Amniocentesi

 

La strada era diventata una barriera di lamiere, surriscaldate e lampeggianti, per via delle luci della sera. Eravamo accerchiati, ovunque tentassimo di svicolare ci ritrovavamo sempre immobilizzati e impotenti. I minuti si accumulavano e con loro la mia rabbia contro questa città impossibile, nemica di qualsiasi urgenza, indifferente ad ogni emergenza.

Sì perché io, rispetto a quelle centinaia di individui anonimi e sconosciuti, mi sentivo diversa, unica, riconoscibile; stavo andando ad un appuntamento con il mio futuro e mi meritavo, secondo il mio ingenuo egocentrismo, la massima attenzione.

Improvvisamente, come in una magia, la strada è diventata scorrevole, il muro di automobili si è dissolto ed abbiamo ripreso la nostra marcia speditamente, arrivando addirittura in anticipo all’appuntamento.

Sono entrata nello studio accaldata e nervosa, ho cominciato a tremare; per scaricare la tensione accumulata ho respirato lentamente ed ho avviato una disinvolta lettura del giornale. Dopo pochi minuti il mio cognome è risuonato nei corridoi ed io mi sono alzata di scatto, afferrando la mia borsa e la mia inseparabile cartellina verde piena di testimonianze del mio recente status di gestante.

Sono accolta da un sorriso gentile, da una voce pacata e rassicurante che comincia a spiegarmi cosa mi aspetta, che mi porge una serie di domande di rito, che mi invita a sdraiarmi sul lettino. Io non voglio vedere nulla, desidero che il tutto avvenga il più rapidamente possibile e che lui mi tenga sempre informata di quello che sta accadendo, per il resto non desidero affatto osservare l’ago che mi entra in pancia né il monitor sul quale seguire il feto. Mi limito ad ascoltare e a guardare il soffitto, avverto una leggera puntura e sento distintamente un corpo estraneo nella pancia intorno al quale lui comincia ad armeggiare. Cerco di sprofondare nel mio rifugio onirico preferito anche da sveglia, un mare infinito e brillante dove lasciarmi cullare e trasportare. Sono in alto mare, ormai, ma sento che lui mi sta dicendo che va tutto bene, che il liquido è chiaro, segno di normalità e benessere, che ormai ha quasi terminato. Anche se sono trascorsi pochi minuti, provo impazienza di alzarmi, uscire da quella stanza di nuovo in piedi e intatta, senza più aghi nella pancia, lontana da siringhe e monitor. Eccomi finalmente fuori, incrocio gli occhi ansiosi di tuo padre e della nonna Angela, rimasti là fuori ad aspettare, chissà come macerati dalla preoccupazione di chi non sa e non conosce. Cerco di tranquillizzarli, ma mi si riempiono gli occhi di lacrime, non riesco a trattenere un pianto liberatorio. Soltanto in quel momento mi sono resa conto di quanta tensione avessi accumulato; non riesco nemmeno a dire loro che tutto è andato bene e per qualche secondo il mio pianto è interpretato come segnale di disgrazia. Poi riesco finalmente a calmarmi, a normalizzarmi, a spiegare come si sono svolti i fatti e tutti ci siamo ritrovati storditi e felici di aver superato anche questo ennesimo ostacolo.

Tornando a casa, il traffico impazzito non mi ha scatenato più alcuna irritazione, soltanto la considerazione che nonostante fosse il 6 dicembre, ci trovavamo già in piena frenesia pre-natalizia. 

Ormai tutto era accaduto e non avevo più fretta, non c’era più alcuna emergenza. L’atmosfera si era rasserenata ed io mi sono ritrovata a pensare al sogno della notte precedente, dove Elena, la mia antica amica scomparsa prematuramente quasi dieci anni fa, mi tranquillizzava e mi assicurava che tutto sarebbe andato per il meglio.  Sempre più spesso, quando si tratta di Elena, oscillo paurosamente tra il mio spirito assolutamente razionale che attribuisce ai sogni il loro reale significato di elaborazioni dell’inconscio e quello più istintivo e magico, che vuole leggere in questi segnali onirici, messaggi della persona scomparsa che continua a seguire la nostra vita, come un angelo invisibile pronto a proteggerci e confortarci.