Home Nicola Gambedotti


NICOLA GAMBEDOTTI      
Critica
 


Michele Prisco/03

Nino D'Antonio/03

Nino D'Antonio/97

Donato Conenna/02

Domenico Raio/99

Franco Pincelli/97

Franco Solmi/83

Friedhelm Röttger/75

Giovanni DeCarlo/74

N. Alicorno/71

Sergio Paglieri/71

A. M. Secondino/71

Giovanni B.Frangini/??

Corrado Marsan/??

Corrado Marsan/??

P. A. /??

Quotazioni

ANNUARIO di Arte Moderna/00

(Critici in ordine cronologico)

 

 

 

Michele Prisco (2003)

... Chi dice che la fantasia non ha più diritto di cittadinanza nella società nella quale viviamo ? Gambedotti ce ne offre la più tangibile smentita. Di più: artista del suo e del nostro tempo, della fantasia egli ha fatto non tanto o non solo la sua sigla la sua poetica, e ce ne propone come una specie di estrema Thule o di ultima spiaggia, rifugio e insieme miraggio dell'uomo d'oggi sempre più succube, in un mondo che non ha più sicurezze e certezze, dell'avanzata tecnologia e sempre più vittima dei fantasmi della violenza.

[Dal catalogo Mostra Personale - Castello Brancaleoni - Comune di Piobbico - luglio2003]

 

 

Nino D'Antonio (2003)

... Un processo lungo, per molti aspetti esasperante, che viene portato avanti proprio

 utilizzando gli strumenti più tipici dell'acquaforte, dalla puntasecca al raschietto. Gli esiti, di inconfondibile fisionomia, sono tra i più intriganti suggestivi delle ultime stagioni, e certamente costituiscono una felice invenzione di Nicola Gambedotti. Il quale, in quanto a contenuti, ha popolato le sue opere di eroi, miti e leggende variamente ispirate alla storia di ogni tempo e di ogni luogo: dall'armata Brancaleone al mondo classico, dall'età dei cavalieri e dei castelli alle corti rinascimentali. E poi l'inferno di Dante, interpretato da venti stupefacenti tavole, e il mondo del circo e ancora quello di Don Chisciotte, fino ai più recenti cicli a mezza strada tra lucido e fiabesco: I Mangioni, I Proverbi, I Frati, Le Carte da gioco, Il Gatto con gli stivali, La Principessa sul pisello.  Un mondo di straordinaria immaginazione reso attraverso una folla di meccanismi e di personaggi, la cui matrice ha la freschezza delle fantasie infantili e l'ironia della maturità.

[Dal catalogo Mostra Personale - Castello Brancaleoni - Comune di Piobbico - luglio2003]

 

 

 

Donato Conenna (2002)

 

Si fa presto a dire surrealismo. Certo, liquidare il caso Gambedotti, con una bella etichetta: surrealista — trattare con cura (uomini, armi, bagagli provenienti dagli spazi siderei del nostro onirico quotidiano, tecniche e verità del sogno, simbologie del mito) è cosa facile. Tanto più che impressionante è la tecnica con la quale queste narrazioni sono tramate e meravigliante è il ricorso ad una continua ironia narrativa, per cui il gesto descritto risulta per mano del surrealista napoletano già analisi dissacrante del gesto formale.  Il dipintore, per intenderci, non solo descrive situazioni impossibili nel tempo e nel luogo ma ne offre una sorta di traslato ironico, ove i primi a trarne vantaggio dalla versione seriosa sono proprio i personaggi e i luoghi immaginati.

E qui viene d'obbligo, aumentando così il carico interrogativo che ci accompagna, dire quanto sia segnale di maturità culturale il raccontare in chiave di non voluta epicità questa sorta di chanson des gestes di uomini e di cose che dopo un defaticante viaggio indietro nel tempo, raggiungano la tela, terra promessa (alle loro gesta seriose, appunto) e che qui vi trovino, meraviglia delle meraviglie, i resti di altre "civiltà divenute" con lo scorrere del calendario.

Ed il viaggiatore di cose d'arte ha certo seguito, sin dagli anni Sessanta, il giovane artista di nome Nicola Gambedotti, per meglio sapere come avviene, quando avviene e perché avviene questo transfert nelle ucronìe e nelle utopie dell'accidentato circostante simbologico. La risposta che ne ha avuto è stata illuminante certo, ma non tanto da accendere la luce su tutto il camminamento dell'operazione artistica, che in Gambedotti ha dei tratti di superficie ma anche dei camminamenti sotterranei che l'artista compie ogni giorno nella sua "isola di terra" mentale, per raggiungere i suoi personaggi.

Per cui il lettore di queste note è invitato cortesemente a soffermarsi con estrema attenzione sulla decriptazione delle opere: questo intramare armi e cavalieri, questo evocare dame e amori, questo offrire a esseri e oggetti la ieratica epopea dell' istrionismo. Niente da più chiaro che il silenzio della storia. Ci piace quindi ancora pensare al giovane dipintore, che pure vive normalmente le crisi e le delizie del nostro reale quotidiano, e che trasla il vissuto in illo atempore, disseminandone le icone lungo itinerari di terre lontarnssime, dietro l'angolo del nostro inconscio.

Ma è giusto dire che l'atmosfera astorica che si respira nelle tele di Gambedotti conduce i comprimari e le oggettazioni posti sulla scena a recitare un giuoco delle parti, come una sorta di commedia ispirata dalle parole di un certo Andrè Breton, quasi che gli astanti, come una quinta colonna, si possano alfine ritrovare, oltrefrontiera, nei territori occupati con le armi dalla fantasia. "Siate realisti, cercate l'impossibile". Si dice già nel "Primo manifesto surrealista". 1925. Scusate il ritardo.

 

Su il volume: "Ricambio generazionale. Dopo il Novecento" - Mediapolis Editori 2002

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

Domenico Raio (1999)

 

Le leggende pittoriche di Nicola Gambedotti

 

SCENARI medievali di vaga ambientazione nordeuropea, arricchiti di impercettibili elementi di

 

contaminazione moderni. E' il mondo fantastico, satirico, del sacro e del profano; l'agognata violazione dei confini spazio-temporali dell'artista Nicola Gambedotti, pittore di Urbino, ma da lungo tempo residente a Napoli dove ha insegnato presso l'Istituto d'Arte.

Le opere di Gambedotti si caratterizzano tutte per le proprietà di una sorta di

"quarta dimensione"; quella narrativa. Le sue raffigurazioni, lungi dal cogliere situazioni statiche, si presentano come storie complete, con un inizio, uno sviluppo e un epilogo; leggende che l'artista racconta su tela utilizzando il pennello con la stessa maestria con la quale un buon narratore userebbe la penna.

 

 

 «Le creature gambedottiane - ha scritto di lui il professor Adolfo Giuliani - si inquadrano in una sorta di continuità storica dell'uomo, che, senza mai perdere di vista le istanze contemporanee, sia garante di una comunicazione mai interrotta col passato e aperta a suggestive ipotesi di dialogo futuro». Secondo il critico Corrado Marsan, nella pittura di Nicola Gambedotti si coglie la legge, inalterabile, della "reversibilità del reale"; tanto del reale nel suo specifico quanto dell'allusivo e illusivo "reale immaginario".

 

nel giornale "La Verità" del 21/02/1999

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

Nino D'Antonio (1997)

La sicura identità di Nicola Gambedotti

(Figg.: Amanuensi a sx; Guerra e Pace "La mucca pazza" a dx)

Di certo non è pittura da leggere d'un fiato. L'approccio è tutt'altro che facile e l'impaginato suggerisce, a prima vista, un che di delirante, misto a un'intensa suggestione. Si resta insomma avviati e smarriti, incuriositi e perplessi. Di qui la sindrome Gambedotti e la conseguente ricerca di un codice per una lettura che superi i confini sensibilistici. Intanto c'è l'eccezionale perizia di un eccezionale grafico. E l'incommensurabile carica di una fantasia, che pure risulta radicata nella convincente e storica realtà. È l'ambigua capacità ad alimentare una poetica fatta di illusioni e di teatralità. E l'istintiva predilezione per la simbologia. E la sapiente, sconcertante costruzione di improbabili architetture. E la convinta rinuncia a qualsivoglia protagonista a vantaggio di una rappresentazione corale, di una scena traboccante di figure, meccanismi, armamenti di ogni genere, corazze, scettri, accessori vari, minuterie fantastiche. E dietro, latente ed inafferrabile, la grande lezione di Piero della Francesca, di Bregue il Vecchio di Bosch. Sono questi gli ingredienti che danno vita alla pittura di Nicola Gambedotti? E' probabile. Perché niente risulta attendibile dinanzi al tratto deformante che caratterizza il suo segno; dinanzi all'ironia dolente che circola nelle sue opere, al distacco con cui vive i richiami surrealistici, in verità assai poco vicini al suo credo. Ne consegue che possa risultare quasi più facile un'indagine al negativo, che indichi cioè quanto di sicuro non c'è nella sua ricerca. A cominciare da un'anarchica irrazionale (che pure sembra accreditarsi a prima vista), sino ad un'intesa metafisica (suggerita dalla folla d'immagini e di meccanismi oltre il dato reale, ma tutti riconducibili a quella poetica della teatralità e delle illusioni); per finire alla denuncia umana e artistica di Nicola Gambedotti. Piuttosto, quella che non lascia dubbi è la straordinaria rappresentazione di contenuti quanto mai improbabili. Nel senso che è il linguaggio, o meglio la tecnica di cui esso si avvale, a costituire la più sicura identità dell'artista. Da sempre acquafortista di particolare talento (il che significa maestro d'incisione), Gambedotti ha trasferito questa tecnica nella pittura, un'operazione a rischio, considerato che nel dipingere è il colore a costruire l'immagine, mentre l'incisione muove da un impianto disegnativo rigoroso, calligrafico, direi lenticolare. Ebbene Gambedotti fa pittura facendo ricorso a questa tecnica: vale a dire prima la grafica e poi la colorazione, sulla quale stende un velo di vernice per poi rimuoverla e raschiare con varia intensità il colore che intanto, proprio perché protetto, non ha subito alcuna ossidazione. Un processo lungo, per molti aspetti esasperante, che viene portato avanti proprio utilizzando gli strumenti più tipici dell'acquaforte, della punta secca al raschietto. Gli esiti, di inconfondibile fisionomia, sono tra i più intriganti e suggestivi delle ultime stagioni, e certamente costituiscono una felice invenzione di Nicola Gambedotti. Il quale, anche in quanto a contenuti, ha popolato le sue opere di eroi, miti e leggende variamente ispirate alla storia di ogni tempo e di ogni luogo: dall'armata Brancaleone al mondo classico, dall'età dei cavalieri e dei castelli alle corti rinascimentali. E poi l'inferno di Dante, interpretato in venti stupefacenti tavole, e il mondo del circo e ancora quello di Don Chisciotte, sino ai più recenti cicli a mezza strada fra ludico e fiabesco: i mangioni, i proverbi, i frati le carte da gioco, il gatto con gli stivali, la principessa sul pisello. Un mondo di straordinaria immaginazione reso attraverso una folla di meccanismi e di personaggi, la cui matrice ha la freschezza delle fantasie infantili e l'ironia della maturità.
[Dai cataloghi Mostra Personale - Galleria Botero Arte Contemporanea Pescara, marzo 1997  e Mostra Personale "Passato, presente e futuro" Comune di Roccaraso, gennaio 1997 ]

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

Franco Pincelli (1997)

Direttore della Botero Arte di Pescara

Presentare Nicola Gambedotti al pubblico di casa nostra non significa ubbidire soltanto ad una ferrea legge di mercato che impone, oggi più che mai, operazioni d'immagine a vasto raggio.
Significa soprattutto chiedere alle grandi personalità dell'arte la loro visione del nostro tempo, le loro soluzioni alle problematiche dell'uomo. È un po' come rubare dal cuore e dalla mente di questi uomini percettivi e recettivi la loro visione del momento storico che viviamo.
Perciò mi piace continuare a proporre queste visioni ispirate agli amici della galleria, agli intellettuali, alla gente che ama l'arte non solo come dimensione estetica ma come espressione di vita vera, quella che tutti conosciamo, come bella, tragica, avventurosa, felice, dolorosa, vitale e mortale.
Di questo ci parlano i grandi e l'umanità ha sempre avuto bisogno della loro voce per guardarsi dentro.
Con Nicola Gambedotti abbiamo un 'ennesima chiave di lettura di questa realtà umana tanto antica e sempre tanto misteriosa.
[Dai cataloghi Mostra Personale - Galleria Botero Arte Contemporanea Pescara, marzo 1997  e Mostra Personale "Passato, presente e futuro" Comune di Roccaraso, gennaio 1997 ]

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

Franco Solmi (1983)

Nicola Gambedotti sarà anche un pittore «fantastico» o del fantastico: ma quale artista che voglia sottrarsi alla indifferente ripetitività dell'artigiano non lo è? Accettiamo dunque questa definizione, ma in termini generali, sì da toglierle ogni significato che vada oltre quello di una rivendicazione di libertà espressiva rispetto ai lacci e ai gorghi delle poetiche e delle tendenze in cui s'è storicamente irrigidita la nostra e l'altrui storia dell'arte, e che oggi han fortunatamente perso forza costrittiva per qualche merito dell'idea postmoderna. Voglio dire che il «fantastico» praticato da questo urbinate che sembra aver avuto a precettori i maestri di tarsia dello studiolo di Federico da Montefeltro e per congeneri i più irridenti diabolici di età fiamminga, ha ben poco a che fare con i codici di quella sorta di surrealismo chiromantico (da gatti neri) su cui si sono esercitati, e si vanno ancora esercitando, gli italici perlustratori di un profondo che non va al di là dell'allegorismo superficiale dei «Surfanta». Giustamente Michele Prisco ha aperto un saggio su Gambedotti parlando di «apparente ieraticità» dei suoi personaggi: io direi anche «apparente ieraticità» del suo linguaggio e delle soluzioni propriamente grafiche e pittoriche nelle quali la misura intellettuale è tanto tesa da escludere, almeno quanto la si può escludere in opera d'arte, la vertigine dell'irrazionale gratuito, riportandosi all'equilibrio tutto moderno della contraddizione quella che io definirei l'ineluttabile fantasticheria della realtà, piuttosto che realismo del fantastico.

Il circo a Napoli

Acquaforte

Il circo a Bologna


Per uscir d'esoterismo, occorrerà tenersi fermi alla logica dell'immagine di Nicola Gambedotti, che mi sembra essere soprattutto una logica della illusione e della teatralità. L'arte è sempre illusoria ma, come dice Gombrich, noi amiamo essere ingannati fino a quando siamo consapevoli dell'inganno. L'immagine grottesca, temporalmente e spazialmente sfalsata, astorica, di Gambedotti garantisce, proprio con la sua stranita presenza, che l'inganno non viene consumato e solo l'illusione, la magia senza potere dell'arte, resta. La sua verità è proprio nella sua finzione consapevole che ci fa consapevoli. Accade qui esattamente come a teatro - che altro, se non «teatro» sono le scene e i personaggi di cui Gambedotti popola le sue città, i suoi ambienti, i suoi circhi? - dove la finzione presenta se stessa appunto come finzione allusiva e illusiva rispetto alla realtà. È quindi una coscienza del tutto moderna quella che muove il «medievalista» Gambedotti. I suoi personaggi si scoprono naturalmente come personaggi d'una mise en scène retta dall'artifizio, fatta appunto «ad arte».
Per rendere più chiaro quanto vado scrivendo potrei richiamarmi alle ricerche di psicologia della forma che portarono Escher ai suoi studi sulla prospettiva reversibile, il che voleva dire che anche in pittura i volumi giocano in termini di ambiguità sulla superficie piana, cosa che già nelle stampe del Piranesi poteva essere rilevata. A questi due maestri io ricondurrei le scelte formali, che sono ovviamente anche di contenuto, che portano Gambedotti all'esito razionalmente immaginario di tante sue opere ove non v'è dominio del protagonista ma della scena, come avviene nelle straordinarie soluzioni adottate per la impeccabile serie dei Circhi tutti retti sul principio delle architetture impossibili, che è lecito disegnare ma che sarebbe vano tentare di costruire realmente. A questo punto mi pare ovvio l'invito da farsi allo spettatore, chiamato ad esaminare queste complesse architetture d'immagine, a considerare quanto di concettuale vi sia in esse. Ci si accorgerà facilmente che ve n'è in misura almeno pari a quella del fantastico, anzi che ciò che vi è qui di fantasia si esprime in forma concettualmente percepibile e viceversa. Al punto che sarebbe oziosa e vana esercitazione tentare decodificazioni che finirebbero per far perdere proprio ciò che di specifico vi è nell'opera di Gambedotti, quella struttura unitaria e ambigua dell'immagine che sola può consentire che il segreto dell'arte non venga penetrato e che l'opera resti protetta e avvolta in quel mistero per cui l'ammiriamo e la diciamo «inesprimibile» e intraducibile.
Non vorrei però limitare a questa dimensione dell'ambiguo-reale la lettura dell'opera di Gambedotti, ignorando il carico di simboli e di metafore che vi si raccoglie e che si esprime nella vasta congerie di iconografie traviate: guerrieri e uccelli, corazze e graticole, scettri e stendardi, aquiloni e carri sfasciati, falci e carrucole, insomma tutto l'armamentario del grottesco universale portato a far scena in una dimensione che se non fosse, come dicevo, teatrale sarebbe metafisica. Ma metafisico Gambedotti non lo è mai, o quasi mai, se si considera, ma staccata dal generale contesto, un'opera come la Natura morta con frutta del 1980 in cui appaiono le stimmate del Novecentismo italiano più innamorato di Cézanne. Esatto forse sarebbe un riferimento alle prove dell'arte dei «canti acuti» che trionfò con la tarsia in forme talmente alternative alla pittura da renderla illeggibile per chi aveva la pretesa, come il Vasari e tutta la critica almeno fino a Roberto Longhi, di ricondurre questa disciplina ai canoni che della pittura son propri. La mia non è solo una divagazione se è vero, come credo, che Gambedotti non sia stato insensibile agli alti esempi urbinati a cui ho accennato all'inizio. Ecco allora un'altra fonte per le gotiche geometrie di cui liberamente s'avvale l'artista per costruire scenografie immaginate, e quindi ovviamente immaginane.

La maschera  (personaggio)


V'è un ultimo punto che non vorrei trascurare, anche perché intorno ad esso s'è prevalentemente esercitata l'analisi degli studiosi che si sono occupati fino ad ora di Gambedotti, ed è la questione del messaggio umano che si esprime attraverso i modi di un racconto ambiguo e caotico fin che si vuole ma certamente teso all'essenziale, lo credo che vada sottolineata più che la componente ideologica quella ironica, intendendo con questo termine comprendere il senso, a volta rabbioso, a volte dolente, del «distacco» che l'artista opera nei confronti della propria immagine che ormai vive come cosa «altra» e in un altrove. L'ironia presuppone interesse, forse amore, ma certamente esclude il grido e il sarcasmo. Ecco perché le grandi scene immaginate da Gambedotti vivono in una sorta di stupore e di silenzio. Ecco perché in esse v'è assai più di dolore che di condanna e di denuncia.
Non spetta all'artista ergersi ad arbitro di un giudizio universale che può invece mettere in scena, dipingere come un momento del grande teatro dell'umano (che comprende il subumano e il sovrumano) perché altri giudichi, mi sembra tanto consapevole Gambedotti della sua scelta di teatralità che io proporrei di scegliere come emblematica di tanto suo lavoro, e come più convincente approdo di una ricerca ormai non breve, proprio la serie dei Circhi posti sullo sfondo di città che hanno esse stesse per sfondo il circo, in una compenetrazione di piani prospettici e di elementi scenici talmente rigorosa da imporre, come segno del gioco dell'ambiguità dichiarata, il motivo centrale e ripetuto della quinta da palcoscenico: che qui indica la dannazione dell'artista all'inganno consapevole e la sua ineliminabile inquietudine di veggente al di là della scena che egli stesso descrive.

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

Michele Prisco (1985)

 

Che cosa si nasconde dietro l'apparente ieraticità di questi personaggi di Nicola Gambedotti ? E, innanzi tutto, chi sono questi personaggi di Nicola Gambedotti?  Sembrerebbero, a pri­ma vista, degli armigeri, chiusi, come sono, e quasi murati, in una serie di solide e geometriche bardature che hanno la so­lenne pesantezza delle gualdrappe, i volti quasi trapezoidali che appena emergono dal sottogola di strani copricapi, le ma­ni dalle nocche fortemente sbalzate, grandi, dure, nodose e squadrate fatte — si direbbe — per impugnare più volentieri un'ascia che un fiore: ma poi a osservarli meglio ci si accor­ge che le loro espressioni sono attonite, o spiritate, o addirit­tura sgomente, e spesso rassegnate, e insomma non ci vuol molto a capire che non hanno nulla della marzialità dei guer­rieri, e semmai appartengono a un'atemporale (nonostante quel clima medioevaleggiante che li circonda) « armata Brancaleone » patetica e inoffensiva.

E allora diciamo che sono solo, più semplicemente, delle creature umane, e che probabilmente la singolarità dei loro cimieri (se si tratta di cimieri) così come l'illusoria imponen­za delle loro armature (se si tratta di armature) che li asso­miglia a una specie di preistorici o storici marziani catapul­tati dalla fantasia dell'artista nel nostro mondo, serve unica­mente da protezione: a nasconderli, o ripararli, dalle insidie esterne, a porre un argine — non si sa quanto efficace — alla eventualità di un'offesa o d'una provocazione o d'un raf­fronto che possa venire proprio dal mondo esterno a colpirli.  Sono, in altre parole, dei poveracci, diciamo pure dei disere­dati, che, senza spocchia, accettano quasi di buon grado la stessa connotazione grottesca con cui l'autore ha voluto affet­tuosamente coglierli e fermarli sulla tela, riuscendo anzi a ca­povolgere i canoni del « genere » in una dimensione e misura di più dolorosa e scoperta umanità.

Ci sembra questa la chiave di lettura dell'universo fanta­stico in cui si muove Nicola Gambedotti. Marchigiano, di Urbino, al cui celebre Istituto d'Arte ha studiato e s'è formato inizialmente come incisore (e ne porta tuttora, quasi vistosa­mente, le stimmate), Gambedotti è vissuto alcuni anni in Sar­degna prima di trasferirsi a Napoli dove attualmente vive. E si direbbe che questi tre paesaggi — non soltanto geografici, soprattutto interiori — attraverso i quali è passato, abbiano non appena influito sulla sua poetica d'artista ma lasciato il segno persino sui moduli espressivi con cui quella poetica è affrontata e svolta.

Di Urbino, e delle Marche in genere, è la dolcezza archi­tettonica di certi fondali: la sognante e sinuosa curvatura del crinale dei colli che sfumano verso l'orizzonte come la seve­ra e un po' teatrale compattezza dei cortili e delle piazzette rappresentanti come una sorta d'ideale scenografia da com­media dell'arte; e della Sardegna è quel senso arcaico e mi­tico a un tempo di un mondo chiuso sin nell'impenetrabilità dei suoi costumi e che risponde con il silenzio e la fierezza ai colpi della cattiva sorte e con l'isolamento alla prevaricazione della curiosità altrui; e di Napoli, infine, il gusto del-l'assemblage, una più colorita e, se si vuole, espansiva com­piacenza alla rappresentazione di un'allegria che, al contra­rio, maschera o in ogni caso cerca di vanificare le ingiurie della miseria e si atteggia spesso nei toni e nelle movenze della ballata popolare quando non in quelli di una più agra e movimentata « opera dei pupi ».

Di suo, Gambedotti vi ha aggiunto intanto, in una con la pazienza quasi artigianale e probabilmente caratteriale del suo far pittura ed essere uomo, quell'attitudine al tratto deforman­te che però, s'è accennato, non è mai dileggio quanto piutto­sto un sentimento di partecipazione umana spinta ai limiti del­la connivenza; e poi il piacere sin provocatorio d'esibire se non il bagaglio della sua cultura almeno quello delle sue « af­finità elettive », da Piero della Francesca a Breguel il Vec­chio e finanche a Bosch: e una istintiva preferenza alla sim­bologia (la lumaca emblema d'un tempo che scorre ma non muta nulla; gli uccelli anticipo di più mostruosi e feroci vo­latili lanciati dall'uomo a solcare i cieli): e, soprattutto, quel modo ch'è solo suo e tutto suo di « incidere » il colore, di graf­fiarlo e scarnificarlo — si direbbe che usi il bulino più che il pennello —, conferendo così ai rapporti cromatici un con­trassegno che mescolandosi al rigore compositivo dei singoli quadri caratterizza la sua pittura con un'impronta tanto per­sonale e suggestiva.

... Chi dice che la fantasia non ha più diritto di cittadinanza nella società che viviamo? Gambedotti ce ne offre la più ru­tilante smentita. Di più: artista del suo e nostro tempo, della fantasia egli ha fatto non tanto o non soltanto la sua sigla ma la sua poetica, e ce la propone come una specie di estre­ma Thule o di ultima spiaggia, rifugio e insieme miraggio del­l'uomo d'oggi sempre più succube, in un mondo che non ha più sicurezze e certezze, dell'avanzata tecnologica e sempre più vittima dei fanatismi della violenza.

 

In occasione della personale a "La Scogliera"   Vico Equense Napoli,  20 - 30 agosto 1985

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

Friedhelm Röttger (1975)

 

Subito nella sua pittura si ha il senso dell'architettura del Rinascimento, si avverte l'atmosfera umana del Cinquecento, ma anche il demoniaco, fantastico mondo di Bosch e Brueghel.  E come in De Chirico, anche nei quadri di Gambedotti si nota un certo effetto attraverso il confronto dei contrasti e del contenuto delle forme

Per lui è la forma umana che, chiusa disgregata e quindi, con l'ausilio di pezzi da costruzione, ricostruita e perciò rimossa nel proprio movimento, prende coscienza di se stessa e della propria libertà, agendoin un proprio motivato scenario.

Strani utensili vi sono in essi contenuti, anche il paesaggio è manipolato a questa guisa, dove le masse si intersecano, i quadrati scavano

Astrusi corpi volanti occupano il cielo, l'epoca della tecnica viene qui portata fino all'assurdo.

In tutto questo si trova l'uomo. Ecce homo! Un uomo, oppure strade o vicoli. Il suo aspetto, in particolare nel viso, è duro senza individualita

I volti degli uomini di Gambedotti sono mascherati, sono il prodotto di una massa senza caratterzzazioni.  Solo i maschi si riconoscono, uomini maschi, con elmi, cinture, o ingioiellati con attrezzi da lavoro di ogni genere, o da soli o in gruppo, ognuno non ha niente a che fare con l'altro, appare comunque isolato.

Gambedotti dipinge minuziosamente, senza pasta e le diverse campiture vengono trattate alla maniera del graffito, realisticamente e minuziosamente riporta cosi la supercivilizzazione in una nuova barbaria.

L'orrendo, l'inumano non viene però fatto trapelare e si vede in dettagli terrificanti

Gambedotti ci dà la sua visione in modo chiuso compatto in enigmi che vogliono essere svelati, nell'estraneamento della cosa, in forme ripetute penetranti.

Cosi compaiono, quasi come motivo conduttore in ogni quadro, tubi in forma di uccelli volanti, strumenti, quali bastoni che possono essere mitragliatrici allo stesso tempo, ratti infine nelle zone inferiori dei quadri il curioso, lo strano, è sempre al centro di  questa  moderna  pittura.

L'idea diventa  quadro,  senza intenzioni letterarie.

L'espressione di Gambedotti e tutta da vedere.

 

 (Dalla presentazione  in catalogo in occasione della  mostra alla Kunstgaiene Esslingen, Stoccarda, 1975)

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

 Giovanni De Carlo (1974)

 

Chi vuoi capire le opere di Nicola Gambedotti non si illuda di poterlo fare con un  semplice, affrettato sguardo, né creda di coglierne l'essenza sottoponendole a un esame superficiale. Se, dunque, ne vuole intendere l'intimo significato sarà neces­sario che si soffermi dinnanzi a esse per qualche istan­te, che scruti fra le righe della rappresentazione, che identifichi i vari, spesso trop­po numerosi oggetti, riporta­ti sulla tela.

E' questo, senza dubbio, il segreto per entrare nel mondo fantastico, quasi surreale dell'artista, per raccogliere l'invito  alla   prosecuzione   di un   tema   che   lo  stesso   ha iniziato già nel momento del concepimento della sua ope­ra.  Si  tratta  di  una  caratte­ristica rara, o meglio, comu­ne  soltanto  agli  artisti  veri, degni   di   tale   nome   per   la concezione   tutta   particolare che hanno dell'arte vista co­me unico, valido stimolo per aprire  un  discorso  sia  pure contraddittorio con l'osserva­tore. Un dialogo ad ogni mo­do  che  lasci  alla  cultura  e alla   sensibilità   di   ciascuno il compito di trarne le debite conclusioni.

Nato a Urbino quarantatrè anni or sono, ha iniziato la sua attività nel campo della xilografia continuando lo svi­luppo dei suoi temi preferi­ti con la pittura. Un passag­gio avvenuto senza forzatu­re perché spontanea conse­guenza di una esigenza sca­turita dal desiderio di conferire alle figure un cromati­smo e una vita che la sem­plice impressione di uno stampo, anche se sapiente­mente inciso, non era in gra­do di conferire. Figure di cavalieri che richiamano al­la mente, nel medesimo istante, la serena compostez­za contenuta nelle opere di molti quattrocentisti e la sug­gestiva, quasi istrionesca, at­mosfera di un'epoca recente o, addirittura, appartenere a un futuro ancora lontanissi-mo, nobili signori dal tratto austero, dagli abiti di foggia antica, con strani copricapo che nulla hanno di umano, ma che proprio per questo ben sintetizzano il dramma della esistenzialità dell'es­sere.

Passato e futuro, dunque, si fondono nella ispirazione del Gambedotti con un pro­cedimento suggestivo non certo privo di tormento co­me tormentata è la vita del­l'uomo. Una creatura vittima dei suoi eterni difetti, dei suoi insanabili (almeno ap­parentemente) mali, delle sue passioni divoratrici.

Una commedia nella quale i due maggiori protagonisti sono l'essere e il tempo in un alternarsi di sensazioni, dove l'ultimo atto si riallac­cia al prologo con un pro­cedimento conseguenziale, monotono, capace pure di mettere in luce la profonda amarezza provata dall'artista nel rappresentare una realtà in continua, ma soltanto illusoria, evoluzione.

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

 Sergio Paglieri (1971) ?

 

All'«Arte Club» (vico Loggia Spinola 8 r.) Nicola Gambedotti di Urbino presenta opere figurative che oltre il descrivere singolari per­sonaggi da «armata Branca­leone» sono tutto un «ricamo» di graffiti, di movimenti di materia, di riflessi modernissimi.

 

 

 

N(?). Alicorno (1971)

 

Nicola Gambedotti è, più che  pittore,  incisore: nato a Urbino quarant'anni fa, insegna presso l'Istituto d'Arte di Napoli. Ha partecipato a numerosissime mostre  e vinto  molti premi. La sua matrice di incisore si vede anche nei suoi oli: descrive figure con una straordinaria cura di particolari (nei quadri piccoli: nei grandi, si perde), e dà un po' l'idea di seguire l'insegnamento del Duerer.  Le sue scene sono sempre di personaggi strani, come di   crociati   buffi   e   tragici,    soprattutto tragici. C'è  una  desolata  tristezza, nei volti che Gambedotti dipinge,   uno  stupore  disarmante,  sotto cappelli non credibili, o elmi, o chissà che cosa. E le mani reggono un arma, che non vuol più sparare. Il colore è meditatissimo,   il disegno eccellente. I prezzi per i quadri di maggiori proporzioni non superano le trecentocinquantamila lire.

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

A. M. Secondino (1971) ?

 

Nicola Gambedotti ha in corso all' «Arte Club » — vico della Loggia Spinola 8 r. Napoli — una « personale » con opere attuali ed altre appartenenti agli anni precedenti, attestando, nell'iter evolutivo della visione, una indiscutibile maturazione tecnica.

In effetti, i dipinti di epoca anteriore appaiono ancora legati ad un rigido figurativismo, dal quale l'artista si è completamente svincolato, approfondendo esaurientemente le doti di mestiere, con particolare studio dell'elemento cromatico che acquisisce ora suggestivi effetti di patina antica per una raffinata elaborazione con preziosità di sovrapposizioni.

Dal  valido ordito coloristico prendono vita le immagini che rappresentano momenti di particolare intuizione dell'artista, volto ad affermare una verità universale accentrata sull'animo umano, sulla psicologia dell'individuo e sulle vicende esistenziali.

Sono figure che, pur nell'apparente distacco, hanno una carica emotiva straordinaria.

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

Giovanni B. Frangini (????)

 

Nicola Gambedotti: alla ricerca di una mitologia umana

 

Un mondo, quello di Nicola Gambedotti, nel quale i riferimenti con situazioni strettamente legate al nostro tempo, come si rileva in opere quali «Giovane guerrigliero» o «Settembre nero», chiaramente riferibili al momento attuale; è invero un mondo atemporale, teso a realizzare una nuova mitologia con la quale stabilire una nuova condizione di vita.

I suoi quadri diventano racconti dove l'esistenza umana è soggetta ad elementi particolari (come la chitarra nel «giovane guerrigliero») che richiamano alla memoria cose come antiche armature, acconciature o illusioni di gusto rinascimentale, per dimostrare che l'uomo di ieri, è uguale a quello di oggi e che probabilmente lo sarà domani. La narrazione dell'esistenza ove paura e incertezza, instabilità e miseria si contrappongono in evidente conflitto, inquadra l'uomo e ce lo presenta in continua attesa di un mondo migliore.

Nicola Gambedotti realizza queste sue composizioni con una tecnica raffinata, fatta di colore, di interventi con il bulino, oppure con patinature, dimostrando una seria competenza nella fase operativa veramente qualificante.

 Da tempo, forse da sempre, il marchigiano Nicola Gambedotti ha trovato il ritmo giusto o, meglio, la disjanza giusta per contemplare e condensare, tra allusione e ironia, le più disparate e suggestive "citazioni" socio-culturali che sottendono, col benestare della poesia (epigramma o lauda, indifferentemente), la sua emblematica e fascinosa mitologia figurale: di qui l'indubbia abilità di Gambedotti nel far coincidere puntualmente, all'interno del suo meccanismo linguistico di alta precisione, la spietata e "candida" lucidità della definizione pittorica con l'ambigua (volutamente e felicemente ambigua) e raffinata ricorrenza delle identità e delle alternative del gran teatro delle memorie, dei pudori, delle nostalgie, delle cadute e delle resurrezioni.

 

La Vela viale Storchi 28 tel. 218279 Modena

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

 Corrado Marsan  (????)

 

L'espressività e l'attendibilità di queste pagine di Gambedotti si manifestano, dunque, all'insegna di  un ansioso e insolito " itinerario di passione "  un  itinerario — certi segni e certe unghiate di colore, ad esempio, che d'un tratto si irritano o si adagiano come per riesumare e riabilitare, ad uso e consumo della nostra presunta disponibilità al dialogo e al dibattito, un'ennesima  versione dei "canti dell'innocenza" o le stupefacenti calcomanie di  un  raffinatasimo "anonimo del Quattrocento" - caratterizzato,  di  arabesco in arabesco, da un ineffabile grado di solennità, di magia e di crudeltà (una crudeltà che non  ha  niente a che vedere, è sottinteso,  con quella professata dal civilissimo Artaud), una solennità, ancora, spesso minacciata o deliberatamente aggredita (Gambedotti dimostra di possedere, in simili frangenti,  una  non comune dose di autocritica) e tuttavia resistente, come  tenuta  coi denti  o, più delicatamente, con la forza dell'intelligenza.

E Gambedotti continua, tra cronaca nera e cronaca gialla, a predicare l'amore per gli oggetti, per gli arredi e per certi "personaggi" reperibili, forse, nei capoversi meno conosciuti della "chanson de geste" o delle "leggende del Graal" sì che nell'intimità del suo occhio critico si distinguono, chiaramente, le due anime e le due voci dell'artista. C'è il Gambedotti sacerdotale che proclama i suoi dogmi, che tiene un tono magniloquente e che incastona, su tavole e tavolette, i suoi inni di battaglia e le sue invettive lapidarie: il Gambedotti "racinien". E c'è, accoppiato, il Gambedotti trovatore che si diverte a glossare e che, di tarsia in tarsia, cancella o stravolge dediche rientrate e fa il risvolto farsesco al sublime. Un discorso tutto sommato, in partita doppia, contrappuntato a umori alterni e conseguenziali un canzoniere, in forma di rebus o di "puzzle", che il pittore viene componendo col fermo proposito di riscrivere o di ritessere un nuovo elogio del "fantastico" e del satirico ' (e, sotto sotto, del "metafisico" e del "surreale"). Ma anche un giornale di bordo stilato col preciso intento di arrivare, al di la dei "d'apres" e delle schermaglie culturali, al recupero di un mondo profano, più vicino - nelle sue miserie e nelle sue grandezze, nei suoi paradossi e nelle sue similitudini - all'uomo dei nostri giorni e alla sua storia quotidiana. E queste violentemente plastiche e contrastate, sono le immagmi di una "realtà" che Nicola Gambedotti inquadra e ci consegna, tra progetto e destino, nell'istante del trapasso dal futuro al passato, dall'ideologia alla cronaca o, concludendo, nell'istante in cui l'impeto della violenza si fonde, come per incanto, con la contemplazione della pietà.

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

 Corrado Marsan (????)

 

Nel segno del fantastico e del satirico, del sacro e del profano, dell'identità e dell'utopia. Dies irae. Labirinti, catacombe, ghetti, tribunali dell'inquisizione, giardini dei supplizi, teatrini della crudeltà, ballate in onore del Gran Macabro di ghelderoniana memoria e sogni premonitori popolati di finti giullari, di consiglieri fraudolenti, di apprendisti stregoni e di ineffabili Cavalieri dell'Apocalisse: per chi suona (o risuona la campana ?  Per un superstite profeta dell'Età dell'Oro alle prese con l'emblematico e grottesco Guerriero Tecnologico, per il Vecchio Marinaio alla ricerca di un leggendario cimitero subacqueo, per l'Ultimo dei Moicani, per il Principe dell'epopea rinascimentale o per il Narciso che ci portiamo dietro, da sempre, come fosse un amuleto da esibire in situazioni di emergenza ?  Tra annosi dilemmi, editti rientrati e strani interludi — direbbe l'Anonimo Urbinate — ecco che affiorano e si rivelano, lungo un ansioso e civilissimo itinerario di passione, le nuove carte segrete e i nuovi trofei del fascinoso canzoniere dei paradossi e delle similitudini di Nicola Gambedotti; quattro pagine — intitolate, non a caso, « le stagioni » — che concorrono a denunciare, aldilà dei consueti «d'après» e delle schermaglie culturali più o meno ammaestrate, il declino doloroso delle Barriere dell'Innocenza e dei residui Paesi delle Meraviglie e, di contro, l'avvento di fittizie e retoriche luminarie celebrative e di allucinanti e assurde parate goliardico-clericali. Fortunatamente, però, il silenzio eloquente del mare ci ricorda che è necessario e doveroso imparare a scrutare e a leggere ben oltre le mura merlate dei castelli e dei palazzi ducali; proprio come scrutavano e leggevano il ciclo gli astronomi distesi, per ore e ore, sui terrazzi notturni di Babilonia. Qui, comunque, il gioco delle parti e degli enigmi continua, tra dediche ed epitaffi, senza incertezze di sorta; dagli scacchi ai tarocchi e viceversa, mentre un redivivo e paziente folletto bruegeliano ci invita, con gesti inequivocabili, a ripercorrere insieme il chapliniano cammino della speranza. È la legge, inalterabile, della reversibilità del reale; tanto del reale nel suo specifico quanto dell'allusivo e illusivo «reale immaginario». Va da sé. infatti, che queste non sono altro che struggenti decalcomanie e scorci simbolici di una realtà contestata che Gambedotti inquadra e ci consegna, col beneplacito dell'Oracolo, nell'istante del trapasso dal presente al futuro, dall'eros all'horror vacui, dalla cronaca all'ideologia; o, concludendo, nell'istante in cui l'impeto della violenza si fonde, come per incanto, con la contemplazione della pietà. E, ad ogni cambio di stagione si ripete, puntualmente, l'antico prodigio del «recitar cantando».

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

P.A.  (????)

 

Nicola Gambedotti e i suoi gnomi olandesi

Considerato uno dei massimi esponenti dell'arte incisoria

 

 Nicola Gambedotti contrariamente a quanto si possa pensare non si è diplomato a Napoh ma nel paese di Raffaello precisamente nella colta Urbino; una cittadina che sforna spesso e volentieri future personalità di spicco nella cultura mondiale.  Ma Gambedotti è nato a Roma quasi per caso dice lui perchè a Roma non ci sono vissuto per niente.  La mia patria è Napoli e qui ho insegnato per ben quarant'anni nell Istituto d'arte a ridosso di Piazza Plebiscito.  Una vita trascorsa con i grandi maestri del primo Novecento Da Chiancone a Striccoli da Verdecchia a Casciaro e tanti altri.  Io ero il più piccolo d'età, racconta Gambedotti, e venivo fresco di diploma da Urbino e trovarmi in un ambiente nuovo a fianco di firme già collaudate nell ambiente artistico era per me un onore un poco imbarazzante.  A mano a mano però presi confidenza e la mia esuberanza giovanile contagiò gli altri colleghi e divenimmo amici.  Non posso dimenticare le scorribande di sera nelle pizzerie o nella scelta di posti dove di domenica si poteva andar a dipingere.  Lunghi itinerari viaggiando a bordo di una vacillante Seicento.  E cosi non mancavano le estemporanee di pittura.  Allora di posti meravigliosi dove poter dipingere ce ne erano tanti intorno alla città e, tra questi lavori all'aria aperta ed occasionalmente altri divertimenti che non sto a dire, la vita trascorreva felice.  Tanto che amo Napoli nonostante il cemento l'abbia quasi soffocata.  Nicola Gambedotti è un uomo dall'aria mite, dalla giovialità contaminante, corpo esile e barba incolta.  Occhi vivi e penetranti nonostante l'aria di un ragazzo vivace e simpatico.  Pronto alla battuta quanto schivo nel farsi avanti la modestia dei grandi artisti prevale sul considerevole talento quasi vergognoso di farsi avanti e dire "Io sono" non lo dice e credo non lo dirà mai.  La modestia è il suo essere artista.  Una qualità dell'uomo che fa ancora più grande la sua arte. II genio è cosi, non chiede confronti, non lotta per mete, non fa a gomitate per raggiungere ipotetici traguardi.  E visto che il nostro Gambedotti ci ha spinti a respirare l'aria pura dell'Olanda del XII secolo diciamola tutta: i suoi personaggi andrebbero ben collocati in un paesaggio di Vermeer, a parte forse di spegnere un pò i colori, come la "stradina" o la veduta di Delfi la città che diede i natali a Vermeer.  Forse il nostro Gambedotti ha sbagliato secolo per nascere, fortunati noi che invece possiamo strigergli anche la mano !  La tecnica acrilica, l'incisione bulinata, i colori vivaci su gnomi rappresentativi di un mondo fiabesco, di un mondo di sogno in netto contrasto con quello attuale dove è tutto mercificato.  Gnomi olandesi quale libera mterpretazione del pensiero.  Uomini che non vogliono crescere ma rimanere nel loro mondo piccolo e amichevole, sereno e lucente con i suoi colori sgargianti dal cromatismo staccato e netto nella sua funzione decorativa.

Lo sguardo attonito sotto la pioggia come un avvenimento traumatico per chi è abituato a vedere sempre il sole. Il buon Seminatore, il contadino che semina, un lavoro di routine che non gli da un espressione particolare, un cielo azzurro che fa sfondo appena picchiettato di nubi bianche pronte ad essere portate via dal vento e dissolte nel nulla.  Tuttavia l'elemento che predomina è lo gnomo che in posizione eretta accetta di essere il protagonista del futuro evento della raccolta.

Alberi coi rami stroncati dal vento nella "Nevicata" dove gli gnomi si confondono coi bambini che profittano della neve per giocare.  Ma attenzione c'è uno steccato quale simbolismo di una eterna divisione tra gioco e realtà.  Non è un caso che la mano del maestro ha voluto separare i due mondi l'uno fatto di spensierata allegria e ingenuità e l'altro che rappresenta la casa e le responsabilità oggettive.

Ciò che più colpisce nei giocatori di carte è lo sguardo interrogativo degli stessi giocatori che si scrutano a vicenda quasi a voler leggere l'un nell'altro le carte che possiede a differenza delle due figure in piedi che estatiche aspettano la fine della partita per servire da bere.  Tutti sono vestiti con abiti che sembrano armature medievali.  Forse siamo nelle campagne ai tempi dell'Orlando Furioso ma non c'è nulla che possa far presagire un invasione una guerra o altra calamità.  Siamo sempre nel mondo fiabesco di Gambedotti.  Un mondo dove i giocaton di bocce pare stiano affrontando una partita decisiva del loro avvenire.  Un insieme di persone che circondano la minuscola pista, attendono l'esito pronte ad applaudire i vincitori.  Gazze ladre o merli che volteggiano e portano messaggi di pace.  Un insieme di gradevoli sensazioni che l'arte di Gambedotti ha reso sublimi.  Ma un autentica meraviglia l'abbiamo con "La Giara".  Un acrilico bulinato su tavola della misura di 44x34.  Un autentico capolavoro.  I personaggi sono tanti che circondano una giara come fosse caduta dal cielo.  Non mancano gli uccelli postini di buon nuove.  Siamo sempre in campagna ma questa volta c'è anche uno scorcio di mare.

Tutto sembra fermo in attesa di un evento straordinario o la meraviglia è rappresentata solo dalla giara che troneggia nel bel mezzo degli gnomi.  Non ci è dato sapere ma ciò è chiaramente irrilevante a fini di una valutazione dell'opera.  La donnina in primo piano ha sottobraccio un giornale, un fascicolo, comunque delle carte che pare custodiscano il segreto di una giara tanto grande per le loro dimension fisiche.  Ecco lo sguardo di attesa degli altri che vorrebbero sapere qual'è l'origine della giara.  Una delle sette meraviglie del mondo ?  O un dono mandato dal cielo? Un divino regalo degli Dei.  Forse.  Come divina è l'opera composta e gli Dei, rappresentati dal Gambedotti con la sua produzione, fanno da cornice.

Marcel Proust con uno scritto tra l'altro disse di Joannes Vermeer: « Un piccolo lembo di muro gial lo ... di una bellezza che basta a se medesima ...  Un giudizio calzante anche per Gambedotti.

 

COLLOQUIO CON L'ARTISTA

Incontro il maestro pittore ed incisore Nicola Gambedotti nello studio di Napoli dell'Ingegnere Corduas.  Ha portato con sè alcune foto di sue opere che sono state riprodotte in questa pagina. Alcuni originali fanno bella mostra di sè appesi alle pareti di questa associazione.  Con fare sempre sorridente e cordiale mi guarda interrogativamente come se stesse per dire allora queste domande me le fa o no?

Non c'è fretta. Prima il caffè corto fumante quasi amaro ordinato al bar della galleria amabilmente offertoci dall'anfitrione Ing. Corduas. Finito di sorbire l'ottimo caffè, dove avevo aggiunto un altra zolletta di zucchero, inizio la conversazione con questa prima domanda.

Nella sua lunga camera d'artista, ha mai dipinto dal vero riproducendo fatti reali, cosi come si vedono, cioè un figurativo moderno, senza ricorrere ai sogni e alle fantasticherie ?

«Si senza dubbio. La mia pittura è iniziata proprio con il figurativo moderno sulla scia dei grandi maestri napoletani, cioè della scuola napoletana, perché loro come me provenivano da altre regioni italia­ne. Verdecchia, per esempio ,era abruzzese»

Crede negli autodidatti ?

«Nella stona dell'arte ce ne sono pochi, anche se egregi. La scuola ha sempre formato artisti di grande valore. Prima c'erano le famose botteghe d'arte dove il maestro insegnava a dipingere ma più che il colore insegnava la prospettiva. Oggi ci sono gli istituti d'arte, i licei, le accademie o anche scuole di pittura private ove i giovani o meno giovani vengono formati e forgiati al disegno ed alla prospettiva necessaria come base di una buona pittura.  Poi la fantasia dell'artista fa il resto.  Il colore, l'impasto del colore, le varie sfumature cromatiche non si insegnano, sono appannaggio della sensibilità dell'artista»

Lei mi parla di forme e di prospettiva, ma ci sono e ci sono stati grandi maestri dell'arte che un bel momento non hanno tenuto conto nè della figurazione nè della prospettiva, come spiega tutto ciò ?

«Si è tutto vero ciò che dice ma lei non tiene conto di un importante considerazione, quella cioè che questi grandi maestri se in talune opere non hanno rispettato volutamente le sembianze umane e la prospettiva ciò era dovuto al fatto che essi non ritenevano in quel contesto necessario ai fini dell'opera uno schematismo dottrinale.  Essi rompevano il passato esaltando invece l'insieme ed il colore.  Ciò non vuol dire che essi non cono­scessero la forma e la prospettiva.  Solo che volutamente non l'hanno usata.

Cambiamo argomento e passiamo al suo amore per Napoli.  Non prova comunque nostalgia per Urbino?

«Si sente nostalgia per qualcosa o per la terra natia quando lì si lasciano degli affetti amici persone care ambienti familiari dove si è vissuti e che ti lasciano ricordi struggenti.  A me dopo tanti anni mezzo secolo di vita passato a Napoli i ricordi si sono affievoliti ma non certo obliati. Quando mi prende il sentimento della noslalgia dico a mia moglie di preparare la valigia e si parte.  Ma gli affetti, le grandi amicizie, i familiari e quant'altro forma la vita interiore dell'uomo sono qui in questa terra stregata di Napoli dove ormai ho affondato le mie radici».

 

MOSTRE E QUOTAZIONI

Non possiamo ovviamente citare tutte le mostre d'arte del maestro Nicola Gambedotti per il solo fatto che è una vita che ha sempre dedicato all'arte e ci vorrebbe più di un giornale per elencarle tutte; ne citeremo solo alcune tra le più importanti e rappresentative della vita di questo grande artista contemporaneo.  Varie le tappe, vari i lusinghieri successi che hanno coronato la sua brillante carriera. Dall'annuario d'arte moderna "Artisti Contemporanei 2000 riproduciamo questi dati:

Pittore/Incisore: Figurativo di ricerca

Quotazioni: da un milione a cinque milioni di lire

Mostre: "Premio Marzocco" a Firenze

Gallena Forni ad Amsterdam

Kunstgallene Eslingen Museum of arte (Davtona)

Fond. Gulberkian di Lisbona 1999

Palazzo dei Congressi di Lugano

Le sue opere figurano in collezioni private e pubbliche presente nei più qualificati annuari e cataloghi d'arte.  In breve la sua arte è stata così descritta: "Scenari medievali di vaga ambientazione nordeuropea arricchiti di impercettibili elementi di contaminazione moderna costituiscono il mondo fantastico, satirico, del sacro e del profano, l'agognata violazione dei confini spazio-temporali. Nicola Gambedotti: Cavalieri dell'Apocalisse, Tribunali d'inquisizioni, Giardini dei supplizi e ancora Ghetti, Labirinti, Catacombe oltre il loro significato allegorico accrescono la dimensione narrativa di una pittura sulla quale la grande maestria nella tecnica dell'incisione propria dell'autore lascia una traccia inconfondibile caratterizzando il tratto e lo stile di un artista eccelso»

[Da un articolo su giornale ....]

 

VAI  INIZIO  PAGINA

 

ANNUARIO d'Arte Moderna  "Artisti Contemporanei 2000"

 

Gambedotti Nicola

Roma, 28 settembre 1931

 

Dati specificativi:    N  S  N  L  G

Referenze: Associazione Culturale Napoli Nostra

80100 Napoli - Via Serio, 4 - Tel. 081/400954.

Domicilio: 80131 Napoli - Via G. lannelli, 45/C

Tel.: 081/5794759.

Formazione artistica: Diplomato all'Istituto d'Arte di Urbino.

Pittore/Incisore: Figurativo di ricerca.

Tecniche: incisione.

Soggetti: paesaggi e figure.

Quotazione: L. 1.000.000 / 5.000.000.

Mostre e Rassegne d'Arte: "Premio Marzocco" (Firenze) - "Gal. Forni" (Amsterdam) - "Kunstgallerie" (Eslingen) - "Museum of Arts" (Davtona) - "Fond. Gulbenkian" (Lisbona) - 1999 "Palazzo dei Congressi" (Lugano).

Critica: citato dalla Stampa specializzata, testimonianze di: Corduas, Venturoli, Marsan, Prisco, Rottger, Ruyo, Amodio, Solmi, Veronesi, Tombari, Calabrese, Trotta, Pasquali, D'Antonio, Lubrano ed altri.

Le sue opere figurano in collezioni private e pubbliche.

Presente nei più qualificati annuari e cataloghi d'arte moderna.

  

"Scenari medievali di vaga ambientazione nord europea, arricchiti di impercettibili elementi di contaminazione moderna, costituiscono il mondo fantastico, satirico, del Sacro e del profano; l'agognata violazione dei confini spazio-temporali di Nicola Gambedotti. Cavalieri dell'Apocalisse, tribunali dell'inquisizione, giardini dei supplizi, e ancora ghetti, labirinti, catacombe, oltre il loro significato allegorico, accrescono la dimensione narrativa di una pittura sulla quale la grande maestria nella tecnica dell'incisione, propria dell'autore, lascia una traccia inconfondibile caratterizzando il tratto e lo stile un artista eccelso".  (Crocefissione, acrilico, 33x6).