silvia Sassi Cuppini, Omaggio a Leonardo Castellani, in -Notizie da Palazzo Albani», Urbino, 1985, p. 134; ripubblicato in Floriano De Santi, L'illimite lirico di Leonardo Castellani, Milano, 1986, p. 16).

[9] Dal 1957 al 1961 Castellani ha pubblicato la rivista "Valbona-, in tiratura limitatissima (secondo Neri Pozza 1986, p. 10, in 80 esemplari). Ne sono stati pubblicati in totale 20 fascicoli. Di essi è stata curata una riedizione in reprint. Per ulteriori approfondimenti vedi Floriano De Santi, 1986, pp. 14-15,17 (nota 9).

[10] Neri Pozza, 1974, p.'14.

[11] E continua: -Di taglio orizzontale l'immagine è eseguita con mezzi di una semplicità totale: tagli trasversali e qualche leggero scavo a rendere i filari d'alberi- (Neri Pozza, Leonardo Castellani. Ampliamenti all'opera grafica (1973-1984), Vicenza, Neri Pozza, 1986, p. 9).

[12] Sull'uso della puntasecca peraltro iniziato da Castellani fin dal 1950 si veda Neri Pozza, 1974, pp. 14-15.

[13] Marco Valsecchi, introduz. al cat. mostra Antologica di Leonardo Castellani, Collegio Raffaello, Urbino, 1976, p. 8.

[14] Leonardo Castellani, in Quaderni di un calcografo, 1955, cit. in Marco Valsecchi, introduz. al cat. mostra Antologica di Leonardo Castel-lani (Collegio Raffaello, Urbino, 1976, p. 5).

[15] Ardengo Soffici, -Le Carte Parlanti-, Firenze, sett. 1950, cit. in N. Pozza, 1974, p. 16.

[16] Valerio Volpini, cit. in Silvia Sassi Cuppini, 1985, p. 58.

[17] Silvia Sassi Cuppini, 1985, p. 130.

[18] Valerio Volpini, cit. in Silvia Sassi Cuppini, 1985, p. 57.

[19] Floriano De Santi, 1986, p. 15.

[20] Marco Valsecchi, introduz. al cat. mostra Antologica di Leonardo Castellani, Collegio Raffaello, Urbino, 1976, p. 5.

[21]  Gastone Mosci, in AA.W, La Scuola del Libro di Urbino, Urbino, 1986, p. 85.

[22]  Leonardo Castellani, Vivere nel tuo paese, Vicenza, Neri Pozza, 1964, p. 96.

[23] Luigi Lambertini, cit. in Neri Po7.za, 1986, p. 16.

[24] Franco Mazzini, Ricordo di Castellani, in -Grafica d'arte-, aprile-giugno 1991, n. 6.

[25] Francesco Carnevali, Mostra personale dell'acquafortista Leonardo Castellani, Rovigo, 1948.

[26] Valerio Volpini, Provincia amata da Leonardo Castellani, "Il Popolo», Roma, 27 febbraio 1965, cit. in Silvia Sassi Cuppini, 1985, p. 108. Fa eco a questo parere di Volpini, il seguente espresso da Mosci: -Uno dei segreti di Castellani è quello della memoria della vita, che lui intende felice, perché la vita unita all'arte e alla realizzazione della propria vocazione di lavoro non può dare che gioia e felicità. Ma a questo bisogna aggiungere la grande laboriosità, la cura del lavoro, gli infiniti appunti del suo itinerario di viaggiatore e osservatore- (Gastone Mosci, L'incisore scrive poesie, -La Voce», 16 marzo 1980).

[27] Leonardo Sciascia, cit. in Silvia Sassi Cuppini. 1985, p. 105.

[28] Francesco Carnevali, Mostra personale dell'acquafortista Leonardo Castellani, Rovigo, 1948.

[29] Leonardo Castellani, cit. in Silvia Sassi Cuppini, 1985, p. 75.

[30] Al riguardo Mezio, fin dal 1951, aveva già osservato che «per Morandi l'acquaforte è stata un esercizio di traduzione libera della propria pittura; per Castellani è invece un'esperienza di paesaggista all'aria aperta» (Alfredo Mezio, L'ultimo moicano, -Il Mondo». Roma, 1951, n. 9).

Aprile a Urbino, 1965, acquaforte, mm. 266x211.

[31] Luigi Lambertini, in Silvia Sassi Cuppini, 1985, p. 99.

[32] Francesco Carnevali, Mostra personale dell'acquafortista Leonardo Castellani, Rovigo, 1948.

[33] Leonardo Sciascia, in Silvia Sassi Cuppini, 1985, p. 105.

[34] Ivi, p. 105.

[35] Carlo Alberto Petrucci, Le incisioni di Leonardo Castellani, Calcografia Nazionale, Roma, 1951.

[36] Neri Pozza, Le acque/orti di Leonardo Castellani, Vicenza, Casa del Palladio, 1962.

[37] Neri Pozza, 1986, p. 8.

[38] Cfr. Pozza, 1986, p. 7 e nota 3.

[39] Franco Mazzini, 1986, n. 6, p. 12.

[40] Leonardo Castellani, in Franco Mazzini, 1991, n. 6, p. 15.

[41] Leonardo Castellani, in Silvia Sassi Cuppini, 1985, pp. 68-69.

 [42] Su questo costante e vergognoso disinteresse della critica si veda peraltro quanto analiticamente e ordinatamente ha già annotato Floriano De Santi nel 1986 (Cfr. L'illimite lirico di Leonardo Castellani, Milano, 1986, p. 17, nota 1), ove, fra l'altro si dice: «Castellani era troppo appartato e schivo per perorare la propria immagine con l'infinito arsenale delle astuzie e delle cautele che pagano sul momento-. Al riguardo si vedano anche: Neri Pozza, 1986, pp. 8,10.

[43] Le ultime novità in questo senso, a testimonianza di una fortuna critica in progresso, sono alcune edizioni postume di lastrine trovate nello studio dell'artista (Cfr. Appunti ritrovati, volume con 12 incisioni di Castellani, di cui undici inedite, non comprese nei due cataloghi curati da Neri Pozza. Il volume è stato pubblicato a Pesaro, nel 1989, per conto della Stamperia della Pergola, che nell'anno seguente ha poi stampato anche la gloriosa mirabile natura, con 10 poesie inedite di Castellani e 7 acqueforti).

[44] Marco Valsecchi, Ha tradotto i paesaggi di Leopardi, in -Il Giorno., Milano, 16 maggio 1970.