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Commemorazione di otto ebrei catturati nel 1944 dall'ospedale di Urbino e assassinati a Forlì

 

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ZAKOR  (RICORDA)

 

Zakor, ricorda, "non per vendetta e non solo per giustizia - scriveva Wiesenthal - ma perchè ciò che è stato può ancora accadere".

 

 

Simon Wiesenthal (Wikipedia)

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TESTIMONIANZE RACCOLTE DA MARIA LUISA MOSCATI BENIGNI

 

Zakor quindi è la parola che sovrasta la lapide posta dal Comune di Urbino nel porticato del giardino pensile dell’ex convento di santa Chiara, ove, sino a qualche decennio fa, era l’Ospedale Civile, oggi sede del prestigioso Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, l'ISIA. Seguono i nomi degli otto ebrei prelevati dalla polizia nazista dal padiglione lì accanto. A dire il vero delle due donne (e forse anche di altri) non sono state trovate le cartelle cliniche di dimissione compilate dall’allora primario del reparto di Medicina professor Canzio Ricci, ma i loro nomi ricompaiono a Forlì insieme a quelli dei loro congiunti prelevati in Urbino. Inoltre testimonianze dirette raccolte dalla viva voce del dottor Bruno Borgogelli, al tempo giovane medico del reparto, ne danno certa la presenza. Sono per lo più ebrei stranieri come Loewsztein, Temann, Gottesmann e l’intera famiglia Amsterdam di Gorizia, solo il giovane Gaddo Morpurgo è italiano,  tutti uniti dallo stesso tragico destino.

 

Erano molti gli ebrei stranieri venuti in Italia all’inizio dei primi atti persecutori in Germania, come il rogo dei libri di autori ebrei ordinato dal ministro della cultura Goebbels quando nel 1933 furono dati alle fiamme a Berlino ben quattordici camion colmi di libri. Erano opere di Thomas Mann, di Freud, di Rosenzwaig, di Kafka, di tutti i maggiori esponenti della cultura mittleuropea. Mussolini, a quel tempo, li aveva invitati a rifugiarsi in Italia ove, assicurò, non sarebbe stato loro «torto un capello».

 

Credettero alle sue parole e del resto come non farlo? La partecipazione degli ebrei alle lotte per il Risorgimento era stata totale e determinante, sin dal lontano 1797 con l’appoggio alle campagne di Napoleone che aveva realizzato la sospirata apertura dei ghetti in tutta la penisola, e poi ai moti del ‘30 e del ‘31 e poi ancora nelle guerre di Indipendenza in cui profusero con passione denaro e vite umane. Compatta era stata la partecipazione di cittadini italiani ebrei alla prima Guerra Mondiale, per la conquista dell'Unità d’Italia, nella quale seppero conquistarsi medaglie al valore su campo. Era il 1918, ma appena vent’anni dopo, 1938, l’Italia fascista ripaga con le Leggi Razziali i loro generoso impegno. Fu così che i tanti ebrei stranieri finirono in campi di concentramento, o in carcere come in Urbino. Dopo i 25 luglio del ’43, caduto ormai il fascismo, avrebbero potuto esseri salvati se il re Vittorio Emanuele III, preoccupato di prepararsi la fuga, non avesse “dimenticato” di abrogare quelle leggi infami che egli stesso aveva firmato.


Per coloro che cercavano di salvarli, il rischio restava alto. Nonostante ciò tanti urbinati si prodigarono per la loro salvezza a partire da Concetta Ceccarini Logli, don Dante Lucerna, don Gino Ceccarini... Dopo l' 8 settembre, nonostante l’arrivo dei tedeschi in città, trovarono asilo da tante famiglie, una notte qua una notte là, finché si pensò di ricoverarli in ospedale, ritenuto un luogo sicuro.  Ed è proprio lì che alle cinque del pomeriggio del 12 agosto 1944 irrompono le S.S., caricati sul camion in cui si trovavano già altre due coppie arrestate a Fermignano e a Sant’Angelo in Vado, vengono condotti a Forlì ove saranno fucilati, gli uomini il 5 settembre, le donne il 17. E pensare che appena sedici giorni dopo Urbino sarà liberata!

 

La Bandiera d’Israele la sventolarono per primi quei cinquemila giovani ebrei palestinesi sbarcati a Taranto, al seguito deirVIII Armata britannica sotto il comando del maresciallo Alexander, il 5 novembre 1944. Da Roma la Brigata Ebraica proseguì per Foligno, Fano, Pesaro e Urbino, raggiunta Cervia si attestò a Ravenna. Pochi ricordano che si deve ad essa la liberazione di Ravenna, Faenza, Russi, Cotignola, Alfonsine e Imola; tutte città in cui ili combattuta, baionette sguainate e in pieno giorno, Tunica battaglia all’arma bianca della seconda Guerra Mondiale.  A centinaia rimasero sul campo: poi sepolti nel cimitero ebraico di Frangipane presso Ravenna.

 

Finita la guerra furono impiegati in attività di soccorso ai sopravvissuti dei lager che scendevano dai treni provenienti dal Nord e al pietoso compito di ricerca e identificazione delle vittime di tanti efferati eccidi. E proprio lì, in Romagna, dove avevano combattuto più aspramente e versato tanto sangue per liberare quelle popolazioni dalla ferocia nazifascista, portarono alla luce 37 corpi. Erano di povere vittime fucilate nel campo d’aviazione di Forlì sull’orlo delle fosse aperte dai bombardamenti Alleati, gli uomini il 5 settembre e il 17 le donne, mogli madri e sorelle di quelli uccisi pochi giorni prima. La pietà delle suore del reclusorio femminile aveva nascosto loro la tragica fine dei congiunti.

 

Tra loro anche i deportati elencati nella lapide scoperta il 25 aprile scorso in Urbino. I nomi risultano dai documenti del fondo della Prefettura presso l’Archivio di Stato di Forlì esaminati dalla studiosa Paola Saiani.

 

 

 

Zakor   (Ricorda)

 

Cliccando sui nomi azzurri sottolineati  è possibile accedere alle ulteriori  notizie, ricostruite da testimonianze raccolte da Maria Luisa Moscati Benigni

 

Gaddo Morpurgo

Attilio Morpurgo

Loewsztein - Gottesmann - Temann

Famiglia Joseph Amsterdam

Coniugi Paetch

Coniugi Israel Amsterdam

Ex-residenti urbinati

Monastero di S. Chiara già sede dell'Ospedale Civile di Urbino ora sede dell' ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche)

 

 

 

 

Ubicazione della lapide commemorativa ed alcune autorità presenti alla cerimobia

 

Per coloro che cercavano di salvarli, il rischio restava alto. Nonostante ciò tanti urbinati si prodigarono per la loro salvezza a partire da Concetta Ceccarini Logli, don Dante Lucerna, don Gino Ceccarini... Dopo l' 8 settembre, nonostante l’arrivo dei tedeschi in città, trovarono asilo da tante famiglie, una notte qua una notte là, finché si pensò di ricoverarli in ospedale, ritenuto un luogo sicuro. Ed era proprio lì che alle cinque del pomeriggio del 12 agosto 1944 irrompono le S.S., caricati sul camion in cui si trovavano già altre due coppie arrestate a Fermignano e a Sant’Angelo in Vado, vengono condotti a Forlì ove saranno fucilati, gli uomini il 5 settembre, le donne il 17. E pensare che appena sedici giorni dopo Urbino sarà liberata!

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GADDO MORPURGO

Sotto, un raro ritratto di Gaddo Morpurgo, nato a Gorizia il 1 marzo 1920 e fucilato a Forlì il 5 settembre 1944.

Gaddo Morpurgo è l’unico ebreo italiano, degli otto arrestati in Urbino da un commando delle S. S. e fucilati nel campo d’aviazione di Forlì, sull’orlo dei crateri aperti dai bombardamenti. Era il 5 settembre 1944, non c’era più tempo per deportarli in Germania, gli Alleati erano ormai vicini. Tutto era cominciato l’8 settembre 1943. «Armistizio. Gioia fugace, nel primo momento tutti speravano nella pace poi...». Con queste parole Attilio Morpurgo, presidente della Comunità ebraica di Gorizia, inizia il diario in cui registra gli eventi di quegli anni terribili. Si era rifugiato ad Ostra Vetere, con la moglie, la governante e il figlio Gaddo, di 23 anni. Ogni volta che nomina il giovane lo apostrofa con gli appellativi più affettuosi, «il mio angelo... santo... benedetto...- e più spesso - Gaddo, luce degli occhi miei».

Tre mesi tranquilli, gli ultimi, poi un mattino all’alba del 7 dicembre, giunge trafelata la moglie dell’appuntato per avvertirli che di lì a poco sarebbero venuti ad arrestarli. E infatti con i carabinieri, stupiti di trovarli ancora in casa, giunge il segretario del partito, Galeazzo Titti che li conduce tutti a Senigallia ove, dopo ore di interrogatori Gaddo verrà internato nel locale Campo di concentramento Unes, gli altri rispediti a casa con l’obbligo di residenza. La direttrice del Campo lo conforta e lo consiglia. Quando verrà mandato verso il Nord, giunto a Pesaro, accusa un malore. Sottoposto alla visita del medico provinciale, sarà trasferito nel carcere di Urbino. Qui passerà mesi sfinito dalla fame. Vede l’alba sorgere dalle Cesane, tante livide albe insonni tormentato «dai dolori allo stomaco, giramenti di testa, dolori intercostali... ho perso 14 chili» come scrive al padre nelle sue tante lettere nelle quali chiede che di tanto in tanto gli si mandi una pagnotta di pane. Anche la direttrice del Campo, Iolanda Diamantini, donna di grande umanità, risponde alle sue lettere dando istruzioni su cosa fare per farsi rimandare a Senigallia e ricongiungersi ai suoi, anch’essi, nel frattempo, internati nello stesso Campo. C’è tutto un fitto carteggio, lettere e cartoline con su scritto «Vinceremo», ma l’Italia ha già perso, con gli Alleati che avanzano dal Sud e i tedeschi, anche se ormai prossimi alla ritirata, più feroci che mai. In questa situazione caotica i carabinieri di Senigallia, in due giorni, riescono a portare gli ebrei internati del Campo verso Sud, verso la salvezza.

Attilio Morpurgo descrive nel suo diario il bombardamento di Osimo ove per ben due volte grosse schegge di bombe colpiscono il posto in cui sedeva fino a pochi istanti prima e se ne rallegra e, pieno di speranza, si chiede: «...perché il Signore mi avrebbe salvato se non fosse per farmi riabbracciare il mio adorato Gaddo?, altrimenti meglio sarebbe io fossi morto». Intanto in Urbino della sorte di Gaddo e di un altro giovane ebreo, Artur Amsterdam di 22 anni, molto si preoccupa l’assistente carceraria Concetta Ceccarini in Logli, così come di altri ebrei e partigiani. Era riuscita a farli uscire dal carcere e a sistemarli prima presso la chiesa di san Sergio, ma poi - quando sul parroco don Gino Ceccarini si concentrarono i sospetti delle S.S. tanto da dover egli stesso fuggire - presso qualche famiglia, un giorno qui e un giorno là. Infatti per una grave «dimenticanza» di Vittorio Emanuele III, le Leggi Razziali erano ancora operanti nonostante fosse già trascorso un anno dalla caduta del fascismo, la gente quindi temeva ancora di incorrere nelle gravi sanzioni previste per quanti avessero dato aiuto agli ebrei. A questo punto, su consiglio di un medico ebreo anch’egli rifugiato a Urbino, Concetta pratica al giovane Gaddo un’iniezione di latte per provocare la febbre e quindi un pronto ricovero in ospedale luogo da tutti ritenuto sicuro: era già il 7 agosto. Proprio quando, grazie alle cure affettuose dei medici e alle premure di suor Fabiola (divenuta poi Superiora nell’ospedale San Galicano a Roma) Gaddo comincierà a riacquistare le forze, ecco irrompere la temuta polizia tedesca con in mano l’elenco degli ebrei già detenuti nelle carceri di Urbino, secondo alcuni circa una decina. E’ un mistero come fossero venuti a conoscenza della loro presenza nel nosocomio urbinate.

 

Preg.ssimo Attilio Morpurgo

Campo di Concentramento

Colonia Marina "Unes"

Senigallia (Prov. Ancona)

 

mitt. Morpurgo Gaddo  Via s. Girolamo 8  Urbino e se non ricevete i miei scritti è perchè la posta ritarda.

Attendo vostri scritti ed intanto ricevete i miei baci.

Vostro  Gaddo

A destra, una delle cartoline che Gaddo Morpurgo riuscì ad inviare al padre Attilio Morpurgo, detenuto nel campo di concentramento «Unes» di Senigallia. Il segretario del partito fascista che lo condusse alla prigionìa, finì a sua volta in carcere e dopo la Liberazione scrisse al padre di Gaddo per avere una lettera di aiuto per uscir di prigione

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Oltre a quello di Gaddo Morpurgo figurano i nomi di Joseph Loewsztein di soli 29 anni nato a Varsavia, di Georg Gottesmann di 45 anni e Joseph Temann di 52 entrambi viennesi, e dell’intera famiglia Joseph Amsterdam composta dal padre Joseph, un polacco di 60 anni e la madre Salka (Sara Jalka) Richter, di poco più giovane, e i figli Selma e Arthur, quest’ultimo nato in Germania, appena ventiduenne. Erano stati reclusi nel carcere di san Girolamo, da cui in luglio erano riusciti a fuggire approfittando del momento di confusione generale di un’Italia allo sbando tra la fuga del re e la presenza dei tedeschi.  Aiutati, nascosti nel sottotetto della chiesa di san Sergio da don Gino Ceccarini, poi anche da privati e dall’instancabile Concetta Ceccarini finiscono con l’essere ricoverati nel reparto Isolamento dell’Ospedale ove si riteneva fossero al sicuro. Ed è proprio lì che vengono arrestati il pomeriggio del 12 agosto 1944: il primario, professor Canzio Ricci, annota nella cartella clinica di ciascuno «fatto uscire d’autorità dalla polizia tedesca».  «Erano le cinque del pomeriggio del 12 agosto 1944 — racconta il dottor Bruno Borgogelli all’epoca giovane aiuto nel reparto di Medicina — eravamo in piedi sull’ultimo gradino dello scalone di ingresso, quando dalla scala esterna sono saliti, preceduti e seguiti dalle S.S. con i mitra puntati, gli ebrei che avevamo in cura da giorni nel reparto Isolamento. Ho battuto una mano sulla spalla di Gaddo, di poco più giovane di me, gli ho detto, arrivederci..., mi ha guardato... ha scosso il capo e... no..., questa volta no, mi ha risposto... Mi sono chiesto spesso quale fine avesse fatto... non ho mai dimenticato quello sguardo!».

Fuori, all’interno di un camion dell’esercito tedesco, attendevano due coppie ebree appena arrestate nei centri vicini. Destinazione per tutti, Forlì. Nel 1945 giungono ancora lettere di richiesta di notizie da parte di Attilio Morpurgo che, ignaro della tragica sorte del suo adorato Gaddo, lo cerca in Urbino: ultimo indirizzo a lui noto. Ironia della sorte, riceve invece una lettera dall’ex gerarca Galeazzo Titti, ora in carcere, che lo supplica di deporre in suo favore affinché gli Alleati gli restituiscano la libertà.

I giovani della Brigata ebraica rinvennero anche i poveri resti di quelle due coppie presenti all’interno del camion sul quale le SS avevano caricato gli ebrei arrestati nell’Ospedale di Urbino: i Paecht e altri due Amsterdam. Karl Joseph Paecht, rumeno di 55 anni e sua moglie Maria Rosenzweig, ungherese di 47 anni erano stati nascosti con altri ebrei a Sant’Angelo in Vado. Quando si diffuse la notizia di un imminente rastrellamento tutti fuggirono nascondendosi nei boschi, mentre i coniugi Paecht, ormai stanchi delle continue fughe, sfiduciati si erano lasciati arrestare.

Ancora più tragica la storia dell’altra coppia, arrestata lo stesso giorno a Fermignano: sono entrambi polacchi, Israel Amsterdam di 45 anni e sua moglie Lea Rosenbaum di 38. Appena sposati si erano imbarcati a Trieste nel 1940, diretti, via Siracusa, a Bengasi per poi raggiungere con altri fuggitivi la Palestina, aggirando il blocco navale inglese che impediva lo sbarco agli ebrei provenienti dall’Europa. Era questo un “favore” che la Gran Bretagna faceva agli arabi per non compromettere i propri interessi a Suez. Purtroppo, a causa dell’entrata in guerra dell’Italia, il gruppo, che contava 302 persone, rimase bloccato nel settembre del ’40 a Bengasi, e fu riportato in Italia nel campo di internamento per ebrei stranieri di Ferramonti. Israel e Lea furono i soli ad essere trasferiti nel campo di internamento di Fermignano. Una tragica fatalità poiché quanti rimasero a Ferramonti, furono i primi ad essere liberati dalle truppe alleate che risalivano la penisola.

La notizia di questo ennesimo eccidio perpetrato dai tedeschi sul nostro territorio, nonché l’identificazione dei cadaveri, si deve ai giovani ebrei della Brigata ebraica, giunta dalla Palestina, al seguito dell’VIII Armata Britannica sotto il comando del maresciallo Alexander. Ma questa è un’altra storia.

 

Per completare queste tristi storie locali vanno ricordati quei cinque ebrei, urbinati di nascita, ma da anni residenti altrove, deportati ad Auschwitz tra il ’43 e il ’44 e lì mandati nelle camere a gas il giorno stesso dell’arrivo:

Arrigo Coen (fratello di Ughetto) arrestato a Milano

Lina Milla arrestata a Milano assieme ad Arrigo

Jole Bemporad a Ferrara

Vittoria Levi  arrestata a Verona

Eva Moscati originaria di Urbania arrestata nella razzia del 16 ottobre 1943 a Roma.

«Zakor». Ricordiamo.

Maria Luisa Moscati Benigni

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