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STORIE DI EBREI  in  URBINO

 

Bemporad Ettore

Coen Cav. Angelo

Morpurgo Gaddo

Musatti Cesare

Sciaky Isacco

Treves Renato

 

 

 

 

Molto spesso sono frutto dei ricordi della Prof. Maria Luisa Moscati, appassionata e documentata studiosa di Storia Ebraica locale e generale.

Molte di queste ricerche sono state pubblicate sulla Stampa Locale, Nazionale e Specializzata

 

 

 

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Ettore BEMPORAD

Nato in Urbino il 2 Novembre 1873

 

Ettore Bemporad aveva svolto l'incarico di bibliotecario distributore presso l’Università dal 1896 al 17 novembre 1938 quando ne fu allontanato a seguito delle leggi razziali che vietavano agli ebrei la possibilità di ricoprire incarichi pubblici. Fino al 1928 aveva svolto anche la professione forense, interrotta per la soppressione del locale Tribunale.

Era la tipica figura, ormai persa, di bibliotecario erudito e molto si favoleggia sulla sua sterminata cultura in ogni campo. Di lui si diceva che fosse in grado di preparare una tesi in una notte. In realtà ciò che forse riusciva veramente a realizzare era una vasta bibliografia segnalando persino quei testi che apparentemente non avevano alcun nesso col tema della tesi, ma che poi si rivelavano fondamentali.

Aveva fatto parte della commissione cultura del Comune di Urbino e per questo spesso inviato a capo delle delegazioni presso varie città italiane e all’estero. Al ritorno dalla clandestinità in cui le persecuzioni lo avevano costretto, cercherà di riottenere la vecchia carica di bibliotecario, ma ormai più che settantenne, otterrà dall’Università soltanto l’aumento della pensione, più volte sollecitato anche in considerazione dell’inflazione postbellica.

Era nato il 2 novembre 1873 da Gioacchino e Isabella Moscati, una delle più antiche famiglie della Comunità ebraica urbinate, discendente da quel David Bemporad, orefice, già presente in Urbino prima che giungessero tante altre famiglie ebraiche dalle varie città del Ducato quando nel 1633 venne eretto il ghetto.

La sua famiglia abitava sin da allora nella prima casa in cima a via Stretta, angolo via delle Stallacce, ove un tempo sbucava il collegamento che, attraverso il cavalcavia, univa l’ex Palazzo Palma alle altre abitazioni del vecchio ghetto. I vecchi urbinati lo ricordano ancora, i capelli bianchissimi, un po’ lunghi sul collo, piccolo di statura, ma la voce stentorea, impostata forse negli anni della professione forense. A chi gli faceva notare che avrebbe potuto arricchirsi dopo tanti anni passati ad aiutare centinaia di studenti prossimi alla laurea, rispondeva con un’espressione rimasta a lungo nel lessico degli abitanti dell’ex ghetto “Sarebbe un reato gravissimo”. E chi lo ricorda, giura che nel dirlo s’impettiva talmente da diventare più alto.

Maria Luisa Moscati Benigni

 

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Cav. Angelo Coen

Nato in Urbino il 2 Novembre 1873

 

«...Un'antica colonna del nostro Istituto...», con queste parole il nuovo rettore Giuseppe Branca ricorda Angelo Coen aprendo il discorso inaugurale dell’anno accademico 1945-46.

E’ quasi un risarcimento morale nei confronti di colui che nel 1938 era stato allontanato a causa delle discriminazioni antiebraiche, ma già lo stesso rettore Canzio Ricci, che suo malgrado aveva dovuto prendere l’increscioso provvedimento in ottemperanza alle disposizioni emanate dal ministro Bottai, sottolineava che dal 1899 il dottor Coen «ha servito con zelo e perfetta onestà, curando con opera costante, saggia ed oculata il patrimonio dell’Università». Onesto sin nelle più piccole cose come portare da casa l’inchiostro con cui ripassare i conteggi e così pure le cameriere per la pulizia dei tre grandi lampadari dell’Aula Magna del rettorato per tema che inservienti inadatti potessero danneggiare i preziosi cristalli di Murano. E quando l’anno seguente ottenne di essere discriminato preferì non chiedere di essere reintegrato nella sua carica per non creare imbarazzo all’amico Rettore. Indiscussa la sua competenza tanto da essere a capo delle numerose istitu zioni benefiche cittadine dalla Società di Mutuo Soccorso alla presidenza della Cassa di Risparmio, di cui suo padre il Cavalier Placido Coen era stato socio fondatore, così come a tutti nota la grande generosità nei confronti di quanti si trovassero nel bisogno.

Quando l’Università, trovandosi in ristrettezze economiche, dovette vendere due terreni, si prodigò perché fossero i mezzadri stessi ad acquistarli e tanta generosità non fu dimenticata. Infatti molti anni dopo, nel terribile inverno ’43-’44 quando tutti gli ebrei furono costretti ad abbandonare le loro case per non essere deportati, è proprio presso la famiglia dell’ex colono Basili di Urbania che la figlia primogenita del “sor Angelo”, con i suoi due bambini, troverà spontanea e generosa accoglienza. «Se ho un tetto sulla testa lo debbo al su' ba’» le ripeteva spesso Peppe Basili come a sollevarla da ogni imbarazzo.

In quegli anni le tragiche conseguenze delle Leggi Razziali si abbatterono come un ciclone sull’intera famiglia Coen disperdendo per il mondo quei figli e quei nipoti ai quali Angelo Coen avrà certo pensato come corona della sua vecchiaia, visto che alla famiglia e al lavoro aveva dedicato l’intera esistenza.

Un’altra figlia, con una bimba, affronterà mille disagi in Venezuela prima che il marito, già medico in Italia, conseguisse di nuovo la laurea nel Paese che li ospitava, mentre i tre figli maschi si sposteranno nelle montagne in luoghi sempre diversi, spesso senza poter dare né ricevere notizie.

Presso il Convento delle suore di Santa Caterina troveranno affettuosa ospitalità la moglie Alessandrina e una terza figlia con il piccolo Aldo. Saranno proprio loro che, con grande pericolo per la presenza dei tedeschi in città, riusciranno qualche rara volta a raggiungere il vicino ospedale ove Angelo Coen era ricoverato e, grazie alla complicità del giovane medico Bruno Borgogelli, entrare non viste nella sua camera. Tutti in Urbino sapevano, ma nessuno osò denunciarne la presenza, tanto grandi erano l’affetto e il rispetto che l’intera popolazione nutriva per lui. Il dottor cavalier Angelo Coen, nato nel 1867 da un’antica famiglia urbinate, morirà il 2 luglio 1944 solo, nessuno della sua splendida famiglia potrà essere al suo capezzale. Vicino a lui soltanto l’amico di sempre, il rettore Canzio Ricci, primario del reparto di Medicina.

Maria Luisa Moscati Benigni

 

Cav. Angelo Coen nel 1888 da militare

 

Cav. Angelo Coen al tempo delle leggi razziali

 

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GADDO MORPURGO

Nato a Gorizia 1 marzo1920  fucilato a Forlì il 5 settembre 1944

 

Sotto, un raro ritratto di Gaddo Morpurgo, nato a Gorizia il 1 marzo 1920 e fucilato a Forlì il 5 settembre 1944.

Gaddo Morpurgo è l’unico ebreo italiano, degli otto arrestati in Urbino da un commando delle S. S. e fucilati nel campo d’aviazione di Forlì, sull’orlo dei crateri aperti dai bombardamenti. Era il 5 settembre 1944, non c’era più tempo per deportarli in Germania, gli Alleati erano ormai vicini. Tutto era cominciato l’8 settembre 1943. «Armistizio. Gioia fugace, nel primo momento tutti speravano nella pace poi...». Con queste parole Attilio Morpurgo, presidente della Comunità ebraica di Gorizia, inizia il diario in cui registra gli eventi di quegli anni terribili. Si era rifugiato ad Ostra Vetere, con la moglie, la governante e il figlio Gaddo, di 23 anni. Ogni volta che nomina il giovane lo apostrofa con gli appellativi più affettuosi, «il mio angelo... santo... benedetto...- e più spesso - Gaddo, luce degli occhi miei».

Tre mesi tranquilli, gli ultimi, poi un mattino all’alba del 7 dicembre, giunge trafelata la moglie dell’appuntato per avvertirli che di lì a poco sarebbero venuti ad arrestarli. E infatti con i carabinieri, stupiti di trovarli ancora in casa, giunge il segretario del partito, Galeazzo Titti che li conduce tutti a Senigallia ove, dopo ore di interrogatori Gaddo verrà internato nel locale Campo di concentramento Unes, gli altri rispediti a casa con l’obbligo di residenza. La direttrice del Campo lo conforta e lo consiglia. Quando verrà mandato verso il Nord, giunto a Pesaro, accusa un malore. Sottoposto alla visita del medico provinciale, sarà trasferito nel carcere di Urbino. Qui passerà mesi sfinito dalla fame. Vede l’alba sorgere dalle Cesane, tante livide albe insonni tormentato «dai dolori allo stomaco, giramenti di testa, dolori intercostali... ho perso 14 chili» come scrive al padre nelle sue tante lettere nelle quali chiede che di tanto in tanto gli si mandi una pagnotta di pane. Anche la direttrice del Campo, Iolanda Diamantini, donna di grande umanità, risponde alle sue lettere dando istruzioni su cosa fare per farsi rimandare a Senigallia e ricongiungersi ai suoi, anch’essi, nel frattempo, internati nello stesso Campo. C’è tutto un fitto carteggio, lettere e cartoline con su scritto «Vinceremo», ma l’Italia ha già perso, con gli Alleati che avanzano dal Sud e i tedeschi, anche se ormai prossimi alla ritirata, più feroci che mai. In questa situazione caotica i carabinieri di Senigallia, in due giorni, riescono a portare gli ebrei internati del Campo verso Sud, verso la salvezza.

 

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CESARE  MUSATTI

Salonicco 1896 - Gerusalemme 1979

 

 «...Io sono stato perseguitato un po’ all’italiana, dato che sono stato ritenuto ebreo per l’Università e privato quindi dell’insegnamento nelle sedi di Padova e Urbino, in cui allora ero docente, ma “buono” per il liceo, anche se con il divieto di pubblicare i miei lavori scientifici, e mantenuto “buono” anche per l’esercito...».

Umorismo e amarezza si fondono in questo che potremmo collegare al Witz freudiano, al “motto di spirito” con il quale Cesare Musatti, il grande vecchio della psicoanalisi italiana, risponde alla giovane giornalista che nel 1987 lo intervistava in occasione del suo novantesimo compleanno. E continua sottolineando le barzellette ebraiche nelle quali l’ebreo «consapevole della fragilità della propria condizione e dei difetti che ne derivano... anticipa le critiche alla propria personalità togliendo all’interlocutore la possibilità di attaccarlo per primo». Forse proprio questa «naturale tendenza all’autoanalisi ha fatto sì che la psicoanalisi fosse considerata una scienza giudaica».  Nella foto è riprodotta la copertina di «Mondo Ebraico», il mensile indipendente che anni fa intervistò Cesare Musatti sul rapporto con la città di Urbino

Dai brevi stralci tratti dall’intervista appare evidente come Musatti si riappropri della sua identità ebraica, proprio lui che ebreo non è. Non lo è per l’halakhà la legislazione rabbinica, che considera ebreo solo    chi nasce da madre ebrea, (di famiglia ebraica era soltanto suo padre), non lo è per la legislazione fascista in quanto battezzato sin da bambino né mai iscritto a Comunità ebraiche. Eppure le leggi razziali del ’38 lo colpiranno nonostante fosse anche vincitore del concorso per l’insegnamento delle materie filosofiche nell’Università di Urbino e con un particolare programma di Psicologia Sperimentale caldeggiato sia dal Rettore sia dal Preside di Magistero. Ma la pratica relativa alla conferma dell’incarico a Musatti ha un iter lunghissimo: in un primo momento gli sarà affidato l’incarico di sostituire il professor Sciaky nella sessione di esami dell’ottobre del ‘38 poi seguirà un fitto carteggio tra il Ministero che tergiversa e il Rettore Canzio Ricci che attende il via libera per la conferma dell’incarico già deliberato dal Consiglio di Facoltà. E’ un alternarsi di conferme e smentite che dura oltre un anno, dal quale il professor Musatti uscirà distrutto e nel suo libro «Chi ha paura del lupo cattivo» commenta gli avvenimenti con brevi parole «...alla fine del ’39 il ministro Bottai risolse il mio caso in modo salomonico: Non avrei più dovuto insegnare all’università, né pubblicare lavori scientifici o d’altro genere. Potevo però insegnare in un liceo (purché non a Padova, da cui in pratica fui allontanato), così come potevo servire nell’esercito come capitano di complemento». E’ evidente che il regime è mosso da criteri politici più che razziali: ridurre l’influenza del mondo della cultura e avversare, come del resto la Chiesa cattolica, le teorie psicoanalitiche freudiane. Ancora una volta sarà il raccomandatissimo professor Vincenzo La Via a ricoprire la cattedra di Psicologia.

Ma di Urbino Cesare Musatti aveva serbato un caro ricordo, infatti quando, terminata l’intervista, Ester Moscati, nell’ac- comiatarsi gli chiese se ricordasse ancora «l’urbinateria canziota» si vide puntare addosso un paio d’ occhi arguti, mobilissimi, indagatori. La giovane giornalista spiegò allora che, essendo urbinate, ne aveva sentito parlare in famiglia perché sua nonna era figlia di quell’Angelo Coen allontanato dall’Università, anch’egli per motivi razziali e che Musatti, spesso ospite in casa Coen, aveva ben conosciuto. Per una volta sarà lo psicologo a finire “sul lettino” travolto dall’onda incontenibile dei ricordi di un ambiente come quello urbinate in cui, nonostante il disgraziato momento storico, la persona del rettore Canzio (da cui l’aggettivo canziota) aveva saputo creare uno spirito di solidarietà tra i docenti e di amicizia tra questi e la buona borghesia locale. Così tanti professori, costretti a trascorrere lunghi periodi in Urbino, potevano contare su serate in case ospitali, o nel salotto del Circolo cittadino o partecipare a gite e ricorrenze in un clima famigliare. Le domande si accavallavano le une sulle altre, senza aspettar risposta ripercorreva quel fitto intreccio di amicizie e conoscenze che quella curiosa espressione aveva fatto riaffiorare alla sua memoria dopo quasi mezzo secolo.

Nato a Dolo sul Brenta nel 1897, con poche probabilità di sopravvivenza in quanto “settimino”, sarà preso in cura dallo zio paterno, Cesare Musatti, uno dei più famosi pediatri dell’epoca, e da qui il nome. Il padre, socialista e amico di Giacomo Matteotti, fu deputato al Parlamento italiano, pertanto la famiglia si trasferisce a Roma ove il giovane consegue la maturità classica al «Giulio Cesare». Subito si trasferisce a Venezia ove si iscrive a Matematica, poi a Lettere e Filosofìa, e vive nella casa dei nonni paterni ove ha sempre trascorso sin dall’infanzia, le vacanze estive e le festività ebraiche. Qui respira quel clima di ebraicità laica, fatto più di tradizione che di pratica religiosa ed è la nonna, una donna molto colta, che influenzerà profondamente la sua formazione.

 Parte nel 1917 per il fronte, poi, terminata la guerra, si reca a Padova per concludere gli studi alla Facoltà di Filosofia perché alla cattedra di Psicologia Sperimentale insegnava Vittorio Benussi, chiamato per chiara fama da Graz. Conseguita la laurea nel 1922 già l’anno successivo è assistente volontario del Laboratorio di psicoanalisi sperimentale. Nel ’27, in seguito alla morte del professor Benussi, suicida, tutto passa nelle mani di Musatti e dell’altra assistente Silvia De Marchi (diventerà sua moglie e avranno un figlio, Riccardo), con lei pubblicherà gli inediti del Maestro. All’epoca era ancora sposato con Albina Pozzato, morta giovanissima.

Già dal ’25 figurava tra i fondatori della SPI (Società Psicoanalitica Italiana) con Edoardo Weiss, Nicola Pezzotti ed Emilio Servadio chiusa nel ’38 per l’ostilità del regime fascista, e a seguito delle Leggi Razziali dovrà lasciare Padova. Nel ’43, cercherà di costituire a Milano il PSIUP, erede dell’antico Partito Socialista, ma a causa dei continui bombardamenti si trasferirà con moglie e figli ad Ivrea, ospite dell’amico Adriano Olivetti, ove, per l’impossibilità di restare inoperoso, fonderà un centro di psicologia del lavoro. Nominato Direttore della Scuola Allievi meccanici per giovani destinati a diventare operai meccanici specializzati presso la ditta Olivetti, dovrà lasciare l’incarico perché richiamato a combattere sul fronte francese.

Nel '47 vince il concorso all’Università Statale di Milano per la cattedra di psicologia, la prima in Italia; per vent’anni le sue lezioni saranno seguite da migliaia di studenti affluiti da ogni parte d’Italia e dall’estero. Sviluppò le tre direttrici sperimentali di Benussi: la psicologia della percezione, psicologia della testimonianza e lo studio della suggestione e dell’ipnosi. E’ il leader indiscusso della psicoanalisi di Freud che fece conoscere in Italia col suo «Trattato di Psicoanalisi», pubblicato da Einaudi nel ’49. Scrisse anche libri di letteratura come «I Pronipoti di Giulio Cesare» (premio Viareggio del 1981), si interessò di teatro e televisione e si impegnò anche sul piano civile accettando per due volte la carica di Consigliere nel Comune di Milano e di consulente del Tribunale dei Minori. Cesare Musatti muore a Milano il 21 marzo 1989, le sue ceneri sono conservate nel piccolo cimitero di Brinzio (VA). La capitale lombarda lo ha inserito tra «Le persone che hanno fatto grande Milano», ma la sua città dell’anima resterà sempre Venezia e ai piedi di quel «lettino», sul quale tanti hanno cercato di ritrovare se stessi, resterà per decenni, forse per curare se stesso, una foto di piazza San Marco con l’alta marea grigia, dolce, malinconica.

Maria Luisa Moscati Benigni

 

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ISACCO  SCIAKY

Salonicco 1896 - Gerusalemme 1979

 

SCIAKY, IL FILOSOFO CHE SCRIVEVA AL DUCE

Un'autentica manna, le Leggi razziali, per tanti professori che a tempo di record si erano candidati ad occupare le cattedre rimaste libere in seguito alla cacciata dei docenti di “razza ebraica”. E per ottenerle, spesso furono sufficienti raccomandazioni di alti gerarchi e la tessera del P.N.F. Anche nella libera Università di Urbino, a partire dal 16 ottobre 1938, i docenti ebrei vengono sospesi da qualsiasi attività ed è subito un susseguirsi di domande già dal 27 ottobre quando il professor Giulio Cogni, uno dei più impegnati teorici del razzismo fascista, si propone al posto del professor Isacco Sciaky, comandato per Filosofia, Storia della filosofia e Pedagogia presso Magistero. Ci saranno molti altri aspiranti, ma per Filosofia e Storia la cattedra sarà assegnata al professor Vincenzo La Via, caldamente raccomandato nientemeno che dal senatore Giovanni Gentile, mentre per Pedagogia l’incarico verrà prontamente conferito al professor Antonio Sammartano segnalato dallo stesso ministro Bottai (si veda in proposito la tesi di Laurea del professor Antonio Conti su “L’Università di Urbino e l’applicazione delle Leggi Razziali”).

Il Prof. Isacco Sciaky, che, dopo una vita segnata da mille traversie, era finalmente approdato, appena quarantenne, nel nostro Ateneo con piena soddisfazione del preside di Magistero professor Clemente Rebora e dello stesso Rettore Canzio Ricci, deve lasciare con amarezza tutto quanto faticosamente conquistato. Doppiamente tradito perché aveva creduto nel fascismo quando Mussolini aveva accolto in Italia tanti ebrei stranieri promettendo loro protezione, e fu egli stesso autore di studi di filosofia politica e di filosofia del diritto che lo mostrano originale interprete in chiave ebraica dell’idealismo di Giovanni Gentile.

Nato a Salonicco nel 1896 vi compie gli studi nella scuola italiana sino al primo anno della facoltà di Lettere, ma nel 1917, quando l’intero quartiere ebraico viene dato alle fiamme, si salva a stento e si rifugia in Italia ove continua gli studi a Roma poi a Livorno con il sussidio delle locali comunità ebraiche. Nel ’20 sposa Beatrice Gattegna, anch’ella profuga di Salonicco, frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia all’Università di Roma e contemporaneamente lavora presso la Banca di Sconto. Trasferitosi a Firenze diventa capo redattore del settimanale “Israel”, ma già l’anno successivo lascia l’incarico per trasferirsi a Tripoli per conto dell’Organizzazione sionista per riformare le scuole ebraiche tripoline. Tornato nel ‘26 in Italia consegue la laurea in Filosofia con una tesi sul pensiero religioso in Kant, e inizia, nel liceo «Galilei» di Firenze, quella che è per lui una vocazione: l’insegnamento. Vi resterà fino al 1936 quando consegue la libera docenza in Filosofia teoretica, pur con brevi parentesi a Brescia e nelle scuole italiane di Istanbul e di Alessandria d’Egitto. Aveva collaborato a numerose riviste italiane, come “ La nuova scuola italiana”, “Civiltà Moderna” e “La nuova Italia”, quando arriva nell’Ateneo urbinate. In seguito alle Leggi razziali lascerà nel 1939 l’Italia per fare l’alijà in Eretz Israel, la “salita” in terra d’Israele, ove insegna dal ’41 al ‘63 nelle Università di Tel Aviv e di Gerusalemme. Tornerà in Italia nel 1958 per partecipare ai lavori del XII Congresso intemazionale di filosofia svoltosi a Venezia. Isacco Sciaky muore a Gerusalemme nel 1979.

 Notevole il carteggio tra Sciaky e Vladimir Jabotinsky, fondatore dell’Unione mondiale dei sionisti-revisionisti, un partito politico ebraico, sionista, nazionalista, liberale nato a Parigi negli anni ’20. Uno scambio epistolare durato quindici anni da cui emerge tra l’altro il tentativo di ottenere per Jabotinsky un’udienza con Mussolini, udienza che non verrà mai concessa anche perché il Duce non desiderava guastare i rapporti con gli Arabi che lo avevano appena acclamato “Difensore dell’Islam”.

Maria Luisa Moscati Benigni

 
Isacco Sciaky. Il salonicchiota in nero. A cura di Vincenzo Pinto
Ebraismo e sionismo nella “Nuova Italia” fascista (1918-1938)
Collana di Studi sul Sionismo

Edizioni Salomone Belforte & C. Livorno, 2009 (256 pp. 15 euro)

Sionismo e italianità: questo è il binomio affrontato in queste pagine struggenti e battagliere da un giovane ebreo di Salonicco, vissuto in Italia sino al 1939. Isacco Sciaky è un lucido interprete del malessere dell’identità ebraica contemporanea, rinchiusa nel proprio messianesimo diasporico (laico o religioso che fosse), incapace di affermare virilmente la propria umanità. L’educazione, la cultura, il retaggio religioso, la politica e altro ancora sono affrontati in questi scritti giornalistici, in cui Sciaky sostiene la statualità come orizzonte irriducibile dell’identità ebraica contemporanea. Un ritratto del mondo sefardita passato che si rifiutò di piegare la testa di fronte alle angherie e ai soprusi dei paesi ospitanti.
Isacco Sciaky (Salonicco 1896-Gerusalemme 1979) ha insegnato nei licei italiani e nelle università di Firenze e Urbino, prima della alijà in Eretz Israel (la “salita” in Terra d’Israele, all’epoca Palestina Mandataria) nel 1939. Qui ha lavorato presso le scuole di Tel Aviv e l’università di Gerusalemme. È autore di studi di filosofia politica e di filosofia del diritto, che lo mostrano originale interprete in chiave ebraica dell’idealismo attuale di Giovanni Gentile.
Vincenzo Pinto (1974), studioso di identità nazionalista in età contemporanea, è autore di numerosi volumi e curatele sui precursori dello stato ebraico (i racconti filosofici di Herzl editi da M&B nel 2004 e a biografia di Jabotinsky edita da UTET nel 2007). Ha curato la prima raccolta di racconti sulla Shoah (La tigre sotto la pelle edita da Bollati Boringhieri nel 2008). Sta lavorando a una monografia organica sull’identità ebraica di destra nel novecento.

 Maria Luisa Moscati Benigni

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RENATO  TREVES

Torino 1907 -  Milano 1992

 

GRANDE FILOSOFO e SOCIOLOGO

L’edizione del mattino del 3 settembre 1938 del Corriere della Sera titola, a caratteri cubitali, “Il Consiglio dei ministri per la difesa della razza. Insegnanti e studenti ebrei esclusi dalle scuole governative e pareggiate”. Da quel momento agli studenti ebrei è vietato l’accesso a scuole di ogni ordine e grado e tutti i docenti ebrei, dovendo abbandonare l’insegnamento, vedranno troncata la propria carriera ed anche ogni fonte di sostentamento per sé e per le proprie famiglie. In quell’anno presso l’Università di Urbino il giovane professore Renato Treves ricopriva, in qualità di libero docente, l’incarico di Filosofia del diritto e Diritto costituzionale con piena soddisfazione delle Autorità Accademiche e ampio seguito di studenti. Ma proprio quando nel ’38 parteciperà al concorso per ottenere la cattedra, ne verrà allontanato per motivi razziali, pertanto sarà l’amico Norberto Bobbio, unico concorrente rimasto, ad essere nominato.

Probabilmente Bobbio apparteneva a quello sparuto gruppo di docenti ai quali ripugnava “approfittare” di cattedre all’improvviso libere per cause così abiette e riuscirà a farsi chiamare dall’Ateneo di Siena. Sarà il giudice Crisafulli ad occupare il posto di Treves.

Nato a Torino nel 1907, vi compie i suoi studi stringendo amicizia fra l’altro con Norberto Bobbio e Vittorio Foa, aderendo ai principi del gruppo di Giustizia e Libertà. Consegue la laurea in Legge con una tesi su Henri de Saint-Simon, argomento scelto proprio per le sue affinità col socialismo liberale. Ottenuta la libera docenza avrà un primo incarico all’Università di Messina ove però sarà, sia pure per breve tempo, arrestato per sospetta attività antifascista. Nel 1935 assume l’incarico presso l’Ateneo urbinate accolto dal rettore Canzio Ricci con «un saluto al professor Treves, ora meritoriamente entrato nella valorosa schiera dei nostri docenti». Ma, come si è visto, vi resterà per soli tre anni poiché, a causa delle Leggi Razziali sarà costretto a lasciare l’Italia.

Rifugiatosi in Argentina troverà accoglienza nel folto gruppo degli esuli antifascisti italiani, otterrà la cattedra di Filosofia del diritto e Sociologia nell’Università di Tucumàn facendone un centro di cultura democratica e di umanesimo socialista. Sempre in Argentina sposa Fiammetta Lattes da cui ebbe tre figli. Nel 1947 toma in Italia ove avrà la cattedra prima all’Università di Parma poi definitamene a Milano ove insegna e fonda la rivista «Sociologia del Diritto».

E’ infatti agli studi sociologici che dedicherà tutto il suo impegno diventando protagonista della rinascita postbellica della sociologia in Italia. Tra il 1967 e il ’76 sarà il curatore di un’approfondita ricerca su “L’amministrazione della giustizia e la società italiana in trasformazione” pubblicata in dodici volumi di vari autori. Presiede inoltre il Research Committee on Sociology of Law della International Association facendosi promotore, in patria e all’estero, della sociologia del diritto intesa come scienza prevalentemente empirica ispirata a valori di libertà e giustizia sociale. Verrà nominato dottore honoris causa dalle Università di San Sebastián, Carlos III de Madrid e Pandios di Atene. E’ facile comprendere quale enorme perdita sia stata per l’Università di Urbino e per l’Italia il suo allontanamento dal panorama culturale di casa nostra. E’ a figure come la sua che si pensa quando si parla di fughe di cervelli all’estero, così frequenti e devastanti dall’inizio delle persecuzioni. Muore a Milano il 31 maggio 1992.

Maria Luisa Moscati Benigni

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