LA SCUOLA DELLA MIA INFANZIA

 

Non mi pare il caso di tentare un'analisi sulla presa dell'ideologia fascista nella scuola, specie se si considera che quello della campagna era poco, più di un sentimento riflesso, l'accettazione delle direttive delle Case del Fascio di città, dove spesso rivestivano un ruolo di comando il padrone e il fattore, il direttore didattico, il dottore, il veterinario ed altri personaggi legati al mondo rurale. Così che, se a Urbania o altrove le scolaresche si limitavano a sfilare al canto di "Giovinezza" con sano orgoglio patriottico, ma disincantato distacco dalle scelte operate dai responsabili del regime, in città la gioventù studiosa già guardava più avanti sognando i fasti dell'impero.

Nelle osterie e nei dopolavoro, dove saliva alto il fumo dell'alcool e dove non poche erano le camicie nere e le "cimici" all'occhiello, il clima di sera si faceva ancora più acceso e le voci più arrabbiate. Più volte scendendo Valbona, sentivo riecheggiare dalla Taverna d'Pepin Monta Sù:

 

"Osteria dei tre moschetti

para ponzi, ponzi pan,

qui in Italia siamo stretti

para ponzi, ponzi pan;

e allunghiamo lo stivale

fino all'Africa Orientale,

Vieni a me biondina

vieni a me bionda ".

 

Volavano anche insulti; si arrivava al tafferuglio, alle manganellate e alla porta del carcere, ma restavano pur sempre focolai di una rivoluzione modesta che la gente delle campagne percepiva appena come cosa di altri luoghi e d'altra gente.

In verità il Fascismo temeva moltissimo la grande piaga dell'analfabetismo ed era deciso a combatterla. Anche Nerina, nel suo colloquio con gli allievi, fa riferimento ai premi di studio (essa stessa nel '36, quale figlia di mutilato di guerra, ne aveva avuto uno di 20 lire per aver completato il corso elementare), a quelli per le nascite, all'assistenza del Patronato scolastico creato per venire incontro alle famiglie più povere. In verità con risoluzioni di scarsa efficacia, valide se mai come testimonianza ideologica.

Ma Patronato o no, le vie della Provvidenza non finivano di stupire. Anna Montagna, ottant'anni, racconta ai bambini con eloquio spontaneo e colorito da inflessioni dialettali: "Durante la cattiva stagione non sempre ci si poteva andare (a scuola) perché non si avevano le scarpe adatte per affrontare il fango e la strada morta. Si partiva da casa che era ancora buio. Ci passavano tutto, quella volta: se, però, mancava un quaderno o una matita, ci si fermava nel Borgo da Carlotti, il marito dell'Evangelina; bastava qualche uovo in cambio di quello che serviva... Passa Carlotti, il marito dell'Evangelina! Gridavano i bambini quando lo vedevano tornare con la cavalla da Urbania con il sacco della posta per Licandro... Non mi dovete dire che sono il marito dell'Evangelina! Io sono Carlotti... Porett, si erano separati, era solo. Nella sua botteguccia si trovava un po' di tutto: sale, olio, zucchero, conserva, pasta... La pasta la si comprava raramente: non c'erano i soldi. Qualche volta si andava da Carlotti con un pugno di grano e si riportava un po' di pasta...

Quando si arrivava a scuola, la stufa a legna scoppiettava un po'. El por Contin era passato a riempire i calamai, ad appiccare il fuoco, a dare una rassettatina...

Quando so' mort  i', voialtre git pegg d'ogg, borbottava (quando sarò morto io, voi andrete peggio di oggi).

Sempre Nerina Lisotti e Lino Ferri, con eguale spontaneità, rammentano: "Il 24 maggio ci portavano con un camion a Urbania... Il camion aveva le ruote di trasmissione a catena, non a cardano come adesso. Se se schiantava la catena morivamo tutti... Alla mattina c'era la Messa, poi si marciava tutt'attorno per Urbania. C'erano le autorità del Fascio: i segretari politici, la direttrice, il direttore delle scuole. Noi maschi avevamo la camicia nera con il fazzoletto azzurro. A mezzogiorno c'era da mangiare all'Asilo: pastasciutta a volontà, un pezzo di pane con la mortadella o il formaggio...".

Sorprendente la loro capacità a cogliere stati d'animo e usanze di vita che vedevano ancora i poveri bambini di campagna in soggezione, non soltanto rispetto ai coetanei di città ma anche a quelli di paese.

"Quelli di campagna — continua Nerina — poveracci, tla bisaccia 'sa porteven? Porteven el pen. Do' el meteven? Malé ! Se riempiva de mulicch; s'imbrocoleva la penna... (quelli di campagna, poveracci, nella bisaccia cosa portavano? Portavano il pane. Dove lo mettevano? Lì in mezzo, si riempiva di molliche, si intasava la penna). Erano timorosi. Prima della scuola noi del paese eravamo quasi tutti fuori... I bambini della campagna invece si affacciavano allo spigolo della casa di Battazzi, davanti al bar, solo con le teste, per vedere se c'era nessuno. Se li guardavi, non è che non venivano oltre; venivano oltre, ma erano timorosi. Si guardavano addosso perché erano tutti infangati da capo a fondo. D'estate quando era marzo, ma anche prima, venivano su scalzi. Con la malta così, il sinalone tirato su, i squissi fino la cima della testa... C'era anche da dire che, essendo sempre coi piedi scalzi, il piede si sformava; se meteven le scarpe... i' se scurticheva, poracci...". Uno stato di soggezione che anche Giovanni confessa nei suoi ricordi di scuola: "... quando sono venuto per la prima volta a Peglio (1917) sembrava quasi di vergognarmi in mezzo agli altri bambini... Per andare non c'era mica la strada; era tutto fango. Si arrivava alla fonte che serviva tutto il paese: lì c'era un praticello. Prima si dava una bella botta con bastoncini, poi una bella strisciata di qua e di là, si cercava di pulire le scarpe quanto meglio possibile... Si entrava a scuola alle nove, nove e mezzo e si stava fino a mezzogiorno. Non c'era la ricreazione. Quando si usciva, una fetta di pane e... via!".

Proprio ieri ho finito di leggere, anzi di rileggere, il gustosissimo libro di Gian Franco Venè "Mille lire al mese", tutto incentrato sulla vita quotidiana della famiglia nell'Italia fascista. Un'indagine seria, costruita frugando nei carteggi e nei cassetti e solleticando la memoria della gente di tutti i ceti e livelli.

Non è per farmene vanto e ancor meno per togliere qualcosa ad un testo prezioso e di buon livello letterario, ma debbo pur rilevare che tantissime delle cose che l'autore ci offre per sentito dire, io le ho vissute di persona.

Specie quelle legate alla scuola, alla vita rurale e al precario rapporto città-campagna.

Ma è poi vero - si chiede il Venè - che la differenza di formazione mentale tra gli scolari di città e quelli delle borgate e delle campagne fosse così grande da far pensare a mondi addirittura contrapposti? Le testimonianze orali dicono di sì, ma si smarriscono nel generico: i cittadini, per i paesani, erano più belli ma pallidi, ben pettinati ma impacciati, avevano paura delle oche e dei maiali.

Primo grande pregiudizio di cui fare giustizia, almeno nella realtà marchigiana, è che fosse il padrone a decidere, a dispetto della legge scritta, se consentire o meno ai figli dei propri mezzadri di sottrarsi al lavoro per frequentare la scuola. Che nell'economia di tantissime famiglie carenti di braccia e da sempre alle prese con terreni "scomodi" e improduttivi, l'apporto del bambino fosse utile per tantissime imcombenze domestiche, è un dato storico. Ma, al di là di casi di ingerenze dispotiche che non toccano la norma, la scelta della scuola era rimessa alla famiglia, condizionata se mai da altre difficoltà, prime delle quali la distanza dalla sede e le possibilità di accesso.

Molto resta da dire invece sulla fumosità e sulle contraddizioni in cui la scuola era costretta a muoversi.

Si doveva costruire, tutti assieme, un modello di vita rurale ricco di virtù e di operosità, ma si esaltava nel contempo il fascino di Roma, faro di civiltà: "Tu non vedrai / nessuna cosa al mondo / maggior di Roma". Con il risultato, poi, che a nessun contadino toccherà la fortuna di vederla una sola volta nella vita. Si dovevano far conoscere al bambino le opere grandi e nuove del regime: dagli aerei, ai treni, alle strade, alle navi, ma nessun supporto veniva loro in aiuto al di fuori della fantasia. L'aereo o il treno erano per tutti noi una favola, tanto che l'idea del volo o della velocità, come dice il Venè, si materializzava in un allineamento di seggiole in cucina dentro le quali ci rannicchiavamo graduando, a seconda delle difficoltà del percorso, il rumore della bocca. Si esaltavano le grandi catene montuose poste dall'Onnipotente a difesa dei sacri confini della patria e i lunghi fiumi immersi nel verde delle valli; li trovavamo perfino riprodotti in fotografia nelle pagine del vecchio "sussidiario". Ma, come intuire la loro funzione e l'ampiezza degli scenari se i nostri occhi non avevano mai valicato i trecento metri di altezza del Monte del Roscio, né le strettoie del corso dell'Apsa ?

Mio padre — che di sicuro in cuor suo aveva già deciso di avviarmi agli studi - faceva di tutto per assecondare l'opera della brava maestra Maria. Per nove lire mi aveva comprato "II ballila Vittorio" e "II libro degli eroi". Testi che orgogliosamente portavo a scuola ogni giorno e che leggevo e rileggevo, ben lungi dall'immaginare il giudizio impietoso che i posteri avrebbero riservato all'intera serie voluta dal Ministero della cultura popolare. Più che il limite letterario pesava una concezione parziale e di comodo della storia. Tanto che il grande Garibaldi neppure lo si riconosceva nel ruolo-cardine di difensore delle libertà. Così Mazzini, apprezzato più per il suo legame ai doveri famigliari che nella veste di pensatore e di uomo politico. Ma diciamo che anche la severità degli storici non sempre era comprensibile. Giusto o assurdo che fosse, il regime aveva una propria dottrina da far accettare e con essa il personaggio che le incarnava, che c'era dato vedere in effìgie sulle copertine dei quaderni, sul muro della scuola; insomma, ovunque si girasse la testa. E sempre con la sottolineatura di una infanzia povera, della madre maestra, della vocazione alla pratica sportiva.

In fondo il male della scuola non stava tutto in questa forzatura ideologica, essendo ancora vagamente percepibile ai più il beneficio delle libertà. Pesava di più, come s'è già detto, l'astrattezza di un programma didattico a cliché, privo del necessario contatto con il mondo esterno; con le cose cioè delle quali si parlava e ci si esaltava ogni giorno. E non è che la scuola di città offrisse molto di più oltre alla Leva fascista, agli esercizi ginnici, alle celebrazioni in Cattedrale delle giornate dello studente, alle sfilate per le visite dei gerarchi. Non si andava al Palazzo ducale o al Lago Trasimeno. E neppure a San Lorenzo in Cerquetobono.