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RENZO SCOPA
Il segno della parola: prosa, poesie, pensieri...

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Urbino
  Maurizio Perugini
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Renzo Scopa

IL SEGNO DELLA PAROLA

a cura di Saulo Scopa

presentazione di Rossana Bossaglia

contributi critici di Floriano De Santi e Massimo Bartoletti

Edizioni della Meridiana 2007

 

INDICE

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La scrittura scheggiata di R.Scopa di Rossana Bossaglia   p. 5

Lucania                                                                                          9

Sicilia                                                                                          45

Urbino                                                                                         61

Il viso tra le mani                                                                        69

Immagini                                                                                     81

Frammenti                                                                                   97

Contributi critici                                                                      107

Il paesaggio come specchio del mondo di F.De Santi         109

R.Scopa: tra suono e visione di Massimo Bartoletti            113

Il dekalogos dell’artista Saulo intervista Renzo Scopa       117

Biografia                                                                                    119

Il paesaggio...  Floriano De Santi                                             109

Tra suono e visione di Massimo Bartoletti                             113

Decalogo dell'Artista di Saulo Scopa                                      117

Nota del curatore                                                                       123

 

 

 

In copertina: Renzo Scopa, Deserto umano 4,1965 (part.)

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Il figlio Saulo scoprì in pieno la validità del padre artista solo dopo la sua scomparsa; di fronte alla mole e alla varietà delle opere paterne accompagnate dagli scritti che poi riunì nella presente pubblicazione Saulo rimase "fulminato come Paolo di Tarso alle porte di Gerico".  Non era facile accedere alla vita di Renzo quando era in vita, perchè era molto chiuso. Proprio come, in occasione della mostra di opere di Renzo ad Urbino nel 2005, sottolineò Gaetano Savoldelli Pedrocchi (vedi), allora presidente dell'Accademia Raffaello: "... si tratta di rendere un affettuoso omaggio ad un artista che ha operato nel più stretto riserbo..., che ha gelosamente custodito i valori di quegli insegnamenti (ricevuti dai grandi maestri della Scuola del Libro di Urbino) per oltre cinquant'anni, portando avanti una ricerca artistica, in assoluta riservatezza".

Renzo non ha mai messo in mostra le sue opere: non dipingeva per vivere, ma viveva per dipingere.

Ora Saulo, nella sistemazione delle opere del padre, nell'organizzazione di mostre e nella preparazione di pubblicazioni, eventi talvolta fatti in parallelo, unendo i suoi a quelli del padre, sta vivendo con amoroso entusiasmo la vita col padre che per circostanze ineluttabili gli era sfuggita.

 

Il webmaster M.G.

 

Quarta di coperta: Renzo Scopa, Due figure, 1964 (part).

 

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LA SCRITTURA SCHEGGIATA DI RENZO SCOPA

di Rossana Bossaglia

 

Su Renzo Scopa negli ultimi anni si è molto scritto e commentato; la sua competenza di mestiere, espressa in varie direzioni e secondo vari procedimenti tecnici, si è accompagnata a un’emozionante sensitività creativa. E non solo: a una ricchezza interpretativa delle suggestioni culturali che via via lo avvincevano; e tutto questo ha attratto e generato molte e appassionate considerazioni.

La matrice urbinate ha un ruolo fondamentale nella sua preparazione, ma non va intesa come stimolo dolce, rievocativo del pieno Rinascimento: giacché essa si accompagna a influssi del moderno che partono dall’arte tardo-ottocentesca per giungere all’espressionismo. Non per niente i commentatori più attenti hanno fatto spesso riferimento a matrici come quella di Rouault e, procedendo nella direzione del comtemporaneo, di Pollock.

E persino sorprendente, quando si consideri il suo linguaggio tecnico, che, avendo esordito come raffinato cultore di arte grafica (più disegnativa, che calcografica), sia man mano approdato a pastosità corpose dove spesso svolgono un ruolo eminente le tecniche a collage. Ed è coinvolgente il suo modo di interpretare con spietata asciuttezza le tecniche simboliche - per la più parte argomenti religiosi - del suo repertorio. Nelle sue tipologie, sempre variamente suggestive, noi avvertiamo secondo i momenti eleganze ritmiche, geometrismi intellettuali, duri stravolgimenti; così, se vogliamo, la suggestione dell’antico, i compiacimenti di matrice quattrocentesca, a un certo punto si fanno puro espressionismo. Peraltro, nel suo rapporto - ad esempio con la Lucania e la Sicilia - intervenuto nel momento pieno dell’attività giovanile, suggestioni storiche e arcaici simbolismi si traducono in una spietatezza espressiva di forte violenza che, soprattutto negli appunti

diaristici, riuniti sotto il titolo II segno della parola, troviamo già chiaramente esplicitata la convinzione poetico-spirituale che Scopa manterrà, magari approfondendola, sino agli ultimi anni della sua vita. Vi si documenta una necessità morale di espressione che sintetizza la profonda convinzione secondo cui l’arte è processo duro e cosciente, che solo permette una forma plausibile. Con l’uso di una parola-immagine sobria e scheggiata, troviamo uno Scopa che si oppone a ogni improvvisazione neoromantica. Il suo primitivismo, appunto spietato, tra il beffardo e il terribile, appare come simbolo di una voluta risalita verso situazioni ancestrali. La cosiddetta arte delle caverne, che la cultura ha poco a poco inventata, è alle spalle di questa deliberata drammaticità.

 

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IL PAESAGGIO DI RENZO SCOPA COME LO SPECCHIO DEL MONDO

di Floriano De Santi

 

Partito dal 1954, quasi all’improvviso, dall’immagine molto semplice e un po’ inaspettata di una veduta con case e alberi contro un cielo che non sembra scuro per la notte imminente ma per il nulla spaziale, Erfahrung, l’esperienza incisoria di Renzo Scopa si è allargata sempre più, fino ad abbracciare, qualche anno dopo, un intero mondo di natura. Sono state abbandonate le figure in costume medioevale e della lunga e fruttuosa esercitazione sulla “natura morta” alla Scuola del Libro di Urbino, ne sono rimasti pochi esemplari, ma trasformati aneli’essi in trofei naturali, a momenti in paesaggi della mente. E mentre nelle prime prove all’acquafòrte o alla puntasecca ciò che premeva sul lavoro era l’intelligenza formale e un costante stimolo di cultura letteraria, con i fogli Paesaggio 2 del 1955, Inverno del 1956 e Capanno del 1956-1957 è il senso poetico del rapporto con la realtà a rendere libera la ricerca figurativa da ogni condizionamento linguistico.

Quelle case solitarie, quegli alberi spogli, quella scena rurale, stanno ancora dentro un sentimento di lontana matrice espressionista, che si dirama in sondaggi più articolati: dai campi costruiti con sintetica volumetria tra Permeke e Sironi, ai casolari e agli alberi a- dombrati con un contrasto segnico tra Ensor e Munch, alla serie dei ritratti di Cristo e di Giuda che intensificano in abbaglianti controluce effetti rembrandtiani, senza tuttavia annientare il potenziale plastico dell’immagine. Quando poi, in Fantasmi del 1958, dietro il reticolo calcografico su cui è rimasto un solo archetipo antropomorfo, quello della Crocifissione, scende una parete di nero così fitto, così profondo da non poter corrispondere a una notte, ma ormai unicamente a una tragica oscurità lunare, allora l’opera grafica di Scopa diventa una paurosa profezia del nostro avvenire.

Renzo Scopa sa che i soggetti delle sue stampe d’arte non hanno alcuna importanza: sia il bestiario degli anni Cinquanta, sia la Cacciata dal Paradiso del 1953, sia i Guerrieri e i Lottatori che le illustrazioni per il libro Contrasto del povero e del ricco di un anonimo umbro del XIII secolo, sia l’antico, sia il moderno, sono ugualmente preziosi, perduti nell’unità vibrante e sonora della natura. Quello che conta è lo sguardo dell’artista, che s’identifica con lo sguardo infinito dell’ombra; e la lastra metallica, incisa dall’acido, è una visione doppia, perché da un lato è lo specchio del mondo e, dall’altro lato, è un mondo assoluto, chiuso in se stesso, riflesso in se stesso, compatto e dalla soglia invalicabile.

Ma torniamo al tema del paesaggio, a quell'eidos, a quel pensiero della derridaiana “ripetizione differente” che lo attraversa tutto, e torniamo soprattutto ai modelli del fare ricerca, sur le motif, di Scopa. Perché egli ricerca, ma non fuori, all’aria aperta, bensì nello studio, provando e riprovando uno schema compositivo, valutando colpi di luce, massa di tratteggio, rapporti tattili che evocano rammendi invisibili: insomma, disegna e organizza sulla superficie dello zinco un sistema narrativo dopo averlo provato, verificato, sperimentato sulla carta. Così in Paesaggio 2 scopriamo che Scopa ha capito dentro l’intrico reale della vegetazione, dentro le orme del terreno, che il modo più efficace di rappresentare non è percorrere veramente quel frammento naturale, ma inventarsi un cespuglio intrecciato, un nodo di rovi, di spuntoni e di trame come nel Sutherland più amaro di quegli anni.

E la morsura all’acquafòrte che ha insegnato a Scopa questo rimordere del fondo sull’immagine. Pertanto, come l’acido che solca le parti lasciate scoperte dall’incisione della lastra pare “affondare” il paesaggio nel suo primo piano, ottenuto dalla fittissima tessitura dei tratteggi paralleli o incrociati, contigui alla linea della visione significante che invece si produce nel suo tremulo atmosferico, così l’organica predisposizione di Inverno e di Capanno finisce per andare incontro al suo lonh avvicinato, alla sua lontananza  emergente per sintesi prospettiche rovesciate attraverso il segno aggettante e definitorio dalle lontananze sulla prossimità. lto distanti dalla pagina classica della scuola urbinate, sono fogli che rappresentano la misura del tempo, forologio degli istanti che fuggono e precipitano verso il nulla, fino al limite della morte, come per un ultimo guizzo di luce prima del buio.

 

 

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RENZO scopa: tra suono e visione

di Massimo Bartoletti

 

La pittura ha sempre destato in me molta curiosità e interesse non solo per l’emozione che la sua fruizione può dare a un semplice appassionato quale io sono, ma anche per un confronto con la modalità di percezione dell’arte musicale che conosco e pratico come musicista. La riflessione che sempre mi viene in mente guardando un’opera d’arte è che essa è lì dinanzi ai nostri occhi, uguale a come l’artista l’ha prodotta. La musica invece giunge a noi attraverso un percorso diverso e con più elementi di variabilità: la scrittura musicale (che risale a Guido D’A- rezzo) fondamentale per la trasmissione e la riproducibilità della musica, è comunque un compromesso che non può essere esaustivo della vera e profonda conoscenza dell’opera. Gli strumenti musicali poi nel corso dei secoli hanno avuto radicali trasformazioni, e anche se la filologia ha fatto, negli ultimi decenni, grandi passi avanti sul recupero degli strumenti originali e della prassi esecutiva, vi è comunque uno scarto tra passato e presente. Noi possiamo oggi ammirare un Caravaggio nella sua autenticità, ma non possiamo ascoltare un autentico Frescobaldi. La riproduzione musicale su vari supporti inizia lentamente e in maniera precaria a cavallo tra Ottocento e Novecento quindi da lì possiamo avvicinarci a una documentazione più autentica ma che comunque rimane saldamente legata al gusto e alle scelte esecutive dell’interprete e del suo tempo. L’altro elemento variabile è che la musica manca di una sua permanenza. Concluso il concerto o la performance non rimane nulla. Sì, noi musicisti possiamo aver interessato, divertito, in qualche caso emozionato i nostri spettatori ma fisicamente l’opera musicale è svanita e nel momento in cui verrà riproposta non potrà essere identica a quella ascoltata in precedenza. La pittura, al contrario, proviene a noi intatta dal passato, possiamo ammirarla così come l’ha creata l’artista e non è cambiata nel corso del tempo. Quando mi sono avvicinato all’opera di Renzo Scopa e ho composto la musica per la mostra La maschera dell’uomo, il traguardo che mi sono posto è stato quello di cercare di entrare nella poetica dell’artista e questo, ho pensato, poteva avvenire avvicinando le opere e traducendo in suoni quello che esse in me suscitavano. Questa è stata la sfida: accompagnare il visitatore delle mostre di Scopa (a Perugia, presso gli spazi della Rocca Paolina e a Urbino, a Palazzo Ducale) a una fruizione più intensa e consapevole, utilizzando in gran parte materiale sonoro improvvisato e ripercorrendo musicalmente il meraviglioso viaggio compiuto da Renzo Scopa attraverso la sua ricerca pittorica. Ho voluto che questo contatto con i quadri di Scopa esposti in mostra, avvenisse anche visivamente, infatti i musicisti partivano da vari punti dello spazio espositivo e ognuno, con un percorso preciso confluiva nella zona centrale soffermandosi di volta in volta davanti alle opere cercando di esprimere con il proprio strumento le sensazioni che in quel preciso momento le stesse in loro suscitavano. Un percorso fisico dentro lo spazio espositivo, ma allo stesso tempo anche concettuale; un percorso musicale che potesse dare voce ed eco alla visione dell’artista urbinate. Il divenire del tempo e del luogo delle esposizioni, assieme al divenire dei vari periodi artistici del pittore che, nella sua ultima produzione si riappropria di temi che secondo me a- veva toccato all’inizio, sono stati i punti di riferimento del nostro intervento. Su una base elettronica abbiamo inserito questi elementi improvvisati in un linguaggio completamente libero da strutture armonico-melodiche ma con grande attenzione alla produzione del suono e alla varietà ritmica, considerando di dare grande importanza alle pause che nella musica, come nella pittura, sono essenziali a delimitare le parti in cui il pittore e quindi il musicista interviene. In questo gioco di suono, di luce, di colori, ma anche di silenzi e di ombre, la composizione musicale arriva alla sua parte conclusiva dove invece riemergono a tratti riferimenti armonici, melodici e strutturali più vicini alla musica colta occidentale ed etnica.

Questo è l’omaggio che ho pensato per l’artista e le sue opere, e che assieme ai musicisti (Stefano Bellocci al trombone, Helge Sveen ai sassofoni e Fausto Paffi alle tastiere) abbiamo realizzato in occasione della mostra di Renzo Scopa.

Per noi è stata un’esperienza davvero importante e molto stimolante, che ci ha consentito di unificare ed esprimere in uno stesso spazio e in un unico tempo suono e immagini, luce e ombra, ritmo e colori.

 

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LUCANIA

 

Arrivai a Forenza in corriera dalla parte di un vecchio cimitero dove alcuni cipressi addobbavano poche lapidi. Scorgevo, tra il lento dileguarsi della nebbia qualche pianta che ogni tanto scompariva e ricompariva e dei cespugli di erba cresciuta a forza in mezzo a tanti sassi. Scesi dall’autobus e mi incanalai nella strada, senza la sicurezza che mi avrebbe condotto in paese. La nebbia limitava molto la vista, ma riuscii a scorgere qualcosa di simile a un gruppetto di case. Mi avvicinai e all’improvviso mi trovai davanti una scalinata, cercavo di vedere dove avrebbe avuto fine, ma l’aria era troppo scura; una donna avvolta da un grande scialle lentamente scendeva, mi fermai con l’intenzione di chiederle qualcosa, ma una forza misteriosa mi trattenne, mi pareva un essere insolito, un tipo di donna diversa da quelle cui ero abituato; perfino diversa anche da quelle più misteriose che avevo conosciuto nei romanzi.

La donna sparì nella nebbia. Il grigio colore dell’aria non mi permetteva di vedere neanche un pezzo di cielo, simile a quello che avevo lasciato a Urbino, né il panorama del paese, né monti, né strade, né campi. Pensavo a tante cose con nostalgia e ogni particolare mi rattristava, mi sforzavo di evadere da quella terra ripensando agli amici che avevo lasciato, alla famiglia, alla mia cara città; il cuore mi batté fortissimo. Quell’ambiente sconosciuto mi sembrava insondabile e misero, c’erano case, forse un tempo appartenute a qualche ricco, ma che ora erano solo crepe, ruggine e calce a penzoloni e poi case di tufo coperte da fascine e travi nodosi. Cercavo una piazza, un centro dove gli abitanti si radunassero, ma non avevo riferimenti e gli animali, gli asini che mi passavano vicino mi rendevano ancora più disorientato. Poco più in là delle persone stavano appoggiate con la schiena al muro, le mani in tasca e i visi bassi, ogni tanto dicevano qualcosa in dialetto. Avvicinai quegli sconosciuti affrontando i loro occhi improvvisi e chiesi se potevano indicarmi la Scuola di Avviamento; restarono muti, allora dissi se qualcuno voleva guadagnare qualcosa portandomi le valigie e feci atto di stanchezza, tutti insieme risposero “me”. Capii subito che da quelle parti nulla si ha se non si dà. Si fecero tutti avanti tirandomi per la giacca, ma consegnai le valigie a un ragazzo che rideva, alto, asciutto, con due occhi arcigni sprofondati nel viso, subito partì velocissimo e anche se gli ripetevo di andare più piano mi staccò molto. Arrivato in fondo alla gradinata mi fece cenno di accelerare, ma per la stanchezza mantenni il mio passo lento. A destra notai un’osteria, chiamai il ragazzo e gli dissi che mi sarei fermato. Gli pagai da bere e lo feci sedere vicino a me, aveva un fare strano, teneva il bicchiere strettissimo e poi ne beveva il contenuto tutto d’un colpo. Un bicchiere dopo l’altro. Entrò un uomo e quando scorse il ragazzo fece un gesto con la mano e rise, il giovane intimorito gli voltò le spalle e afferrò una delle mie valigie, ma quello, con la bocca larghissima e la voce pesante disse: «Vevre vevre». Intervenni e chiesi: «Perché ride?» e lui «vevre vevre» accennandomi il ragazzo e portando il dito alla bocca con il comune gesto di chi vuol significare molto. Capii che il ragazzo era un gran bevitore e che se osservava il vino prima di berlo era per ricordare a se stesso le promesse venute meno; pagai un bicchiere anche a quell’uomo che mi degnò solo di un “grazie” tra i denti, bensì si rivolse al giovane, in dialetto, con uno sguardo così buio che quello lasciò cadere le valigia e scappò. Mi alzai di scatto e avvicinandomi gli dissi di lasciarlo in pace, ma di colpo mi trovai addosso le sue pupille piene di rabbia: «Lei è un forestiero» disse. «Sì, sono un forestiero, e con questo?», se ne andò senza più fiatare. Come sono caldi da queste parti, pensavo, si offendono per nulla. Infatti gli altri seduti ai tavoli si alzarono e fecero largo al mio passaggio, affermando che gli amici in ogni discussione difendono i paesani ciecamente, anche riconoscendo loro il torto.

........ (omissis)

 

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IL DEKALOGOS DELL’ARTISTA
Città di Castello, settembre 1988 Saulo Scopa intervista Renzo Scopa in occasione della presentazione

del cortometraggio I favolosi ventanni, scritto e diretto da S. Scopa, con illustrazioni di R. Scopa.

 

Chi sei nella vita?

  Un uomo che ama esprimersi tramite le immagini.

Che ruolo hai nel video?

  Ho fornito le mie illustrazioni.

Qual è la tua occupazione preferita?

  Creare.

Qual è il colmo della miseria?

  Non saprei.

Dove vorresti vivere?

  Dove vivo.

Per quali errori hai più indulgenza?

  Per tutti, purché servano a imparare qualcosa.

Quale qualità prediligi in un uomo?

  La sincerità.

Quale qualità prediligi in una donna?

  La dolcezza.

Chi altro ti sarebbe piaciuto essere?

  Nessun altro.

 

Che cosa apprezzi di più nei tuoi amici?

  La sincerità

Qual è il tuo principale difetto?

  Sbagliare continuamente.

Qual è la prima cosa che ti colpisce in una donna?

  L’espressione del viso.

Quale colore preferisci?

  Non ho preferenze, amo tutti i colori.

Che cosa detesti più di tutto?

  Il cattivo gusto.

Che cosa temi?

  Che un giorno dobbiamo morire.

Che cosa sogni?

  Di lavorare, ricercare, migliorare.

Quale talento naturale ti piacerebbe possedere?

  Sono soddisfatto così. 

Qual è il tuo ideale di felicità?

  Fare quello che faccio.

 

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