L'arte buona di Armando De Santi
Come si può penetrare nei miei sogni, nei miei istinti, nei miei desideri, nei miei pensieri che hanno impiegato tanto tempo ad elaborarsi e a venire atta luce, soprattutto per cogliervi quello che vi ho messo forse malgrado la mia volontà? (Pablo Picasso)
Urbino, 21 febbraio 1995, ore 21,30. Suona il telefono, è Armando De Santi che mi incita pressantemente a programmare la data per la ricognizione da compiere sulle sue opere a Monte San Giusto e a Pian di Meleto e mi fa capire che gradisce accompagnarci per rivedere le sue ceramiche e i suoi dipinti. Mi segnala anche un altro collezionista privato dei suoi lavori. Ormai sono mesi che la campagna fotografica è stata avviata in previsione della mostra antologica e le opere schedate sono più di trecento, ma l'artista, ricomponendo il mosaico dei suoi committenti o semplici acquirenti, aggiorna continuamente l'elenco, rendendo incerti i risultati della documentazione, che non pretende certo di fornire la completezza di un catalogo esaustivo, ma almeno la precisione di una campionatura qualitativamente valida della sua opera. Si può affermare con una certa sicurezza che non c'è casa ad Urbino dove non compaia una stampa, un piccolo bronzo, una ceramica, un affresco, un dipinto di De Santi. È l'artista più popolare nella città del Montefeltro sia per la sua fama di trasgressore delle regole del vivere borghese, sia per il suo quieto, idillico modo di interpretare il mondo attraverso l'arte. Quanto più è irrequieto il suo attraversare la vita quotidiana, tanto più è dolce e "buono" il mondo che compone le sue figure, interpreti di scene di vita zingaresca, di vita campestre, di corride, di naufragi impossibili, di storie amorose, di dialoghi fra l'artista e le sue modelle.
La casa delle Cesane
Esposta a tutti i venti, la casa sulle Cesane di De Santi porta impressa la testimonianza della sua abilità di manipolare le materie, dal legno al bronzo alla ceramica. La pittura e l'incisione sono arti che si possono sviluppare anche in un piccolo laboratorio, la fusione e la ceramica e la grande scultura necessitano di spazi e attrezzature adeguate. La casa è strutturata in funzione delle necessità dell'artista: ambienti ampi e rustici, ma anche una stanza, resa accogliente da un camino dal tiraggio perfetto, per la posa delle modelle. Il cavallo, a grandezza naturale, che fino a poco tempo fa svettava in attitudine di alzarsi, inarcando la possente schiena, all'estremità del prato, ben visibile da chi percorreva la strada provinciale, giace adagiato, con le zampe rivolte in alto, in attesa di essere compiuto, nell'ampio e arioso laboratorio che contiene, accanto ai torni per la modellazione dei vasi, i forni per la cottura delle ceramiche: elettrico, a gas e a legna. Quest'ultimo è costruito nella parete di fondo del laboratorio, in parte seminterrato in una buca, che raccoglie una grande quantità di legname. Il suo cavallo di legno d'olivo e di quercia è l'ultimo rimasto nella casa delle Cesane, gli altri, quelli veri, sono stati mandati in Romagna per essere meglio accuditi. All'esterno un camminamento per la stalla costruito con robusti travi testimonia ancora la presenza dell'animale che De Santi ama più di ogni altro tenere accanto, per poterlo studiare negli atteggiamenti vitali: il cavallo, infatti, è simbolo di una vita libera e coraggiosa, sprezzante e selvaggia. Sul prato, intorno alla casa i pesanti automezzi militari, acquistati e collocati lì dall'artista, sembrano testimoniare il versante tecnologico dell'animale da guerra per eccellenza, quando la guerra era una partita da giocare in campo o, simbolicamente, nel torneo con la cavalleria. In campagna De Santi è nato, il 4 Aprile 1922, a Cavallino di Urbino e i ricordi dell'inizio sono ancora vivi: «Mia madre era rimasta vedova nel piccolo podere e ogni mattina portava nel campo mia sorella Fiorina di cinque anni e me di tre ed era costretta a lasciarci perché lei andava a zappare un po' più lontano. Prima di lasciarci mi consolava, perché era in pensiero per noi. Una volta mi sono addormentato e mia sorella mi ha dimenticato e lì sono rimasto fino alla notte...». Nella poesia che accompagna il catalogo della mostra personale al Club Pueblo di Madrid del 1966-67, si legge: «È troppo, madre, chiederti sepoltura / in questo mio campo quando morirò?» e i versi chiariscono il concetto della esistenza per De Santi, ispirato alla circolarità naturale della nascita e della morte, nel ciclo eterno della natura. L'esterno della casa si presenta come quegli edifici altomedievali realizzati con materiale di scavo o di recupero da classici monumenti, perché tutto ciò che desidera il suo proprietario deve essere acquistato o barattato o preso per assicurarsene il possesso. Testimonia una crescita per aggregazione di unità architettoniche, che potrebbero svilupparsi all'infinito come una moderna e ambiziosa torre di Babele anche se il progetto sembra unitario e il succedersi irregolare delle aperture presuppone un piano prestabilito per intessere un dialogo continuo fra esterno e interno in funzione del paesaggio bellissimo, che si stende fino al mare verso est, ai Sassi di San Simone e ancora verso le tre penne di San Marino verso nord. L'interno, accanto al laboratorio, annovera una serie di locali dove, da un creativo disordine, emergono finimenti antichi e moderni per cavalli, figure in terracotta, utilizzate per fusioni, tracce di un lavoro di invenzione mai interrotto.
Una vita fra eroismo e anarchia
C'è un'opera che De Santi ha pensato e ha realizzato nei dettagli e che in occasione della mostra viene composta nel suo progetto unitario, si tratta di circa quaranta formelle circolari di bronzo di vario soggetto provo a citarne qualcuno a memoria: La danzatrice, La ragazza col cerchio, II nido, La fucilazione della parmigiana, L'autoritratto del duemila, Gli amanti, Le amiche, II parto che nel loro insieme costituiscono la Porta della Vita e rappresentano l'idea che della vita De Santi ha maturato lungo gli anni, attraversando frustrazioni e riconoscimenti invidiabili. Immediatamente il pensiero corre alle altre famose porte, quella del Paradiso, così chiamata da Michelangelo, ideata dal Ghiberti per il Battistero di Firenze, quella dell'Inferno, che Rodin ha progettato per un Museo d'Arti Decorative sulla Senna, mai realizzato e la porta della Morte che Manzù ha inventato per la Basilica Vaticana. La porta, per il suo alto contenuto simbolico di passaggio, di attraversamento e infine di cambiamento di situazione, consente allo scultore di esprimere il punto di arrivo e la sintesi della sua poetica, la sua concezione del mondo. La porta di De Santi non poteva essere presentata nella sua completezza, come la vita essa possiede la proprietà di continuare a crescere e si propone dunque come work in progress. Ogni episodio in sé compiuto anche se la perfezione del tema attende nuovi eventi costituisce una tappa della sua biografia. Poco dopo la morte del padre, la famiglia De Santi è costretta ad abbandonare il podere e a scegliere di vivere ad Urbino nel quartiere di San Bartolo, dove il giovane Armando si rifugia spesso nella piccola pineta per arrampicarsi sugli alberi già insofferente delle regole come il Barone Rampante di Calvino a raccogliere castagne e pigne da bruciare. Fra il 1927 e il 1940 è ospite dell'orfanotrofio e frequenta la Scuola d'Arte, nelJa sezione di Ceramica, diretta dal sardo Federico Melis; trascorso il periodo di guerra, si iscrive alla Scuola del Libro, per seguire il corso di Incisione sotto la guida di Leonardo Castellani, interessato all'apprendimento della tecnica. Partecipando alle gare dei Littoriali si conquista il soprannome di "Balilla", perché risulta imbattibile nella corsa anche gareggiando con giovani atleti maggiori di età. La guerra e la Resistenza costituiscono il momento che De Santi ricorda con più emozione e partecipazione; l'artista è citato nel Ruolino Partigiani combattenti della formazione V^ Brigata Garibaldi "Pesaro" (in La 5" Brigata Garibaldi "Pesaro", Pesaro, Provincia di Pesaro e Urbino, ANPI Provinciale, 1980, p. 49). Anche se l'inizio della resistenza armata coincide ad Urbino con il tentativo da parte di un reparto tedesco, il 1° Novembre 1943, di catturare Erivo Ferri a Ca' Mazzasette (cfr. R. Giacomini, Urbino 1943-44, Urbino, Argalia, 1970, per quanto riguarda le note documentarie), soltanto all'inizio del 1944 i giovani cercheranno di raggiungere i partigiani in montagna. Ricorda De Santi, assistito da Romano Arceci per la precisa ricostruzione dei fatti, che il 4 Marzo '44 col gruppo composto fra gli altri da Ferdinando Salvalai e Luigi Moschini (Zibin), si trovò ad affrontare a piedi il monte Petrano per arrivare a Cantiano, evitando la Flaminia. L'attraversata si presentò particolarmente faticosa per l'improvvisa, violenta tempesta di neve che costrinse i giovani a trovare rifugi di fortuna e a portare soccorso ai compagni in difficoltà. Giunti a Cantiano i partigiani organizzarono il distaccamento "Picelli", sotto la guida del Ferri. Partiti per Urbino e fermatisi a Ca' Polo, De Santi e Salvalai ebbero il compito di salire al Peglio per rifornirsi di masserizie e abiti, azione che venne compiuta dopo la cattura di un soldato tedesco. De Santi si trovava a Ca' Polo quando il 19 Marzo i fascisti e i tedeschi riuscirono ad intercettare due uomini del "Picelli", rimasti isolati: Giannetto Dini e Ferdinando Salvalai. I due partigiani pur difendendosi strenuamente, furono catturati presso Ca' Lalagia e uccisi, dopo il loro trasferimento a Massa Lombarda. Tralasciando l'episodio di Pian di Meleto del 28 Aprile, narrato con dovizie di particolari da Romano Arceci, un ruolo di protagonista De Santi l'ebbe certo, per sua testimonianza, nei fatti del 18 Giugno quando fu fatto saltare il ponte Calmazzo-Urbino e, successivamente, nel lancio di alcune "ballerine" nell'accampamento della legione fascista "Tagliamento" sul Colle delle Vigne di Urbino. L'aver ricordato dettagliatamente la partecipazione di De Santi alla lotta partigiana non intende essere la celebrazione di un eroismo, ma piuttosto vuole sottolineare il suo atteggiamento temerario nei confronti della vita, che si riflette costantemente nel fare dell'arte un terreno di sperimentazione spericolata e avventurosa.
La ceramica fra tradizione e sperimentazione
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta De Santi realizza due progetti particolarmente impegnativi di opere ceramiche, che unitamente alla modellazione della forma sono espressione della sua sensibilità pittorica e della sua capacità strutturale-architettonica. Si tratta di due opere di carattere liturgico: l'altare maggiore per la Chiesa di San Bartolo a Urbino e il fonte battesimale per la chiesa di Santo Stefano a Monte San Giusto. Il primo, del 1955, commissionato dal parroco Don Dante Lucerna, sacerdote sensibile e colto, fu pensato come una grande arca, tale da esprimere il senso della tomba e della mensa eucaristica attraverso la severa struttura ad archi, che racchiudevano mattonelle decorate rappresentanti al centro l'angelo reggicroce, ai lati la Vergine annunciata e l'angelo, alle estremità, a sinistra San Bartolo, a destra San Crescentino. Il gradino, nella parte che si sviluppava ai due lati del tabernacolo, presentava, racchiuse da una cornice vivamente colorata e ricca di modanature, una serie di formelle effigiate con i simboli più noti della tradizione cristiana: il Buon Pastore, il Cristo sofferente, i pesci, il pane e l'uva, il pellicano, mentre nella parte che si prolungava ai fianchi dell'altare offriva alla vista le colombe e i cervi alla fonte, immagini desunte dai Salmi dell'Antico Testamento. L'altare è stato scomposto intorno agli anni Sessanta a causa delle innovazioni liturgiche portate dal Concilio e solo nel 1986 è stato recuperato (ad opera di Don Enzo Severini, di Antonio Antonelli e Renato Bruscaglia) e ricostruito secondo schemi più semplici; non è stato possibile, tuttavia, reintegrare l'apparato architettonico, andato perduto durante le fasi di smontaggio. Le bellissime figure, smaltate nei colori più imprevedibili che nascono al fuoco della cottura, sono impaginate in una rigorosa verticalità secondo i moduli espressivi cari a De Santi, la cui tormentata sensibilità è molto vicina alla tradizione fiammingo-tedesca e manierista più che a quella classica e rinascimentale. Il guerriero, protettore di Urbino, si avvita su se stesso nello sforzo di vincere il drago infitto dalla sua lancia, il San Bartolo martirizzato aggredisce l'occhio del fedele con il segno tormentato e arrovellato, che definisce la sua anatomia messa a nudo. Gli svariati pezzi della complessa costruzione furono cotti nel primo forno che l'artista riuscì a realizzare nel giardino della sua casa, in via del Fiancale. Un'impresa, questa della costruzione del forno, che ha della leggenda, per il fatto che De Santi ha prodotto il tutto artigianalmente in un'epoca in cui la meccanizzazione aveva sostituito l'artista e l'artigiano per quanto attiene l'invenzione degli utensili e degli strumenti. Dapprima si poneva il problema dello studio accurato delle modalità di costruzione del forno, che doveva reggere a temperature altissime, e non potendo usufruire dei mattoni refrattari prodotti industrialmente, per ovvie ragioni economiche data la giovane età, l'artista utilizzò materiale di recupero che si procurò sottraendolo anche ai vicoli di Urbino, lastricati con mattoni adatti all'uso perché molto ricchi di ferro. La prima cottura non dette i risultati sperati, causa di ciò era l'errata posizione della sede del fuoco, che deve abbracciare in ogni sua parte la "muffola", il luogo cioè dove vengono collocate le ceramiche e da questa deve trovarsi alla distanza giusta per ottenere un riscaldamento omogeneo e costante delle pareti. Apportate le modifiche necessarie, l'attenzione si concentrò nell'utilizzo del legname più adatto, le fascine che assicuravano un fuoco dolce e asciutto erano quelle dei fornai in modo da creare un ambiente di cottura non "ossidante" ma "riducente". Pubblicate nelle edizioni Nobili di Pesaro del 1879, in margine a I tre libri dell'Arte del Vasaio di Cipriano Piccolpasso, le Notizie del Canonico Andrea Lazzarini riferiscono fra le altre informazioni sulla tecnica ceramica Della maniera di fare il foco alla fornace e la narrazione non si discosta molto da quella di De Santi: «II fuoco si ha da fare con legna ben secca, leggerissima quanto si può, atta per fare la fiamma chiara, e perciò per far meglio si adoprano fascine. Tali sarebbero per esempio fascine di salcio, di albuccio, e simili. Si principia con picciol fuoco per mezz'ora in circa, e le prime fascine si abbruciano vicino alla bocca senza cacciarle troppo indentro. Poi a poco a poco si va accrescendo, mettendovi su, per esempio, nella data proporzione di quella fornace ecc. una intera fascina per volta. Bisogna avvertire che la fiamma non cessi mai; ond'è che se per sorte manca colui che fa il fuoco, bisogna che un altro vi sottentri subito. La fornace, che si da colle assegnate misure, porta per ordinario dieci in dodici ore di fuoco. Quando si avvicina la decima ora in circa, si osservino le mostre [piccoli dischetti di ceramica che servono per la prova di cottura], se ne estrae una o due, e si getta nell'acqua fredda, acciò si raffreddi subito, né importa se l'acqua fa subito andar in pezzi le mostre; basta solo, che si possa toccare il pezzo della mostra dov'è il colore dipinto, per sentire se questo ha bene spianato, e allora è cotta la fornace, e bisogna subito far cessare la fiamma, ed estrarre il fuoco acciò la cottura non passi». Il lavoro del ceramista è costellato da una grande quantità di accorgimenti pratici e i risultati sono necessariamente la conseguenza di una certa abilità nelle scelte, in questo senso l'artista attuale non è altro che l'erede di una grande tradizione, di cui una testimonianza ci è offerta dallo stesso Piccolpasso che da inizio al suo primo libro dell'arte del vasaio con la descrizione della cura con cui il ceramista deve valutare l'impasto delle terre: «Usano gli uomini dell'arte de' vasi nella città di Urbino la terra che si coglie per il letto del Metauro, e quella colgono più nell'estate che per altri tempi, e tiensi tal modo nel coglierla. Quando cascan le piogge nell'Appennino, alle radici del quale nasce detto fiume, ingrossano le sue acque e si fan torbide, e così torbide camminando per i suoi letti lasciano quelle parti più sottili del terreno, che nel venire allo ingiù rubano a questa ed a quella sponda. Ingrossano queste parti su per le arene di detto fiume un piede o due; queste colgonsi e se ne fanno montoni per il detto letto. Molti sono che le lasciano seccare al sole e dicono che si reggono meglio nel lavorarle: altri dicono che si purgano, perché poste così secche nei terrai, o voglian dire conserve dove si tengono, convien di nuovo mollarle, e così rimollandosi si fanno più pure. L'una e l'altra sorte ho veduto adoperare io senza conoscervi molta differenza: perché lo avvertimento è di coglierle nette dalle radiche delle erbe, e dalle foglie degli alberi, e da certe giarine; avvertendo che nel venire che fanno le acque alla china con impeto, fan percuotere i sassi l'un contro l'altro, tra i quali ve n'è di una sorte, che tengono di calcina. Questi mescolati con detta terra fanno grandissimo danno.»
Urbino Chieda di San Bartolo L’altare maggiore prima della demolizione.
È proprio dalla complessità imposta dal lavoro ceramico che hanno origine il risentimento e talvolta la reazione rabbiosa di De Santi quando si trova costretto a constatare che la sua opera non è adeguatamente conservata o addirittura temporaneamente cancellata alla vista, come è avvenuto per il fonte battesimale di Monte San Giusto. Si tratta di una complessa invenzione che comprende la modellazione di figure contestualmente alla organizzazione spaziale di una nicchia poco profonda, divisa in due parti: quella inferiore rivestita di mattonelle decorate in modo irregolare con simboli riferibili al rito del battesimo, quella superiore illuminata da piccoli moduli triangolari a base arrotondata ricoperti di foglia d'oro. Il motivo dell'acqua è dominante e piuttosto che ricordare il quieto scorrere di un fiume lascia intuire che l'artista abbia saputo catturare in quello spazio ristretto il senso di un oceano di proporzioni immense. Dal pavimento, leggermente concavo, la cui luminosità irregolare verde acqua delle formelle richiama la profondità segreta del mare, si innalza possente un pesce dalla testa mostruosa sulla cui coda è posta la vasca, un tempo ornata, sui bordi, da piccoli uccelli simulanti il volo. Al centro della nicchia, sullo sfondo di un cielo luminosissimo, si staglia la figura allungata del Battista in atto di battezzare. Nel paese che conserva una delle più belle tele di Lorenzo Lotto, la Crocifissione nella chiesa di Santa Maria Telusiano, l'opera di Armando De Santi può essere considerata come un moderno ripensamento e interpretazione dello spirito artistico del pittore veneto: la stessa scontrosa rappresentazione di una umanità ribelle alle regole della convivenza, che si evince dal ruolo di protagonista che assumono le figure; la stessa nostalgia per una natura, che talora fa da sfondo, lontana e che talora prende il sopravvento sulla figura; la stessa ansia di narrare un sogno o una favola, dove il dramma si stempera nella volontà di segnalare il lato positivo della vita. Fino a pochi giorni fa, fino a quando De Santi ha deciso di tornarne in possesso, nella cappella dedicata ai caduti della chiesa urbinate di San Francesco, sottostante il campanile, era collocata sulla parete di destra un grande pannello di ceramica, identificabile forse con quell'opera intitolata: Battaglia sul mare, esposta nel 1963 al Circolo artistico di Bologna, specificata come: ceramica spaziale. È l'anno in cui un articolo de "II Resto del Carlino" del 24 Marzo a cura di Giorgio Guppi e Sauro Brigidi {Tecnica rivoluzionaria dell'urbinate De Santi) rende nota la nuova tecnica adottata dall'artista per la cottura di grandi pezzi: «Qual è, in sostanza, la nuova tecnica del De Santi? È stato difficile per noi profani seguire l'artista nell'entusiasmante descrizione della sua tecnica. Poi, un poco alla volta, grazie alla pazienza del De Santi, siamo riusciti a comprendere che l'artista ha risolto la formula "più bello più grande colori più vivi minor tempo necessario". Una tecnica assolutamente nuova: un forno rotante a cottura velocissima. L'artista ha distrutto ogni teoria tradizionale; il forno è divenuto un piano mobile, a "tunnel", dando la possibilità di cuocere pezzi teoricamente lunghi all'infinito. Normalmente la ceramica deve essere messa in forno freddo onde non far spezzare i lavori. De Santi no. Quando mette la ceramica nel suo forno, esiste già un calore di 300°C, che saliranno nel giro di un'ora a 930. Un pezzo lungo tre metri, viene cotto in due sole ore con un vantaggio di circa tre giorni sul tempo tradizionale. Qual è il suo segreto? Abbiamo provato a chiederlo all'artista ma giustamente come era nelle nostre previsioni, la domanda è caduta nel nulla. "La mia terra respira ci ha detto quasi per portarci lontano dalle nostre curiosità sa immagazzinare calore e lo sa disperdere; potrei cuocere la ceramica su una forgia se la polvere di carbone non sporcasse i colori"». A differenza delle opere precedentemente descritte, costituite da parti modulari come formelle e figure di piccolo formato, quest'ultima si presenta realizzata in un solo pezzo e cotta su una griglia di ferro, incorporata nella ceramica. Si tratta di un ardimento tecnico, che una volta perfezionato è stato subito abbandonato come è consuetudine dell'artista, che non ha saputo mai utilizzare a fine di lucro le sue invenzioni; ciò non va attribuito all'incostanza del carattere, ma piuttosto ad un rifiuto di considerare la propria opera alla stregua di mercé, alla sua concezione elitaria dell'arte, pensata come continuo perfezionamento di materiali e di tecniche. L'abilità tecnica può essere considerata l'arma segreta di De Santi, dietro la quale volentieri cela la sua sensibilità che contiene qualche traccia di ingenuità e di fanciullesca impertinenza. Quale battaglia navale è descritta sulla superficie del pannello, se ciò che colpisce è solo una grande nave con le vele colorate gonfie di vento? L'episodio della violenza della guerra è relegato nella parte bassa ed occupa uno spazio minimo, quasi inawertibile, segno che l'intenzione dell'artista è ancora una volta quella di esprimere la gioiosa festa del colore e del movimento. Sembra utile citare integralmente il testo di Francesco Carnevali in occasione della prima mostra urbinate dell'artista, tenuta al Circolo cittadino nel 1948, perché fornisce indicazioni utili su un altro fondamentale aspetto della produzione ceramica, quello di origine popolaresca, si vedano per questo le numerose ciotole di proprietà Pirani di Urbino. «Le ceramiche che espone Armando De Santi scrive l'allora Direttore della Scuola del Libro al giudizio dei suoi concittadini debbono essere soprattutto considerate come prove di una tenacia e d'un ammirevole sforzo di volontà. Infatti il giovane che fu allievo nella Scuola d'Arte di Federico Melis, è riuscito soltanto con proprie forze ad approntare la necessaria attrezzatura richiesta dalla complicata e difficile arte. Dalla costruzione del forno alla modellazione sul tornio, dalla prima cottura alla decorazione dei varii pezzi, fino alla seconda cottura piena di rischi e di sorprese sgradite, a tutto ha provveduto e va provvedendo da sé. E certo, se la benevola comprensione di chi guarda questi primi risultati, vorrà sostenerlo egli sarà capace di proseguire, di far vivere una di quelle produzioni artigiane che danno valore alla terra da cui si esprimono. Sono qui alcune ceramiche da cui possono trarsi indizi di un gusto in via di determinazione; uno, o più, anche; giacché o la "pittura su maiolica" a carattere popolaresco, potrebbe assumere accenti meglio definiti di improntata vivacità per i quali il giovane sembra naturalmente dotato; o il giuoco degli impasti e delle grafiture su fondo colorato (che del resto riprende, in tono elevato, la tradizione di certi vecchi scaldini ed orcioli paesani), sarebbe in grado di informare tutta una produzione improntata a viva modernità. Gli si possono perdonare le incertezze, gli sconfinamenti ed assaggi in campi che non sembrano adatti al suo temperamento, in virtù del desiderio di esperimentare nuove tecniche diversissime onde impadronirsi del mestiere.» Assecondare con il disegno e il colore la forma curva della ciotola o del vaso costituisce per il ceramista un limite, ma anche un esercizio di utilizzazione del movimento e della forma più inventiva e libera rispetto al lavoro del pittore o dell'incisore, costretto a tenere conto, rigorosamente, della bidimensionalità del piano. Urbino possiede a livello pubblico e privato, come è già stato accennato, una ricca documentazione dell'opera molteplice e ricca di Armando De Santi, ma, ponendo l'accento sulla committenza pubblica, è rilevante la scelta che ha operato Giancarlo De Carlo nell'arredo del Rettorato dell'Università di Urbino, dove il camino decorato con le formelle a ceramica di De Santi si pone in gradevole contrasto con le porte serigrafate con i disegni di Leonardo. L'arte colta dell'Umanesimo, che pone sullo stesso piano dei valori la ricerca scientifica e quella formale nella proiezione verso il futuro, dialoga con l'arte popolaresca, che sa rievocare attraverso un'antica caccia al cinghiale l'epopea del passato. La stessa distribuzione delle figure risponde a un criterio di rigorosa simmetria nei due gruppi di cavalieri e il cane che gioca fra le gambe del cavallo in basso a destra rimanda all'antica incisione tedesca: Dùrer e 1' acquaforte del Cavaliere, la morte e il diavolo.
L'incisione e la scultura, due modi di sentire la materia
Solo recentemente De Santi si è dedicato alla grande scultura, trovando in Piero Guidi un generoso mecenate che gli ha consentito di realizzare una fusione in bronzo a grandezza naturale di due figure, maschile e femminile, in volo. L'immagine è stata dapprima utilizzata come marchio della ditta che ha preso corpo da un'idea che Guidi ha utilizzato coerentemente per tutta l'ultima tendenza della sua linea di moda: gli angeli metropolitani. Ancora una volta un progettista, sensibile alle nuove tecnologie e profondamente consapevole della psicologia di massa, delle leggi economiche e di mercato, ha saputo cogliere nell'arte di De Santi un significato attuale. Il laboratorio di Guidi a Schieti di Urbino è un piccolo museo delle opere di De Santi, delle sue sculture in bronzo, in legno e in terracotta, collocate nell'eclettico ambiente dove compaiono accanto ai modelli di borse, valigie, scarpe, gli assemblages dello stesso Guidi, i manifesti delle campagne pubblicitarie, antiche e preziose stoffe, quadri e un tavolo il cui piano di cristallo poggia su un complesso meccanismo di orologio da campanile, personalizzato con tocchi di colore. L'arte di De Santi esprime la sua simpatia artigianale verso ogni tipo di materia, non è mai arrogante, anzi spinge al confidente gesto di potersene appropriare, toccandola e in larga misura è proprio la sua scultura che possiede questa qualità. Il piccolo puledro di bronzo scalpitante all'ingresso, collocato su un basso basamento è sotto lo sguardo severo della magnifica testa di cavallo di bronzo patinato che occhieggia, con un suo fascino antico quasi da reperto archeologico dalla stanza accanto. Nello studio di Guidi una medaglia è appoggiata sul tavolo, vi è rappresentata nel recto una Madonna col Bambino, nel verso un diavoletto, sul mobile, a fianco del tavolo, un legno scolpito riproduce le fattezze di un volto di donna orientale, delicatamente tracciato nella sua anatomia sfuggente; piccole terrecotte sono collocate un po' dovunque, sui tavoli e sugli scaffali, sono cavallini o testine di donne, che ricordano le antiche Tanagre; infine la piccola coppia di angeli, che si incontrano volando, che ha sostituito, come simbolo, il vecchio monogramma PG (Piero Guidi), troppo grafico ormai. Era necessario umanizzare il prodotto e il vecchio artista ha saputo dare sostanza di forma ad un messaggio promozionale che deve raggiungere le fasce giovani del mercato: un tema neoromantico, scaturito dalle esigenze Kitsch di un postmoderno, nato dalle ceneri del concettuale. Da quanto si è scritto sulla collaborazione fra lo stilista e l'artista tutto lascia supporre che quest'ultimo sia suggestionabile dalla committenza, in realtà De Santi ha un carattere indomabile per quanto riguarda il suo specifico mondo espressivo; se ha accettato, dunque, di realizzare le due figure in volo lo ha fatto perché costituivano un tassello mancante nel mosaico delle sue invenzioni, ma esistevano già a livello di progetto da sempre, se si tiene presente che l'amore nel suo aspetto anche erotico, la coppia, il movimento sono temi fondamentali della sua poetica. Un magistrale pezzo di fusione è costituito da L'angelo e il diavolo, che compare, indicato come particolare di un portone, nel catalogo delle opere esposte alla Galleria Montanari di Ferrara nel 1964, ora in una collezione privata di Urbino. Ripercorrendo la stessa tematica della medaglia di Guidi, l'artista pone l'accento sulla lotta eterna fra bene e male, materializzata qui dalla presenza di un angelo e di un demonio. La composizione, fortemente aggettante nel primo piano, ha nello sfondo un paesaggio con figure sinteticamente delineato che ricorda i passaggi dei bassorilievi di Donatello, tale è la forza espressiva dei vari livelli del rilievo e la carica di un movimento classicamente inteso. Il corpo dell'angelo si inarca nello sforzo delle gambe aperte che contengono la figura diabolica la cui immagine sembra appena abbozzata: un non finito, tutta materia che contrasta con la perfezione formale del volto angelico. Nella stessa collezione urbinate è conservato un legno scolpito che raffigura una Giovinetta incinta in cui il movimento del corpo dolcemente arcuato denuncia l'attesa, che la sgorbia sul legno confonde e copre, avviluppando la deformazione della figura in una sorta di bozzolo palpitante e pudico. È una grazia particolare dell'artista De Santi quella di saper toccare con mano delicata e leggera ogni aspetto della vita e lo dimostrano in particolare i tondi di bronzo che per la mostra saranno montati su un supporto che simula la porta che dovrebbe infine contenerli. L'amore, la nascita, l'infanzia, la morte trovano spazio nella narrazione che nell'insieme dei piccoli bassorilievi sembra rispondere a un criterio paratattico. Non si tratta in realtà di un vero e proprio racconto, perché nell'arte di De Santi non c'è spazio per la letteratura, la parola si spegne nell'evidenza dell'immagine anche se nel suo mondo di figure c'è un poeta, il solo poeta che ho sentito ricordare: Federico Garcia Lorca. E Lorca è la Spagna, quella terra frequentata fra Toledo e Madrid per alcuni incandescenti mesi fra il 1966-67, nel periodo in cui l'artista si trovava a Roma per impegni scolastici. All'emozione della corrida non poteva sottrarsi uno spirito come quello di De Santi, né all'emozione della grande tradizione artistica di Velasquez e Goya, da cui ha tratto nuovo impulso la sua fantasia. Nascono in questo contesto le sculture, le incisioni e i dipinti che vengono esposti al Club Pueblo di Madrid, riscuotendo un grande successo di pubblico. La critica fu attenta soprattutto alle sue incisioni come risulta dai comunicati di Radio Madrid, tradotti e riportati dai quotidiani italiani dell'epoca: «II Club Pueblo ha organizzato una interessante mostra per presentare l'opera di un grande artista italiano, Armando De Santi, o De Santi da Urbino, come firma lui in omaggio alla sua splendida città e alla prestigiosa tradizione del suo cognome. De Santi da Urbino è pittore, ceramista, scultore e poeta, ma soprattutto è uno straordinario meraviglioso incisore; le sue acquaforti hanno una originalità, una vivacità, una poesia e una emozione che sarebbe difficile trovare qualcosa assomigliante. I soggetti più drammatici e crudi vengono trattati in modo così squisito che colpiscono per il loro realismo senza mai cadere in concessione al cattivo gusto Nelle sue stampe si fondono la tecnica, la maestria e la composizione rinascimentali con le più moderne stilizzazioni...» (cit. in Le acqueforti di De Santi una "gioia" per i madrileni, in "Il Resto del Carlino", 29 Aprile 1967). «La sua tecnica è veramente di maestro, ma a nulla servirebbe la tecnica se non fosse animata da un potente spirito creatore, da una emozione sincera riflessa in ogni tratto, e un profondo rispetto verso tutti i soggetti umani. Le incisioni di Armando De Santi offrono generalmente temi drammatici e nella vivacità e sveltezza del disegno c'è sempre una nascosta malinconia. La sua maggior virtù è forse mettere delicatezza nel realismo e realtà nei sogni. Accanto alla tomba abbandonata o sotto l'albero dell'impiccato c'è sempre un cane singhiozzante, mentre vicino alla felicità degli amanti che riposano sulla spiaggia, passano vele senza barche» (cit. in De Santi a Madrid, in "II Resto del Carlino", 21 Marzo 1967). Nel catalogo madrileno il critico A. M. Campoy così esprime il suo apprezzamento: «Di lui conosco le sue gentili incisioni, realiste e parimenti fantastiche, lievi e incisive al tempo stesso che si sviluppano su temi di amore e cavalleria, dettagliate alla maniera che solo potremmo incontrare in certi artisti cinesi dell'età dell'oro e pieni di un'energia che parla chiaramente della origine dorata della sua scuola, se italiana centrale per la sua ascrizione, nordica senza dubbio per la sua parentela coi grandi di Toscana e di Milano. Ci sono in queste incisioni due validissimi spunti: lo spirito attuale col quale sono realizzati e la nostalgia di altri tempi che si avverte fra le sue linee.» (Traduzione di G. Gardini). Sia nell'incisione che nei piccoli bronzi, fusi a cera persa, artigianalmente nel suo laboratorio delle Cesane, un tema ricorrente è il movimento colto nell'animale o nell'uomo, ma soprattutto nelle figure femminili. L'artista è affascinato dall'anatomia scattante delle giovani donne, sia che accennino passi di danza o soltanto si atteggino nei più quotidiani movimenti della toletta. Le piccole sculture sono realizzate sia in bronzo che in argento o mescolando insieme i due metalli, per ottenere effetti pittorici e, sovente, non vengono rifinite, sfruttando in senso estetico le eccedenze del metallo che fuoriescono dalla forma durante la fusione. Per giungere a risultati più naturalistici, ma anche per sfidare le leggi della tecnica tradizionale vengono fusi elementi vegetali, derivati direttamente dalla natura, come nella Ragazza col cardo. La ricerca del movimento rende quasi instabili le figure, tanto è evidente lo sforzo di dare libertà al corpo. Donna e corpo formano per De Santi un insieme inscindibile, sia quando esalta la bellezza delle forme armoniche e molli, come nel bronzo Risveglio della primavera, sia quando circumnaviga il corpo teso, imprigionato nei lacci, della Fucilazione della partigiana. All'incisione, e più precisamente all'acquaforte, De Santi si è dedicato con più assiduita intorno agli anni Sessanta, quando è stato costretto a lasciare la ceramica, il cui procedimento aveva raggiunto costi insostenibili, inventando talora, per questa tecnica, nuovi cicli narrativi, come il circo, gli zingari, le prostitute II segno risulta lieve ed elegante, piuttosto analitico nella definizione delle figure e la lastra presenta spesso uno sviluppo verticale molto accentuato. Quella componente orientale, notata dal critico spagnolo nella produzione grafica, è riscontrabile appunto nel gusto della narrazione verticale piuttosto che orizzontale. Lo sfondo delle storie è spesso il paesaggio di Urbino, vista come una città del sogno, posta su un monte inaccessibile, raggiunto soltanto dagli aquiloni che a volte popolano il cielo. Fra i fogli incisi più notevoli sono da annoverare quelli dedicati alla Corrida di Toledo o L'arena di Madrid dove la suggestione goyesca è foltissima e la composizione si fa drammaticamente serrata intorno alle figure del torero e del toro. L'impianto, che valorizza la struttura circolare, è quello del circo, mentre le scene di vita zingaresca si fanno più larghe e più frammentate nei singoli episodi. Se la scultura per l'artista è terreno di sperimentazione continua di materiali nella ricerca di risultati originali, l'incisione sviluppa la sua potenzialità narrativa: è favola e sogno.
La pittura
La sala consiliare del Municipio di Pian di Meleto è decorata con due grandi dipinti di Armando De Santi che rappresentano l'uno l'Allegoria della pace, l'altro l'Allegoria della guerra. Nel primo si distende un largo paesaggio in cui il colore dominante è il rosa delle case, degli alberi delle vesti dei bambini festanti, in evidenza è riproposto il vecchio tema del bambino e del nido: una bimba, infatti, rivolge lo sguardo intenso verso l'albero, mentre un bimbette scambia un fidente sguardo con un uccellino, posto accanto alla sua spalla. Nel quadro dedicato alla guerra il tono prevalente è dato dal colore grigio che si stende piatto sulla superficie del mare, dove, all'orizzonte, sono poste navi militari colpite dal fuoco nemico, in primo piano su una banchina di un porto alcuni soldati sorreggono il corpo di un compagno caduto, avvolto in un candido sudario. Il colore dei suoi dipinti a olio ricorda spesso le tonalità di quello per la ceramica, sembra mancare, tuttavia, di quella lucentezza che la cristallina e il fuoco della cottura definiscono e fissano sul biscotto. I colori della pittura sono privati di un passaggio necessario e restituiscono dell'opera un suo mesto fascino. La scelta dei soggetti che popolano i suoi quadri non si discosta da quelli trattati nella ceramica e nell'incisione, ma il registro espressivo si fa più alto, più impegnativo. Alle opere realizzate con tecniche diverse dalla pittura De Santi sembra riservare lo spazio di una vena più confidente, più aperta a rivelare il gioco nascosto del suo carattere: quello ribelle, impertinente, nostalgico e trasgressivo. Nel Settembre del '68 De Santi espone le sue opere in una mostra alla Bottega Giovanni Santi e la recensione anonima in "La Voce Adriatica" del 26 Settembre dello stesso anno (Nella mostra di Armando De Santi opere che esprimono la gioia di creare) mette in luce aspetti positivi della sua pittura: «C'è nel nostro una felicità nel dipingere oggi quasi sconosciuta a molti artisti, nell'ambito delle ricerche attuali, drammatiche, incubate nell'angoscia, nell'incapacità o nel rifiuto di una comunicativa, ritenuta troppo rischiosamente disponibile alla banalità. I "motivi" di De Santi sono cercati alla luce del quotidiano, dell'usato e dell'effimero, delle cose correnti che, prima di consegnarsi alle sue promesse di dissolvenza psicologica-espressiva, hanno un brillio (ci è troppo facile dire "tout court" esistenziale), come un'effusione, dove però la magia di quella sospensione romantica ed anarcoide è distrutta come trascendenza e quindi come "raison d'ètre". È questa visione in un certo senso allusiva che può sembrare quieta ed è invece allarmata da "rigori ideali" (reminiscenze rinascimentali?) anche se essa accade in una atmosfera di ferme luci serali: le casupole e le barche corrose dalla "materia" e dal tempo, come sorprese nella loro fissità minerale, scoprono in un tramonto infuocato la "patetica allegria delle carte da parati" (II porto di Civitavecchia) le "nature morte" legate a violacee trasparenze che sanno di umido; i "fiori" esalano un profumo intenso e colorato che sembra voler rompere la scorza del loro opaco disseccarsi o lento marcire; e più di ogni altra cosa la carne avvilita e toccata delle prostitute che si svestono Interno di notte e persino di Santi colti nel "rito frustrante della svestizione" (si veda quella sorta di San Sebastiano che l'autore intitola Martirio di un partigiano), riproduce attraverso un atto così abituale l'ostinata, incancellabile presenza della sua "dolce putrefazione". E tuttavia, nella loro assoluta autonomia di confronto fisico con la realtà, queste pitture non diventano oggetti. Portano anzi una impronta "individuale", senso preciso di una "struttura mentale rivendicatrice di un classicismo moderno" (Waldemar George) e nello stesso tempo cromatismo pregno di una sottile luce di emblematicità vicina alle maniere "elleniche" di Carrà o De Chinco e alle favole archeologiche del primo Campigli." Il critico ha colto nel segno, sottolineando l'abilità di De Santi di saper trattenere nella pittura l'attimo fuggente della vitalità delle cose, dei fiori prima che si appassiscano, delle donne prima che vengano dimenticate, ma ci sono opere che sfiorano temi eterni come quello religioso con una forza emotiva pari a quella che animava gli inquieti pittori del passato si vedano Perugino e più ancora Caravaggio dove il presente si congiunge con il metafisico. La Deposizione di una collezione privata di Roma, dove il corpo irrigidito dalla morte segna con le braccia le due uniche direzioni possibili, quella verso l'alto e verso il basso, è un esempio di sofferta interpretazione del tema. I bracci della croce sono vuoti, segno che la linea d'orizzonte che circoscrive la terra è superabile o sfuggente per chi si ponga la domanda fondamentale dell'esistenza: salvezza o dannazione? Recentissima è la grande composizione dedicata 'all'Ultima Cena, che ricorda l'impianto dell'altare di San Bartolo, nella partizione architettonica dello spazio, ma dove il dramma si stempera nel colore tenue e nell'affabilità del colloquio fra i personaggi. Dal 1990 De Santi ha sperimentato anche l'affresco e ha ripreso nuovamente la pittura su pietra, tecniche che sono il risultato della sua esperienza e pratica sulle reazioni chimiche. L'affresco è stato realizzato su superfici di intonaco di piccole dimensioni ed essendo un procedimento, come la pittura su pietra, che consente un fissaggio del colore diverso dalla pittura tradizionale dell'olio su tela, si avvicina alla ceramica. L'artista ha ritrovato il gusto per la realizzazione di nuovi soggetti: piccoli ritratti femminili composti in punta di pennello di straordinaria felicità esecutiva, nature morte che richiamano quelle composizioni quasi impressionistiche della tradizione pompeiana, i cavalli e i tori, tratteggiati nelle attitudini più vitali: la nascita del puledro, il toro esasperato dalle punte delle banderillas infitte nella carne. De Santi ha saputo unire da sempre l'abilità della invenzione delle storie alla sperimentazione dei materiali. Recentemente, costretto a vivere chiuso nella sua casa di Urbino, ha perfezionato la tecnica di pittura su pietra mediante i sali di metallo, che hanno la proprietà di fissarsi, attraverso un processo chimico, sulla lastra di marmo bianco creando nel tempo una discreta gamma di colori. La tecnica è stata sperimentata dapprima per realizzare la decorazione della piccola parete absidale della cappella del Convitto delle Maestre Pie Venerini di Urbino, dove, sulla colonnetta su cui poggia il tabernacolo, è rappresentato un angelo reggistendardo, circondato, ai lati, da pannelli riproducenti vaghi mazzi di fiori dalle tonalità delicatissime e sfuggenti. All'origine del procedimento sta l'osservazione condotta dall'artista sulle pietre naturali, nelle quali si creano in tempi lunghissimi diverse vene colorate, allora perché non accelerare attraverso l'arte e la chimica il processo di assorbimento del colore? Ed ecco che nascono i volti delle sue donne, le storie dei paracaduti e degli aquiloni, delle barche, tracciate con liquidi apparentemente incolori come l'acqua, che combinandosi con le sostanze del marmo restituiscono un segno incerto nei suoi confini, ma penetrante da parte a parte della pietra e, nel tempo, mutevole nel colore, dal nero al rosso-oro, al verde. Al termine dell'analisi dell'arte suggestiva di De Santi non deve stupire il fatto di non aver trovato traccia del disegno perché l'artista si affida principalmente al suo istinto e all'immediatezza dell'esecuzione, resa fluida e naturale dalla profonda conoscenza dei materiali unita alla rapidità dell'occhio che sa cogliere e fissare nella memoria atteggiamenti e intenzionalità delle creature che popolano il mondo.
La barca sul mare d'erba
L'opera di De Santi prima di essere figura dipinta o modellata, traccia concreta nella materia, è espressione di una incontenibile forza vitale, in grado di abbattere tutti gli ostacoli che si frappongono alla sua attuazione, è espressione di una forza dell'utopia di un mondo senza contraddizioni, di certezze che prevalgono sui dubbi. Nella sua casa sulle Cesane, De Santi aveva costruito, qualche anno fa, una barca, forse per farne una scultura, forse per solcare il mare, ma era talmente cresciuta di dimensioni quasi fosse un'arca biblica, destinata a contenere ogni forma di vita che, quando si trattò di farla uscire dal laboratorio, l'artista si trovò costretto ad aprire un varco nella muratura, abbattendo la porta; pur fra le difficoltà la barca uscì e fu collocata sul mare d'erba, nello spazio libero, antistante la casa, per il quale era stata pensata. Quella barca era l'artista, perché fra De Santi e la sua opera non c'è soluzione di continuità, e non ci saranno muri capaci di contenere il suo costante bisogno vitale di dare corpo all'invenzione. Urbino, 5 Marzo 1995 Silvia Cuppini
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