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Biografia

VITTORIO SANTINI:   Maestro - Direttore / Ispettore Didattico

GLI AMORI ED IL MATRIMONIO DI SPIRINDIONE SCIAPLON CON REBECCA MECHIOPPA

 

 

Ne esistono tre versioni: A)- Eterni Fidanzati -  N° 5 (fondo Santini) di 17 pgg ;  Gli amori e il matrimonio - N°13 (fondo Santini) di 15 pgg ;  Un matrimonio a scoppio ritardato - N° 32 (fondo Santini) di 29 pgg.  In queste trapela una timidezza e una delicatezza di sentimenti di altri tempi, inconcepibilmente assurde ai nati nel terzo millennio: timidezza e pudore verso l'amato, verso i genitori e parenti e verso la gente, così sentite da condizionare la vita. Scartata la N.13 che è una mera minuta delle altre, la N* 5 e la N° 32 vengono qui riportate integralmente. (ndr)

 

 UN MATRIMONIO A SCOPPIO RITARDATO

(versione N. 32 la più completa)

 

Quando SPIRINDIONE SCIAPILON e REBECCA MECHIOPPA cominciarono a fare all’amore avevano quindici anni ciascuno, ma grandi e grossi com'erano, gliene avreste dati più di venti; quando si sposarono, ci credereste?, ne avevano sessantacinque dal che si deduce, aritmetica alla mano, che stettero fidanzati o per meglio dire fecero all'amore per quarantacinque anni. Ma voi mi chiederete: e perchè non si sposarono prima? Lo so io? Erano due originali, come meglio vi spiegherò in seguito, e la scienza è muta a spiegare tali deviazioni... Suppongo che, avendo Spirindione la madre viva abbia trovato un po’ scomodo al presenza di due donne al comando della casa; d’altra parte Rebecca, timida com'era, non si dev'essere mai attentata di dire al suo moroso «Beh! è ora definiamola?» 

Due originali, insomma. E per meglio conoscerli farò le regolari presentazioni. Lui, Spirindione Sciapilon, maestro cappellaio. Sciapilon (meglio Sciaplon, dove la "i" è semimuta fino a morire, nde) era il soprannome regalatogli non so da chi, credo da sua madre senz'altro, in virtù della sua grulleria che, a dire il vero, era abbastanza robusta. Se per istrada qualcuno l'avesse chiamato col nome di battesimo sì e no avrebbe risposto, ma era prontissimo a gridare "presente", se lo chiamavano col soprannome che per lui doveva avere un misterioso senso di poesia meglio di quel prosaico Spirindione.

Da piccolo era un piagnone a prova di bomba e non prometteva gran che. Cominciò a balbettare qualche sillaba a quattro anni, qualche parolina a cinque ed entrò alla scuola elementare a sei e non vi so dire con quanti strilli si staccò dalle gonnelle della mamma per attaccarsi a quelle della maestra. Fece la prima otto anni, poi dette un addio alla scuola perché morì l'insegnante. Affranto di cordoglio per tanta perdita prese il lutto con la scuola e la fece finita anche con l'alfabeto, del quale negli otto anni di studi riuscì ad imparare le vocali, solamente quelle però, grazie al sussidio di una filastrocca che riuscì a immagazzinare nella memoria e che in tal guisa poetava:

Questo a mo' d'uomo in ginocchio

Egli (!) è un "A", vedi Carlino?

Questo è un "E" con un bell'occhio

E questo è un "I" con il puntino.

L' "0" è tondo e la "U" sta attento

Tiene il pie' levato al vento.

Hai capito? Dille su: A  E  I  0  U

(Carina è vero? la segnalo a quei pedagogisti d'oggi che non solo vanno a cercare quanto di più astruso hanno trovato nel mare magnum della pedagogia ma che si studiano di escogitare bizantini mezzucci per dar colori alla frittata dei loro metodi nuovi…). Ma ritornando al nostro personaggio dirò che per lui in fatto di l'alfabeto era tutto lì.  Mi correggo: aveva anche imparato a scrivere il suo nome: intendiamoci a scriverlo non a leggerlo; "tanto, diceva, il mio nome lo so a memoria e m'importa assai se non lo so leggere scritto da un altro".

Abbandonati così inopinatamente gli studi, pensò, dato che aveva suonati i quattordici anni di darsi ad un lavoro che gli permettesse di far lavorare anche lo stomaco e perciò, esibendosi a destra e a manca riuscì a farsi accettare come sotto-aiuto-garzone nel mattatoio della città. Il Direttore di quel delizioso laboratorio lo accolse senza raccomandazioni (allora in tempi più duri di quelli d'oggi questa forma di aiuto non usava) ma non avendo ben misurato il talento di questo promettente ragazzo, lo adibì alla pulizia dei pavimenti sporchi del sangue e dei precordi delle disgraziate bestie che ivi venivano immolate al servizio delle bestie così dette ragionevoli... che siamo noi. Ma a lungo andare questo sia pur utile lavoro cominciò a dar nei nervi di Spirindione che lo considerò una umiliazione alla sua intelligenza ragion per cui, dopo qualche tempo, si mise a rapporto col superiore beccaio chiedendo di essere trasferito ad altro incarico più dignitoso.

«E cioè?»  chiese il superiore.

«Mi faccia scannare….»

«Ragazzo mio ti farei scannare e magari anche spelare ma siccome mi sembra che tu abbi più dimestichezza con gli stracci che con il coltello, non mi sento di mettere nelle tue mani l'innocente agnello o il placido bue (era anche studioso di poesia il macellaio) me li faresti soffrir troppo ed io non posso veder soffrire le creature di Dio…» Perchè bisogna sapere che il beccaio era bensì un esperto " matador" e celebre sgozzatore di ogni sorta di animali grossi e piccoli ma era anche presidente onorario della società protettrice degli animali, un zoofilo zelante ed arrabbiato che se s'imbatteva di vedere un bifolco bastonare un paio di mucche era capacissimo di mescergli fior di cazzotti per insegnargli che alle bestie bisogna voler bene; ragion per cui alle insistenti richieste di Spirindione rispose con un "no" tanto fatto che provocò nel nostro giovane sdegnato di simile ripulsa (che mi si canzona? Si risponde così a un Sciapilon!) una tale reazione da costringerlo a rassegnare le dimissioni da impiegato del mattatoio. Il principale fece, come si suol dire, di necessita virtù, accettò le dimissioni non senza avergli rilasciato un "ben servito” di non so quanti pugni sulla testa che, attesa la solidità della medesima non fecero grande male al legittimo proprietario e per colmo di gentilezza gli diede anche la così detta "buona uscita" sotto forma di un poderoso calcio nei paraggi dell'ultima vertebra della spina dorsale che catapultò il ragazzo dalla porta del mattatoio nel bel mezzo della strada, che poco mancò non andasse a rompersi le costole sotto il carretto dello spazzaturaio che per l'appunto in quel momento ivi passava (più buonuscita di questa!).

Il nostro Spirindione non rimase a lungo disoccupato, perchè dopo breve lasso di tempo trovò da occuparsi, in qualità di apprendista, presso un vecchio cappellaio. «Non tutto il male vien per nuocere, diceva ai conoscenti, perchè vedete: al mattatoio quella bestia del macellaio mi dava due lire la settimana ed invece il mio nuovo padrone mi dà trentacinque bei soldoni ogni dieci giorni, che non so nemmeno come portali a casa da quanto pesano nelle tasche. (Non c'é bisogno ricordare che allora una lira valeva venti soldi). E cosi Sciapilon fu cappellaio e tale rimase per tutta la sua vita terrena. Il mestiere di cappellaio era allora sufficientemente redditizio per la chiara ragione che  a quei tempi l'uomo "sans capeau" non era in circolazione e nessuno che non fosse stato un barbiere o cameriere, avrebbe messo il naso sedici centimetri fuori la porta di casa se non si fosse calcato sulla cucurbitacea (nome scientifico che i botanici danno alla zucca) un qualsiasi copricapo. Sciapilon non si vantava di essere un cappellaio di classe (era molto modesto) lavorava sui cappelli della povera gente o di chi non guardava troppo per il sottile in fatto di eleganza cappelliera. E lasciamo per ora Spirindione; prendiamo per mano Rebecca e presentiamola. Fisicamente grassoccia, assai più larga che lunga, dicevano i nostri vecchi. Il ben di Dio di abbondante ciccia che si portava addosso cominciò a metterselo da bambina tanto che la madre vedendola ingrassare a vista d'occhio, diceva con le conoscenti:

«Rebecca me chioppa» (Un toscano di buone intenzioni avrebbe detto: "Rebecca mi schioppa"). E cosi venne fuori il soprannome di Mechioppa. Anch’essa rispondeva alla chiamata, "Mechioppa", perché quel nome Rebecca sapeva troppo di... rebescato. Non andò a scuola dato l'odio che la madre portava ai maestri e maestre che insegnano alla gioventù di scrivere lettere amorose. Imparò a fare i letti, spazzare la casa, far la polenta, filare la rocca e mangiare con le mani. A chi le chiedeva che mestiere facesse, rispondeva "sono una donna libera" per significare che non aveva un lavoro fisso. Anche Rebecca era un cervello semplicino, semplicino; non era troppo loquace e questo la raccomandava alla compagnia delle comari e in fatto di intelligenza "tabula rasa".

Fatte alla, meglio queste presentazioni veniamo ai fatti.

 

Quando Spirindione undicenne lanciò alla sua coetanea il gran siluro della dichiarazione amorosa non preparò l'evento con gli approcci allora in uso, che persone di alto affare chiamavano e chiamano ancora "far la corte" e gente alla buona chiamava "far la rota", ma trovandosi un giorno in non so quale congiuntura viso a viso con Rebecca (siete pregati di non prendere alla lettera quel "viso a viso" perchè in effetti tra un viso e l'altro correvano due buoni metri di distanza come la morale corrente voleva) intavolò alla ben meglio, una innocente quanto insulsa conversazione sul tempo che ero perfido non dimenticando di lamentare insieme che lì nei loro posti,

                non c'é un conforto

piove, o tira vento o suona a morto,

poi da un discorso all'altro passarono a commentare allegramente il "fatto del giorno", cioè una baruffa che si era svolta proprio quella mattina tra la serva del Maresciallo dei Carabinieri e un'erbivendola, avendo quella gratificato questa del titolo di "ladra" ed avendo questa risposto:

«Te ladra a me? io spia a te!»

Dopo questi convenevoli le inviperite pettegole si erano messe le nervosette ed unghiute mani nelle reciproche scompigliate chiome e, tira te che tiro anch'io, con accompagnamento di urla, improperi, ingiurie, graffi, calci, sgambetti dinnanzi il rispettabile pubblico,che si divertiva un mondo e a poco prezzo a quello improvviso spettacolo, composto di serve, di cuochi, di mercanti, di oziosi. (Io mi chiedo perchè quando vengono alle mani gli uomini la gente si fa seria, si impaurisce ed i più arditi cercano di separare i contendenti tentando di metter pace, mentre quando baruffano le donne la gente ci si diverte un mondo e lascia fare. Forse perchè dai discorsi arrabbiati delle donne si impara un po' di storia delle medesime e ci si arricchisce il vocabolario mentale di parole parlamentari e utili a sapersi.) Poi ritornando alla conversazione dei nostri giovani lui passò a descrivere il matrimonio celebratosi la sera prima fra due maturi vedovi dall'età a un dipresso da nozze di diamante, festa rallegrata da da una fantastica arrabbiata serenata a suon di bidoni vecchi, di padelle rotte, barattoli d'ogni genere, cui non mancò di quando in quando nemmeno

 il rauco suon della tartarea tromba;

una scampanata, insomma, in piena regola che si protrasse fino alle o ore piccole e che per farla cessare ce ne vollero dei fiaschi di vino per ubriacare i professori d’orchestra i quali, quando non ebbero più sete, se ne ritornarono alle loro case lasciando gl'istrumenti a disposizione degli spazzini comunali. Questo avvenimento diede la stura ai nostri giovani di biasimare questi sistemi di mettere in ridicolo e togliere la pace a due che si sposano vecchi, perchè, diceva lei, "che c'entra l'età quando ci si vuol bene?"

«Precisamente, rafforzò lui, quando ci si vuol bene… A proposito. signorina Rebecca sa che io le voglio bene?»

Ma che coraggio però ha avuto quel diavolo d'un Sciapilon! Non meno coraggiosa si è mostrata la ragazza rispondendo:

«E io pure a Lei signor Spirindione».

E Spirindione fatto ormai ardito e sicuro da tale corrispondenza d'amorosi sensi sbottò:

«Vuol fare all'amore con me Rebecchina del mio cuore?»

«Beh! faccia lei Spirindione caro».

Fu la risposta che Rebecchina del mio cuore diede a lui facendosi rossa rossa di emozione e dondolando il voluminoso giovane corpo come le servette dell'operetta. Le campane di Corneville quando cantano nel mercato delle serve

Guardate un po' di qua e di là

Siam di prima qualità.

E così l'amore fra i nostri due originali, se non divampò addirittura, ebbe il suo inizio per durare come ho detto quarantacinque lunghi anni. Ufficialmente non si fidanzarono mai perchè lui, per uno dei tratti della sua originalità, non fece mai ai genitori di lei, come di prescrizione, la dovuta richiesta, nè lei, per non star da meno di lui in fatto di originalità, tentò sollecitarlo. E del resto ai genitori di Rebecca poco interessavano gli amori della figlia bastava che i ragazzi non stessero soli e non facessero, come essi dicevano, cose che non si debbono fare. (Quali poi? vattelappesca!) Questi genitori morirono presto lasciando Mechioppa alle cure di una sorella maggiore che anch'essa, nubile e più attempata, poco si curava degli amori della sorella.

E come procedevano questi amori? Ve lo dirò in breve ed anche da questo potrete misurare il grado di intelligenza dei nostri personaggi. Tutte le sere che aveva fatto il Signore e per la bellezza di quasi mezzo secolo essa lo aspettava affacciata all'unica finestra del paterno ostello che dava in un vicolo stretto illuminato da un lampione a petrolio (della illuminazione elettrica allora non se ne parlava o si diceva che c'era solamente a Roma, ma la gente che non era stata nella capitale non ci credeva che con i fili si potesse fare la luma) coi gomiti appoggiati sul davanzale e le mani giunte recitando qualche orazione. Il fidanzato con cronometrica precisione arrivava al convegno alle nove in punto a qualunque stagione e, giunto sotto il davanzale, prorompeva in un:

«Felice sera Rebecchina mia». E lei:

«Altrettanto a voi Spirindione del mio cuore. Come state?»

E lui rispondeva: «Bene quando vi vedo»  Se però il lampione era spento per una delle solite distrazioni del lampionaio che invece di versare petrolio nella lampada pubblica lo aveva versato in quella della sua casa, così variava la risposta:

«Bene quando vi sento»

Poi lui meccanicamente e per forza d'abitudine estraeva dalle sue profonde tasche la sua pipa, una pipa veramente monumentale e dalla quale mai si separava dato che era l'unico cimelio della sua famiglia, si stropicciava per bene lo zolfanello contro il calzone destro alzando elegantemente la gamba a mo' di un cane quando... ci siamo intesi, beh! accendeva il tabacco e fumando, fumando lui e recitando mentalmente qualche devozione lei, facevano, come si suol dire le undici, ora in cui il muto convegno doveva aver fine. Quando il martello dell'oz&Logio aveva battuto l'undicesimo colpo lui spegneva la pipa, o meglio la passava dalla bocca alla tasca dato che era spenta da un pezzo e:

«Felice notte Rebecchina mia».

«Altrettanto a voi Spirindione del mio cuore».

E questo i nostri originali lo chiamavano far all'amore. Una venticinquina di parole ogni sera. Non erano molte per due innamorati, d'accodo, ma se voi pensate che le sere erano normalmente, anche allora, trecentosessantacinque ogni anno e gli anni d'amore furono cinquanta con due non complicate moltiplicazioni arriverete quasi al mezzo milione di parole. Domando: Quante sono quelle coppie di innamorati che tante se ne sono dette nel loro idillio pre-matrimoniale? Erano sempre quelle è vero ma, infine, chi non sa che il vocabolario degli innamorati non è eccessivamente variato? e che in ogni convegno d'amore, gira rigira si ripetono sempre le stesse cose?

Nei primi anni i due fidanzati furono oggetto di scherzo, poi passarono al ruolo di "istituzione cittadina" ed infine, coll'andar degli anni, nessuno più si interessò di loro, tranne qualche nottambulo che abitava in quei pareggi e vedendoli lì nel ritornare a casa diceva fra se:

«Meno male ancora non sono le undici e non sentirò urli da mia moglie» Oppure non vedendoli: «Uhi! non ci son più; è tardi; stasera sì che mia moglie va in bestia!»

Nel mezzo secolo di loro, diremo così, servizio sentimentale non ci furono dissensi, non conobbero dove stesse di casa la gelosia, e nemmeno ci furono incidenti... Qualche diversivo correva nella bocca di tutti; non so se vero o inventato da qualche scanzonata linguaccia di piazza. Si diceva, per esempio, che in una di quelle serate in cui il distratto lampionaio aveva lasciato il vicolo nel buio più completo (tutte le sere qualche lampione cittadino era spento ora in questa ora in quella contrada, cosa del resto che avviene anche oggi con tanto di luce elettrica) Spirindione non avendo ricevuto al consueto saluto il soave ricambio, sciolse lo scilinguagnolo e chiese:

«Siete scialata? (afona in buon italiano ma lui non era obbligato ad usare la lingua di Dante)»

Silenzio perfetto perchè infatti Rebecca era sì afona ma curavasi il raffreddore nel letto, mentre l'innamorato giù nella strada volgeva i suoi occhi imploranti al verone dove vedeva pure al solito posto un'ombra vaga che data l'oscurità non poteva individuare, ma che, secondo lui, non poteva essere, diamine!, che la Rebecchina del suo cuore ed invece era un vaso (crediamo di fiori) che non era sta stato ritirato. Poi egli si mise nel solito atteggiamento a fumare fino alle undici congedandosi con i soliti convenevoli aggiungendo:

«Curatevi bene Rebecchina del mio cuore».

Quella sera Sciapilon aveva amoreggiato con un vaso di fiori e per lui fece lo stesso.

Un'altra sera l'orologio non suonò per un guasto al congegno e i due non sentendo suonare le undici stettero lì più del solito, molto di più (l'amore fa passar bene anche il tempo più lungo) fino a che le prime luci dell'alba non li fece avvertiti che il tempo prescritto era passato da un pezzo.

Un'altra sera, e precisamente durante un convegno, la campana civica avvertì che era scoppiato un incendio e siccome in loco non c'erano pompieri, era un dovere per i cittadini accorrere e adoperarsi per lo spegnimento. Spirindione non volle stare indietro, piantò la sua Rebecchina e corse dove periglio il chiamava dopo essersi armato, non si sa come, di uno scaldino che riempì d'acqua nella fontana vicina e, a suo dire, con quel getto l'incendio fu domato e buona sera a tutti. Aveva perduto sì un'ora  o una serata d'amore, ma si era acquistata una grande benemerenza civica tanto che un gruppo di allegri cittadini lo decorarono di una medaglia di legno compensato ed un diploma in un vecchio cartone. E lui prese, com'era giusto, la cosa tanto in serio che da una cornice vecchia tolse e stracciò l'immagine della Madonna di Loreto e vi collocò la decorazione con grave disappunto da parte della vecchia madre. Ebbe un "bravo" anche dalla sua Rebecchina che lo perdonò anche di averla piantata in asso, prima delle undici, la sera del sinistro.

E vi faccio grazia degli altri episodi che passavano di bocca in bocca ma tutti inventati. A questo punto occorre aprire una parentesi per rispondere ad una domanda di qualche giovane:

«Di grazia, si potrebbe sapere in quali tempi risalgono questi fatti? Che tempi erano quelli in cui si faceva all'amore stando uno alla finestra e l'altro alla strada? Che fra fidanzati ci si dava del "voi" fra giovani del "lei"? Perchè gli uomini portavano il cappello anche d'estate? Perchè le strade erano illuminate coi lampioni a petrolio? Soddisfiamo a tutte queste domande. I casi dei nostri personaggi si svolsero quando quei giullari del popolo, che erano e sono tuttavia i cantastorie, cantavano nelle piazze, nei crocicchi, nei mercati dove insomma era possibile radunar gente con questa filastrocca che io ho ancor viva nella memoria e che stampata in fogli colorati si vendeva a due centesimi cadauna e tre per un soldo:

Il secolo presente già ci lascia

Il millenovecento si avvicina

La fame l'abbiam dipinta sulla faccia

Per guarir ci vuol la medicina

Col progresso e colla scienza

Si fa tutti penitenza

Questi braccianti

Li manderemo a spaaso tutti quanti.

( e non finiva qui).

Adunque verso la fine del secolo scorso, la canzone come avete letto era a sfondo sociale e ricordo che andava a ruba malgrado il prezzo allora elevatino. Due solennissimi centesimi! Era il tempo in cui gli operai che facevano quasi la fame, guardavano con terrore l'ingresso delle macchine nelle fabbriche che riducevano la mano d’opera  In quanto all'amore di quei tempi, se nel contenuto sentimentale era pressappoco quello d’oggi, nella prassi era, scusate l’espressione, un altro paia di maniche; per esempio non era consentito ai morosi le libere e, diremo così, pubbliche espansioni oggi in uso. E poi prima di mettersi a far all’amore sarebbe stata libertà un po' ardita darsi del "tu". Tra giovani di sesso diverso ci si usava il "lei" ed al "tu" ci si arrivava quando si facevano le cose per bene vale a dire col "nulla osta” dei genitori. Poi i fidanzati andavano a passeggio ai lati della mamma di lei e spesso con un codazzo di parenti e amici; sistema sicuro per non mettersi nelle condizioni o nelle tentazioni di far discorsi, diremo così, sovversivi... E chiudiamo la parentesi e ritorniamo ai nostri personaggi.

 

Ho detto che dapprima per il loro contegno erano oggetto di risa, poi diventarono "istituzione cittadina", infine nessuno più si occupava dei fattacci loro. Si riparlò di loro in tutte le case nelle osterie, nei ritrovi quando si iniziò la seconda metà del secolo (XIX) del loro amore quando cioè scoppiò la bomba delle pubblicazioni del loro matrimonio comparse all'albo del municipio e nella porta della chiesa della parrocchia. Tutti caddero dalle nuvole. Dopo cinquant'anni e sessantacinque dei medesimi in cuore! Ma, Dio benedetto! come ci si erano decisi? Ve lo dico subito. Vi ho detto prima che il nostro Sciapilon viveva con la madre - il padre l'aveva perduto da ragazzo. La buona mite laboriosa donnetta  col passare degli anni era divenuta bisbetica e noiosetta. Lui, da buon figliolo, cercava come poteva di circondarla di tutte le possibili cure e si studiava di nulla farle mancare, tollerando i materni brontolii che diventavano,col passare degli anni, sempre più insistenti e pesantucci. Ma quando anche lui entrò nella vecchiaia perdette la giovanile pazienza e cominciò a reagire in forma sia pure non violenta ma tanto da provocare sfoghi e pianti dall'altra parte.

«Ah questi figlioli! questi figlioli! come ciurlano nel manico! - diceva la vecchietta con le poche amiche che aveva - Quel monello (il monello era Spirindione sessantenne) mi fa troppo inquietare, non mi ubbidisce, e poi so che va tutte le sere in un vicolo a far l'amore con una Mechioppa, (poveretta si era accorta troppo tardi!), mi perde il timor di Dio perche, mi hanno detto, che va alla messa solamente due volte la settimana e tempo fa ha stracciato la Madonnina di Loreto. Ih! se fossi più giovane ma sai le sculacciate che gli darei! Ma sono vecchia e lui ne approfitta. Quello mi accorcia vent'anni di vita!»

E quando la vecchietta cosi diceva aveva già novantasei anni e proprio per questa ragione, più che per il dispiaceri del figlio,  che un brutto giorno lo lasciò orfano e solo. Pensate: orfano a sessantacinque anni! Spirindione la pianse amaramente e, quando si vide solo nel domestico focolare, cominciò a pensare seriamente ai fatti suoi e a domandarsi se non era il caso di surrogare nel governo della casa la compianta mamma con l'amata "Rebecchina mia" e non essendoglisi presentata nessuna obiezione così decise di fare. Ed una sera (memorabile sera!) dopo i soliti convenevoli in tal guisa parlò alla morosa:

«Che direste Rebecchina mia se noi ci sposassimo?» E lei di riman do:

«Direi fate voi!»

E fece lui: fece cioè il puro necessario per la bisogna guidato da un suo parente il quale, avendo preso quattro mogli (una dietro l'altra, beninteso!) la sapeva lunga in questa materia. Cavò, come si usa dire, le carte, diede un'accomodata alla casa studiandosi di rimodernarla, rinnovò il letto matrimoniale sostituendo i trespoli che sostenevano il pagliericcio, con una lettiera di ferro che trovò da acquistare di seconda mano per ventiquattro soldi, rinnovò le foglie del pagliericcio che potevano avere un secolo di lodevole servizio, fece insomma quanto potè per rendere tutto il più accogliente possibile e una sera il promesso sposo, dato che ormai tutto era in perfettissimo ordine, avvertì la promessa che l'indomani verso le cinque pomeridiane si fosse trovata pronta con la gonna delle feste che sarebbe andata a prenderla per sposare in Municipio, che in chiesa si sarebbe andati il domani mattina. Il giorno appresso infatti mentre Spirindione stava lavorando intorno ad un cappello di feltro suonarono le cinque e lui levatosi il grembiule di fatica, indossa la giacca usuale, fila in piazza dove lo attende il parente, quello delle quattro mogli, poi insieme imboccano la via della casa della sposa e per la prima volta dopo mezzo secolo e dall'oscuro umido andito gli si fé incontro pari pari la Rebecchina e dietro lei la sorella e il gruppetto si dirige verso l'ostel [1] di città" infila il portone, sale le scale che menano all'ufficio delle cerimonie. Da un usciere grave e compassato sono introdotti in una stanzaccia dove c'é un bancone che farebbe pessima figura in una bottega di un rigattiere, un cassapanco dei tempi della buonanima di Noè e sedie così tarlate da presentare qualche pericolo per chi voleva usarle. Fortuna che in quell'ufficio si doveva stare tutti all'in piedi che le sedie erano fatte per decorazione... Poco dopo entra il signor sindaco con tanto di sciarpa tricolore che gli attorcigliava l'abbondante epe e seguito da uno scalcinato impiegato che reggeva vecchi registri e la cerimonia ha inizio. Domanda sacramentale a ciascuno se erano contenti di ricevere ecc. ecc. Risponde Spirindione:

«Lei crede che sarei venuto qui se non fossi contento di sposare…»

«Rispondi si o no e non commentare - ammonisce il severo magistrato»

«Si, si, si…»

«Basta vivadio! - e rivolgendosi a lei - e voi?»

Rebecca risponde con un solo "si" ma un "si" che pare un sibilo di un fischietto da chiamar le passere, atteso il fatto che le mancavano alcuni denti incisivi. Questo "si" che da mezzo secolo si aggirarono nei corpi degli "oggi sposi" finalmente avevano trovato la via d'uscita. Il magistrato sindaco li unisce in matrimonio legale e legge loro gli articoli del codice civile dei quali gli sposi non capirono un acca ma non fa niente: sono sposi e questo è tutto. Il sindaco vuol anche dire due parole d'augurio che nelle intenzioni dell'oratore volevano significare "Meglio tardi che mai" ma il sugo era "Meglio mai che tardi..." Poi si passa alla firma degli atti da parte dei personaggi presenti. Rebecca che, come abbiamo detto, era illetterata appose una bella Croce in calce all'atto, ma Spirindione lui no, lui firmò perchè la sua firma la sapeva fare e preso da zelo aggiunse anche una croce.

«Ma che ti salta in mente di far la croce, dice accigliato il Sindaco se hai già firmato?»

«L'ho fatta perchè mio padre buonanima quando una cosa non la voleva far più soleva dire: ci faccio una croce ed io faccio lo stesso, perchè questa è la prima e l'ultima volta che mi sposo». parole che provocarono un sorriso di riconoscenza da parte della sposina. La cerimonia è finita e sposi, testimoni e impiegato scalcinato si portano in una certa osteria dove oltre al vino buono si gustavano certi manicaretti da leccarsi anche le dita. La cena fu un piatto di lenticchie con lo stoccafisso in brodetto; specialità della ditta.

Lo sposalizio mancava del Sacramento di nostra santa Religione e questo fu fatto la mattina dopo per bocca del parroco durante la messa. Ora i nostri personaggi sono veramente a posto. Avevano, sì sessantacinque per uno ma chi non sa che il cuore non invecchia? Si dice che appunto per l'affare dell'età qualcuno aveva proposto la scampanata ma prevalse il buon senso dei più che non solo la evitò, ma a mezzo di un violinista e un chitarrista del posto si andò a suonare sotto le finestre degli sposini la "marcia nuziale" e il 1° passo del Trovatore:

Ah si ben mio coll'essere

Io tuo tu mia consorte.

Parentisi: Ricordiamo ai giovani che prima della conciliazione della Chiesa con lo stato italiano lo sposalizio si faceva normalmente in due distinte cerimonie: quella civile davanti al Sindaco, Ufficiale dello Stato Civile, e quella religiosa davanti il Parroco. Qualcuno, i detti liberi pensatori o atei facevano solo il matrimonio civile, si mettevano così in regola con la legge ma non altrettanto con Dio, perchè per la Chiesa erano sempre dei concubini. Altri per ragioni varie (le vedove per esempio per non perdere la pensione del marito) facevano solo quello religioso, ma non erano in regola con la legge; i più facevano l'uno e l'altro e... amici con tutti).

Dopo il rito religioso la sposa è accompagnata dalla sorella nella casa dello sposo e lasciati finalmente soli. (I viaggi di nozze allora erano rari riservati ai signori) Sorvolo sulle insignificanti vicende del restante della giornata e vengo all'ora di andare a letto. Ohè! Ohè! non disponete il viso ad ascoltare piccanti notizie; solo vi dico che quando Spirindione condusse la sposa nella camera da letto essa non volle saperne di coricarsi con lui. Le sembrava uno scandalo e poi… si vergognava; diede in ismanie da mettere a dura prova la pazienza di lui, e tante furono le ripulse della timorata Rebecca malgrado egli con facili argomenti le facesse comprendere che così si doveva fare, che così fan tutti, alla fine il povero sposo trovatosi vinto da questa singolare tenzone trovò consiglio migliore accompagnare la vergognosa pudica sposa nella sua camera da scapolo che non aveva subito cambiamento alcuno, ivi lasciandola con uno strascicato e quasi arrabbiato "buona notte" e il talamo fu inaugurato da lui solo.

Gioco (scommetto) che chi legge questa roba non crede nulla di questa vicenda, perchè pare impossibile che… Sì pare impossibile ma io posso assicurarvi che è la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità e se non volete credermi padronissimi; io continuo lo stesso anzi posso dire che vengo all’epilogo; purtroppo un epilogo non lieto, perchè se l'amore di Spirindione Sciapilon e Rebecca Mechioppa, Dio li abbia in gloria, durò cinquantanni (quarantasei) la loro unione matrimoniale durò, ahimè!, cinquanta giorni (quarantasei); e mi dispiace di volgere questa curiosa storiella al tragico ma la verità storica lo esige.

Dunque veniamo all'epilogo e il più rapidamente possibile.

  

Per più di un mese le cose in casa Sciapilon restarono allo status quo, vale a dire come il primo giorno, in fatto di rapporti di rapporti coniugali. Per il resto la vita dei maturi sposi procedeva relativamente tranquilla. Lei pensava al governo della casa e con grande soddisfazione dello sposo e sua e si trovava tranquilla perchè lui gli aveva lasciato carta bianca e non toccò più lo spinoso argomento del letto comune; e poi lui stesso si sentiva a suo agio perchè trovava in casa tutto ciò, che gli abbisognava e niente brontolìi, niente piagnistei come ai tempi della madre ma buone parole, pochine anche quelle, e cure, attenzioni e comodità. Che si voleva di più? Erano due buoni Taddeo e Veneranda. Chi ruppe le uova nel paniere fu una conoscente di lei la quale incontrata una mattina Rebecca mentre usciva dalla prima messa dopo i saluti e convenevoli le chiese (ma che ficcanasa neh?) qualche notizia della sua nuova vita e quando riuscì a cavarle di bocca che i due dormivano da soli fece tanti versi, tante esclamazioni fino ad intontirla e quando la povera sposa confessò che la causa della separazione di letto era stata essa stessa esclamò:

«Ma non capisci disgraziata che oltre a tutto commetti un peccato. Già, sei stata sempre una cretinetta e lo sarai anche per morire. E la piantò in asso in mezzo la strada. (Bel modo di fare con una donna che apre il cuore alla confidenza!). La povera Mechioppa se non scoppiò in qual momento fu un vero miracolo.

«Ho commesso davvero un gran peccato?»

Volle sincerarsi subito e ritornata sui suoi passi rientrò in chiesa, cercò del suo confessore lo trovò in sacristia e in piedi in piedi le disse tutto e dell'amica che le aveva messo lo scrupolo del peccato. Il prete se la cavò con poche parole:

«Peccato o no tu devi andare a letto con tuo marito; alla vostra età perlomeno direte il Rosario insieme...»

a poveretta ritornò in casa mesta e pentita

«Se lo dice lui é segno che bisognerà far così».

E la sera tentò di far così. Datosi reciprocamente la buona notte i due sposi si separarono come le altre sere ma lei pensa di affrontare immediatamente la situazione ed andare dal marito. Infatti scende dal letto si copre con un qualunque indumento abbandonato sulla seggiola ed attraversa un terrazzino rustico che separa le due camere. Ma quando è davanti la porta della stanza dove sente il marito che russa come un contrabbasso è presa da un vago timore è indecisa, titubante e non riesce a farsi forza di bussare. Torna indietro, poi ritenta ma con lo stesso esito della prima volta. E così la manovra si ripete per parecchie fiate finche stanca, avvilita arrabbiata con se stessa decide di rimandare l’impresa a domani sera. Ma poiché si era in inverno e l'aria era umida e fredda, malgrado non ci fosse la neve, quel]e passeggiatine nel terrazzino e in abito discinto le procurarono una febbrona foriera di una buona polmonite che non tardò a svilupparsi. Spirindione fu allarmato e chiamò il medico. Allora non si parlava, si capisce, di penicillina e la cura era affidata a sanguisughe aiutate da coppette, cataplasmi e simili graziosi ingredienti che non sortirono effetto alcuno e, per non allurgarvela più del bisogno, vi dirò che dopo otto giorni la povera, semplice, eroica Rebecca rese l'anima a Dio fra le braccia del desolato fedele sposo. Spirindione non fece scenate di disperazione; non si fece vedere nemmeno a piangere ma l'accompagnò al cimitero oppresso da un duolo immenso e nel lasciarla ebbe le forza di dire:

«Arrivederci, Rebecchina mia».

Non seppe dir altro. Nella deserta casa che per una cinquantina di giorni conobbe le delizie della felicità e dell'amore non trovò che la disperazione della solitudine. Qualche giorno dopo colpito da infarto anche lui chiuse gli occhi.

I buoni semplicioni furono compianti dai concittadini, malgrado la stravaganza della loro vita, per la tenacia dei loro affetti e la semplicità che misero nel loro amore. C'è nella loro città chi li conobbe quando era fanciullo: io per esempio.


 

[1] Ostel di Città ha il significato di Residenza Comunale

 

 

 

 

ETERNI FIDANZATI

[Edizione N° 5 del Fondo Santini

 

Mi piace in questi ricordi della mia fanciullezza, ricordare una coppia da potersi "benissimo inserire fra i tipi originali di Urbino del ventennio 1890 - 1910 che però non vissero in tutto il ventennio anzi di questi anni ne vissero solamente due perché se ben ricordo lasciarono questa "valle di lagrime" intorno al 1892. Vedo di essi le loro pallide fisionomie, perchè erano dei lontani miei parenti. Parentele, ripeto un po' lontanucce come potete giudicare voi che leggete: lui era fratello di un cugino del mio nonno paterno e lei figlia di una nipote della sorella della mia nonna Tilde.

 

Quando SPIRINDIONE SCIAPILON e SILFAROSA MECHIOPPA si misero ad amoreggiare, avevano entrambi diciotto anni; quando si sposarono ne avevano sessantacinque; dal che è facile dedurre che amoreggiarono quasi mezzo secolo; un primate da pochi raggiunto, credo bene. Li presento senz'altro.

 

Lui SPIRINDIONE SCIAPILON (Sciapilon non era il suo cognome ma un volgarissimo soprannome affiliatogli dal padre, quand'era ragazzo in grazia della sua grulleria (che era abbastanza robusta). Da piccolo era un "piagnone" a prova di bomba e tontarello che non prometteva gran che per il suo avvenire. A quattro anni cominciò a balbettare la prima parola ,"pappa". A cinque anni chiamava già,"babo e mama". A sei anni fece il suo solenne ingresso nella scuola elementare trascinatovi uno per braccio dai genitori e con le spinte nella schiena dalla nonna, come si farebbe in un mattatoio per farvi accomodare un suino che intuisce la sua fine. Superato il disagio dei primi giorni, Sciapilon si affezionò talmente alla sua maestra di prima da ripeterterla dieci anni e lasciarla, in segno di lutto, per la morte della sua benemerita educatrice, dopo aver imparato a menadito le cinque vocali, sei consonanti e i numeri fino a dieci.

Abbandonati gli studi, aveva già sedici anni, pensò di darsi ad un lavoro che gli permettesse di far lavorare anche il suo stomaco e quello della madre (il babbo gli era morto investito da un somaro) e trovò infatti di che occuparsi in un lavoro dignitoso e ben rimunerato. Fu assunto come sotto aiuto-garzone nel mattatoio della città per dodici soldi la settimana. Il direttore di quel delizioso laboratorio non avendo ben misurato i talenti di un così promettente giovinotto che conosceva già dieci lettere dell'alfabeto e i primi dieci numeri aritmetici lo adibì alla pulizia dei pavimenti, da praticarsi ginocchioni con uno straccio in mano, del sangue e dei precordi delle disgraziate bestie ivi sacrificate per la delizia dei nostri palati. Ma a lungo andare questo banale lavoro cominciò a stancare e disgustare il nostro Sciapilon considerando la sua attività troppo umiliante, per chi,  come lui, sapeva leggere scrivere e far di conto talché dopo cinque mesi di quel lavoro si mise a rapporto col principale chiedendo di essere promosso ad un lavoro più dignitoso, più serio da disbrigarli all’in piedi con aumento di due soldi la settimana. E il principale sempre insensibile alle belle qualità del suo soggetto gli chiese:

«Che cosa ti debbo far fare?»

«Mi faccia.... scannare!» rispose con un sussiego forzato Sciapilon.

Rispose bonario il superiore:

«Ragazzo mio, ti farei scannare volentieri e anche pelare ma mi sembra che tu sappia meglio maneggiare uno strofinaccio che un coltello perciò non mi sento di mettere nelle tue mani l’innocente agnella, il placido bue (anche poeta quel beccaio) me li faresti soffrir troppo e non vorrei si ripetesse il fatto della "veneziana" (soprannome di un garzone macellaio) che avendo pelato per metà un povero castrato si accorse che non era morto; non l’aveva scannato bene! No no; tu seguita a pulire i pavimenti e ringrazia Dio che ti tenga qui». Perché bisogna sapere che questo emerito beccaio esperto "matadore" (con le bestie ben legate) era anche il presidente della società -protettrice degli animali, che aveva per l'appunto la sua sede presso la direzione del mattatoio. Uno zoofilo zelante e sentimentale che se si imbatteva in un bifolco intento a randellare un paia di buoi attaccati ad un carro agricolo capacissimo di prendergli di mano il randello e adoperarglielo sulla schiena e se del caso anche sulla testa.

«Perchè mio caro Sciapilon io, pur facendo questo ingrato mestiere, amo molto le bestie e soffro persino se vedo un topo in bocca ad un gatto e voglio che i lavoranti di questo mattatoio non facciano soffrir troppo le bestie che debbono, purtroppo, abbattere. Debbono, povere creature soffrire quel poco che è necessario per morire. Di te non mi fido. Pulisci e seguita a pulirli bene i pavimenti che sono insensibili al... dolore».

Sciapilon sdegnato alla ripulsa della sua richiesta, rassegnò seduta stante le dimissioni da... impiegato del mattatoio. Il principale non disse verbo anzi si limitò a rilasciargli seduta stante un ben servito sotto forma di due poderosi schiaffoni e spinse la sua gentilezza fino a liquidargli una specie di "buonuscita" con un poderoso calcio nei paraggi dell'ultima vertebra della spina dorsale che catapultò Sciapilon dalla porta del mattatoio al bel mezzo della strada. Poco mancò che il giovinotto non andasse a rompere le costole sotto il carretto dello spazzino che per l'appunto in quel momenti di lì passava. Una " ‘buonuscita” "buona assai!

Il nostro ragazzotto per sua buona stella, non rimase disoccupato a lungo perché dopo breve lasso di tempo trovò da occuparsi in qualità di apprendista presso un vecchio cappellaio della città e Sciapilon ne fu oltremodo contento perché al mattatoio, diceva , quella bestia de "Bombon" (il macellaio zoofilo) mi dava dodici soldi la settimana mentre il nuovo padrone mi dà una lira al mese, e mi ha perfino promesso che se mi comporterò bene mi porterà alla paga di cinquanta soldi (pensate cinquanta soldi!) ogni due mesi, più quattro soldi a Natale e Pasqua a, titolo di "buone feste". Aritmetica alla Sciapilon! Eppure con questi lauti guadagni e facendo qualche economia riuscì a prelevare, alla morte del suo principale, a prelevare la cappelleria. Così il nostro Spirindione fu "cappellaio" vita natural durante.

Fu un cappellaio alla buona ma i suoi clienti erano tutta gente che non guardava tanto per il sottile in fatto di moda cappelliera. Il mestiere era allora sufficientemente redditizio, per la semplice ragione che quei tempi e mi sembra di averlo detto in altra parte di questo scritto, nessun uomo e nemmeno nessun ragazzo avrebbe messo il naso quindici centimetri fuori della, porta se non si fosse coperto il capo di un cappello floscio o a cilindro o a bombetta o di un semplice berretto. Poi il nostro uomo volle perfezionarsi in fatto di cultura frequentando una scuola serale dove completò l'apprendimento delle lettere dell'alfabeto e il loro significato e uso e si fece più pronto nelle operazioni aritmetiche per liquidar bene i conti coi clienti. La sola divisione non gli entrò in testa ma con lui c'era poco da.... dividere!

 

Ma mi sembra sia ora di passare a parlare dell'altro personaggio: SILFA ROSA MECHIOPPA; Mechioppa, il solito il soprannome. Grassoccia e belloccia. Il ben di Dio di abbondante ciccia che copriva il suo dondolante corpo cominciò a metterselo addosso fin da bambina, tanto che la sua mamma, impensierita di quel precoce ingrassamento, soleva dire con le amiche "Silfarosa me chioppa, volendo significare in buon italiano "Silfarosa mi scoppia". E così saltò fuori il soprannome di "Mechioppa". Era analfabeta perchè la madre, una donna molto all'antica, non volle mandarla mai a scuola dove diceva: "Là vi si impara alle ragazze a scrivere le lettere amorose ai loro amanti". E le insegnò essa stessa a leggere le preghiere del libro dalla messa della grandezza quasi di un messale che portava appena una decina di parole per pagina tanto le lettere erano grandi; gli insegnò però a spazzare la casa, fare i letti, a cucinare polenta e patate, a filare la rocca; cose, diceva la furba mamma, ben più utili che il "bi-a-ba". A chi chiedeva a Mechioppa che mestiere volesse fare oltre la donna di casa, rispondeva che non voleva imparare nessun mestiere, perchè voleva fare la "donna... libera". Malgrado la sua ignoranza semplicità e grulleria prometteva davvero di diventare una discreta donna di casa. Parlava poco e questa virtù la raccomandava alla benevolenza dei conoscenti.

Le famiglie dei due sopradescritti personaggi si conoscevano bene.

 

 

RAPIDO INIZIO DI UN LUNGO IDILIO.

 

Quando Sciapilon lanciò alla sua robusta Mechioppa dichiarazione d'amore, non preparata, come invece si usava allora, dagli approcci che persone di altro affare chiamavano "far la corte” e gente alla buona diceva "far la rota", aveva, ho detto, diciotto anni e lei ne aveva tre mesi di meno (si sa che la donna dev'essere sempre più giovane). L’evento nacque lì per lì. Incontratisi un giorno casualmente, si fermarono e a viso a viso ( da non prendersi alla lettera quel viso a viso, perché in effetti tra l'uno e l'altro viso correva pudicamente un buon metro di distanza come la morale allora corrente esigeva) e sempre viso a viso cominciarono a parlottare fra loro, chiedendosi reciproche notizie e quelle delle rispettive famiglie. Lui più loquace di lei (ma non molto) prendendo lo spunto dal vento che tirava al Pincio, dove i due si erano incontrati, declamò i famosi versi marchigiani che venivano adattati a tutte le città della nostra regione:

A Urbino non c'é un conforto

O piove o tira il vento o suona a morto.

(Si sa che le osservazioni meteorologiche sono state sempre l'avvio alle conversazioni inutili). Poi lui passò a descrivere, a brillanti colori una clamorosa baruffa che si era svolta la mattina in pescheria tra la serva del maresciallo dei carabinieri che aveva decorato del titolo di "ladra" una pescivendola e quest'ultima le aveva risposto per le rime ed in questi precisi termini:

«Te ledra ma me? I' spia ma te! (tu ladra a me? io spia a te!) dopo di che le due Erinni passarono a vie di fatto; la definita "spia" mise le unghiute mani nelle scompigliate chiome della "ladra" e tira te che tiro anch'io con accompagnamento musicale di urli ad altissime note improperi e legittime ingiurie e scoperte di reciproci altarini e la "spia" a dire alla "ladra" che se la intende con "Pasticc" e la ladra a ribattere che lei con la roba sua (non alludava al pesce) faceva quel che le pareva e poi pugni e calci fino a buttarsi a terra e dare così un saggio di lotta greco-romana dinnanzi al colto e rispettabile pubblico composto di serve, di cuochi, di pescivendoli che si divertivano un mondo anche perchè nella tenzone, se lavoravano le braccia, lavoravano mettendosi allo scoperto anche le gambe… Poi Sciapilon passò a raccontare quel che avvenne in Via Landron Grande in occasione del matrimonio di due maturi vedovi di età a un dipresso di nozze di diamante, festeggiato con una fantastica arrabbiata serenata sotto le finestre degli sposini a suon di bidoni vecchi, di padelle rotte di casseruole fuori uso, cui non mancava nemmeno a misurati intervalli il "rauco suon della tartarea tromba" insomma una "scampanata" in piena regola che ce ne vollero dei fiaschi di vino per farla cessare!

«E perchè mettere in ridicolo due che si vogliono bene e si sposano anche se vecchi?» protestò Silfarosa.

«E' quello che dico anch'io; quando ci si vuol bene e non si è sposati, ci si deve sposare - sentenziò Sciapilon - A proposito sa, o Silfarosa, che lei mi piace? Vuol fare l'amore con me?»

«Faccia lei!» l'asciutta significativa, risposta, che la Mechioppa diede al suo spasimante facendosi rossa, come un peperone e dondolando il voluminoso corpo come le servette della vecchia operetta "Le campane di Corneville" quando cantano nel mercato delle serve:

Guardate un po' di qua e di la.

Siam, di prima qualità.

E così l'amore fra i nostri due personaggi ebbe il suo inizio e durò, come ho detto, quasi mezzo secolo, quarantotto anni per la esattezza... Ufficialmente non si fidanzarono mai perchè lui per uno dei tratti della sua originalità non fece mai la dovuta richiesta ai genitori di lei (gli mancava il coraggio, diceva) e lei non meno originale di lui non lo sollecitò mai a fare questo passo (si vergognava, diceva). E del resto i genitori di Rebecca poco si interessavano degli amori della figlia loro, bastava che i ragazzi non stessero nè soli nè vicini e non facessero cose che... non si devono fare, senza bene specificare in che cosa consistevano queste"cose che non si devono fare". Questi genitori morirono oltre gli ottanta lasciando Rebecca orfanella cinquantenne, alle cure della sorella maggiore nubile anche lei, la quale continuò la vigilanza esercitata in vita dai genitori: sempre inibito l'ingresso in casa del moroso e conseguente scongiurato ogni pericolo sul negozio delle cose che non si debbono fare…

Vale anche la pena descrivere alla meglio la, chiamiamola così, prassi amorosa di questi due originali fidanzati; prassi seguita a un puntino per tutti 17.520 giorni in cui durò il loro idilio, giorno più giorno meno. Tutte le sere che aveva fatto il Signore con qualunque tempo e qualunque stagione (le stagioni furono all'incirca duecento) e piovesse o tirasse il vento o facesse la neve o... suonasse a morto, lei lo aspettava a facciata ad una finestra del "paterno ostello" sito in via delle Stallacce" (si direbbe una via dal nome non molto romantico; ma tant'é!) coi gomiti appoggiati al davanzale recitando in atte del suo Spirindione il Rosario e le devozioni della sera. Lui, con cronometrica precisione, arrivava lemme lemme al convegno usato e diceva:

«Buona sera Silvarosa del mio cuore». E lei rispondeva:

«Altrettanto a voi Spirindione mio. Come state?» E lui:

«Bene, quando vi vedo». Se però qualche sera,per una delle frequenti distrazioni del lampionaio che spesso versava (sempre per isbaglio) il petrolio nella lampada di casa invece che versarlo in quella della strada perchè a quel tempo le vie cittadine erano illuminate dai lampioni a petrolio per opera funzionari comunali che si chiamavano "lampionai" se però la strada era rimasta al buio e non ci si vedeva nemmeno a... bestemmiare, come diceva il popolino, lui rispondeva al saluto della sua Dulcinea:

= Bene, quando vi sento!»

Poi Sciapilon meccanicamente metteva fuori dalla tasca un enorme pipa, lasciatagli in eredità dal bisnonno, si stropicciava uno zolfanello nel calzone sinistro, accendeva il tabacco e così fumando e rifumando lui e pregando e ripiegando lei senza parlare, senza scomporsi lui appoggiato al muro di contro con i piedi buttava fuori il fumo che si inalzava come incenso fino al nasetto di lei che ringraziava di quell'omaggio con gentili "starnuti" e così avanti finché il martello dell'orologio non batteva le ventitré che era l'ora precritta per la cessasione dell'idilio. All'undicesimo colpo lui spegneva la pipa se pur non era già spenta; lei ritirava la corona che pendolava fuori del davanzale sostenuta dalle pie mani dell'orante, e

«Felicissima notte Silvarosa dell'anima mia»

«Altrettanto a voi Spirindione del mio cuore».

Però quanta poesia, quanto sentimento in quel "Silfarosa dell'anima mia" e "Spirindione del mio cuore!". E il trattenimento amoroso era finito con quelle parole, che unite alle prime dell'inizio sommavano suppergiù a venticinque per sera. Pochine, si dirà, ma se si pensa che sommavano a 9.000 e più, circa 10.000 all'anno; poiché gli anni trascorsi in amore furono ho detto quasi cinquanta così le parole che si scambiarono i nostri innamorati durante il loro idilio furono circa( dico circa) cinquecentomila. Domando: quante sono le coppie di innamorati che si scambiarono durante i loro amori tante parole? Mi direte: ma erano le stesse che si ripetevano sera per sera. D'accordo; ma chi non sa che il vocabolario degli innamorati non è molto ricco di parole e che in ogni convegno sentimentie gira e rigira si ripetono sempre le stesse espressioni e si ripeterebbero fino alla consumazione dei secoli se gli amati continuassero a mantenersi su questo piede fin là.

Nel primo decennio dei loro amori la coppia Sciapilon Mechioppa fu oggetto di scherni e di commenti, ma col passar del tempo (e quanto ne passò del tempo!) passarono al ruolo di "istituzione cittadina” e infine nessuno si occupò più dei fatti loro, salvo qualche abitante di via delle Stallacce che rincasando a sera vedendo lui impalato sotto la finestra di lei e lei affacciata al verone diceva fra se:

«Meno male non è ancora tardi; c'é ancora qui Romeo sotto la finestra della sua Giulietta. che scende di servizio alle undici...» Oppure:

«Ahimè! I Montecchi e i Capuleti non ci son più vuol dire che le undici sono passate. Stassera cagnara con mia moglie per il mio tardo rientro al focolare domestico»

Durante il loro semisecolare servizio idilliaco non ci furono a memoria d'uomo dissensi fra loro. L'amore procedeva liscio come l'olio, scorrevole e tranquillo; i due non conobbero le spine della gelosia nè si curavano degli anni che passavano. Qualche diversivo correva sulla bocca della gente come quello in cui il distratto lampionaio aveva lasciato il vicolo al buio e Spirindione non avendo ricevuto il consueto ricambio al suo "buona sera, Silfarosa del mio cuore" sciolse lo scilinguagnolo col chiedere:

«Siete scialata (afona), Silfarosa cara?»

«Silenzio perfetto perchè infatti la Mechioppa era raffreddata e curava il raffreddore a letto dov'era rimasta per ordine della sorella mentre l'innamorato giù nella strada volgeva gli occhi al verone dove vedeva sì al solito posto un ombra vaga che, data, l'oscurità non poteva individuare ma che secondo lui non poteva non essere che la sua fiamma. E quando il solito martello ebbe battuti i consueti undici tocchi Spirindione dopo il solito saluto di congedo serale aggiunse a titolo di consiglio:

«Andate subito a letto, prendetevi un forte "vin brullè" e non prendete freddo che passato il raffreddore non è più niente».

Ma anche queste premurose parole non ebbero risposta perchè l'ombra che Sciapilon aveva visto per tutta la serata nella finestra altro non era che un vaso, crediamo, di fiori che tenne il posto del capo della morosa. Una cosa poetica del resto! E per lui fece lo stesso!

Un'altra sera il meccanismo dell'orologio pubblico si guastò, non si sa come, proprio durante il loro solito convegno. E pertanto cessò di martellare le ore nella campana, ragion per cui i due morosini restarono al loro posto in attesa del suono delle undici e poiché questo suono non si faceva sentire restarono lì finché le prime luci dell'alba non li fecero pensare che il tempo prescritto per la durata del convegno era passato da un pezzo. Si diedero la " buona notte" che la gente girava, per le strade e le campane delle chiese suonavano l"Ave Maria" del giorno...

Una sera, e sempre durante il solito convegno la campana maggiore di S. Francesco avverte con misurati sinistri rintocchi che era scoppiato un incendio proprio sulla cuspide del campanile del duomo; le campane del duomo erano in pericolo ragion per cui non avevano voglia di suonare. A chiamare a raccolta! la gente ci pensarono le colleghe di S.Francesco. In loco allora non c'erano pompieri perciò era secolare dovere dei cittadini accorrere volontariamente per darsi da fare a smorzare gli incendi.

«Prima il dovere poi l'amore» pensò Spirindione e disse pronto alla sua Rebecca:

«Corro a smorzare l'incendio, Rebecchina mia. Tu prega per me»

«Vai pure, o coraggioso Spirindione; sta ben attento di non scottarti le mani nè bruciarti i capelli. Aspetta un momento che ti do qualche cosa che ti servirà». Cercò in casa e gli buttò giù uno scaldino che lui prese a volo, lo riempì in una fontanella vicina e corse ove periglio il chiamava. Salì di corsa le scomode scale del campanile raggiunse, racccontò lui, il focolaio e con quel getto d'acqua spense in un "fiat" l'incendio. Aveva perduto una serata d'amore il nostro Sciapilon ma, dite niente, aveva spento un incendio che avrebbe potuto distruggere la città ducale onore e vanto della regione picena. Si era così acquistato una civica benemerenza alla quale non era rimasta estranea la Rebecchina del suo cuore che le aveva procurato il provvido… scaldino e proprio per questo un gruppo di scanzonati buontemponi urbinati nel giorno dello Statuto lo invitarono nell'osteria di Giudizi nel Mercatale e lì gli consegnarono una medaglia dì latta con un diploma in carta da pacchi elegiaco per la sua bravata e gli fecero prendere una sbornia solenne che lo dovettero portare a casa a cavallo proprio nell’ora in cui lui avrebbe dovuto essere al solito appuntamento amoroso in via delle Stallacce e per poco non ci rimise la fidanzata... La mattina appresso, passati i fumi del vino stracciò l'immagine della Madonna di Loreto da una vecchia tarlata cornice e ci mise il diploma con gran disappunto della bigotta sua madre che punì il sacrilego gesto del figlio somministrando a lui già cinquantenne una buona dose di sculacciate… Con la fidanzata fece subito la pace anzi Mechioppa lodò il suo atto coraggioso con queste soavi lusinghiere parole: 1

«Oh! Spirindione mio bello e adorato dove vi sia qualcosa di buono e di grande da fare ti ci si trova sempre presente!» Immaginarsi il solluchero dell'... eroe !

 

Apro una parentisi: Avete sentito? I due fidanzati si trattavano del "voi". Tal dei tempi il costume! In campagna si davano del "voi" anche fra, marito e moglie, e nell'alta società i nobili coniugi si trattavano col l'aristocratico "lei" anche quando erano nel letto che... russavano.  Un giorno ho colto a volo queste parole pronunciate da un titolato, ma grossolano di corpo e di cervello ad un conte suo amico:

«Tu a tua moglie le dai del "lei"? Io le do dei pugni e quelli buoni e robusti!».

 

Ritorno ai miei personagg. Passano ad uno ad uno quarantotto anni e i due sono civilmente parlando al punto di partenza dei loro amori. Fisicamente cominciano a declinare. Ma proprio agli inizi del loro cinquantesimo anno d'amore i due Sciapilon. dei qmali nessuno più si occupava, ritornarono alla ribalta dei discorsi della gente e di loro si parlò in tutte le botteghe in tutte le case, in tutte le osterie, perché una bella mattina il donzello comunale aveva esposto all'albo dell'ufficio municipale un foglio nel quale era riportata la pubbli cazione di matrimonio di Spirindione Sciapilon con Silfarosa Mechioppa; e lo stesso aveva fatto lo scaccino del Duomo attaccando all'albo murale dell la porta la stessa pubblicazione eclesistica.

«Toh! Spirindione e Silfarosa si sposano!» «Meglio tardi che mai!»

In questo caso sarebbe meglio mai che tardi.

«E bravi i nostri eterni fidanzati. E come ci si sono decisi»  Ci si sono decisi per un caso doloroso. Ho detto sopra che il nostro Sciapilon viveva con la madre che sapeva della relazione del figlio con la Silfarosa ma non sarebbe stata certamente lei a sollecitare il figlio a fare il gran passo non volendo, diceva "avere fra i Piedi e a casa mia nuore che si atteggiano subito a padrone loro!" Una buona donna questa vecchietta umile, laboriosa, tutta chiesa ma che col passare degli anni era divenuta bisbetica e noiosa assai. Lui Sciapilon, da buon figliolo e timoroso della madre cercava, come poteva, di circondarla di tutte le cure possibili, si studiava di non farle mancar nulla tollerando con santa pazienza i materni brontolii che di anno in anno si facevano sempre più insistenti e petulanti. Quando Sciapilon entrò anche lui negli anni della... decadenza, malgrado rivestisse ancora il ruolo di fidanzato, cominciò a reagire in forma sia pure non marcata ma per quel tanto che bastava per provocare da parte della vecchia sfoghi, pianti, recriminazioni.

«Ah! questi figlioli! questi figlioli! come ciurlano nel manico! diceva la vecchietta, con le sue conoscenze; "chel bordel" (quel monello che era il sessantenne figlio) mi fa arrabbiare ha perduto il timor di Dio.  Va alla santa solamente una due volte la settimana; tempo fa ha stracciato la Madonna di Loreto dalla cornice per metterci un pezzo di carta con molte diavolerie scritte. Ih! se fossi più giovane e avessi nelle mani la forza di una volta, sai quanti scopoloni e schiaffi gli darei! Ma sono vecchia e lei ne approffitta. Quello mi accorcia, vent'anni di vita!»

E quanto si abbandonava a questi sfoghi la vecchietta aveva novantadue anni. T glie ne accorciava venti il figlio!.

«Pensate - disse una volta ad una sua conoscente, pensate che la sera ritorna a casa dopo le undici e sai perchè? perchè quello scandaloso va tutte le sera a far l'amore nelle Stallacce con la Mechioppa de Dondolon. L'ha saputo un po' tardi la vecchia! Dopo quarant'anni che i due si erano giurati "eterna fe'!»

Ma non per i disordini di Spirindione ma per gli anni che a grandi passi si avvicinavano al centinaio, un brutto giorno il lumino della vita della mamma di Sciapilon lentamente si spense, lasciando Spirindione orfano alla tenera età di sessantacinque anni "sik" e ancora celibe.

Spirindione la pianse amaramente e quando vide deserto il suo focolare pensò seriamente al modo di surrogare la mamma nel governo della sua casa. Il modo gli si presentò subito chiaro e lampante sotto le vesti della sua promessa sposa. Meglio di così? Però l'affezionatoe Sciapilon non ne parlò subito alla candidata, perchè volle lasciar passare l'anno di lutto, tanto il tempo ne avevano avanti i fidanzati! Ma, ben consigliato, ridusse il lutto a tre mesi alla scadenza del quale la sera al solito convegno lui aprì le cateratte del suo eloquio e:

«Che ne direste Silfarosa del mio cuore se noi ci sposassimo?»

«Fate voi!»  fu la risposta della donna alla richiesta dell’uomo. La stessa, fredda, vergognosa risposta data cinquant'anni prima alla dichiarazione d'amore."Fate voi!"

E fece lui guidato da un suo vecchio amico il quale avendo preso quattro mogli (una appresso all'altra beninteso) la sapeva lunga sul da farsi, sulla prassi legale, e su tutte le altre pratiche burocratiche che pur si deve esperire, se la cosa deve riuscir bene e senza mistura di errori ed emozioni che potrebbero turbare i... sonni coniugali. E così l'amico di Sciapilon cavò, come si suol dite, le carte per la celebrazione del matrimonio, lui il promesso sposo, provvide a dare un'acconciata alla casa che sapeva di vecchiume, come l'aveva sempre mantenuta la madre per la quale era delitto rimodernare anche solamente il letto col materasso di foglie secche, sostituendo i "trespoli" che sostenevano il pagliericcio con una lettiera di ferro (la lettiera di ferro era a quel tempo indizio se non di ricchezza certo di agiatezza). Rinnovò le foglie del pagliericcio con foglie più... fresche che le altre potevano avere un secolo di sia pure lodevole servizio. Acquistò un comò di seconda mano e qualche altro gingillo. Fece insomma quel che potè per rendere la casa il più accogliente possibile, fece insomma le cose non da "Sciapilon" ma da uomo assennato e consapevole dell'importanza di creare una nuova famiglia. Quando al promesso sposo sembrò che tutto fosse in perfettissimo ordine da ricevere degnamente la sua pur matura sposina, prese accordi con l'amico faccendiere e al solito convegno amoroso che sarà l'ultimo di una serie di serate d'amore, avvertì Silfarosa (ormai i soprannomi li getteremo in un cantone che l'indomani ad un ora di notte (a un'ora di notte per evitare pubblicità) si fosse trovata alla porta di casa con la gonna nuziale (che Silfarosa si era fatta con le sue mani una trentina d'anni fa) che si sarebbe andati al municipio per… consumare il rito civile, che quello religioso sarebbe stato celebrato alla prima messa del giorno di poi.

« Siamo d'accordo di far così la mia Silfarosa?»

«Fate pur voi - la solita risposta cui si aggiunse - Io ero pronta da cinquant'anni». E Spirindione:

«E allora pronti e contenti tutti, con molte scuse del... ritardo».

 

 

FIORI D'ARANCIO E…

 

Il giorno appresso infatti nel tardo pomeriggio al promesso sposo venne in mente, appunto mentre stava stirando le larghe falde di un cappello di feltro, venne in mente, dico, del lavorino straordinario che lo attendeva in municipio ragion per cui si levò di dosso il grembiule da lavoro, indossò la giacca usuale e filò in piazza dove lo attendeva quel tale amico pratico di matrimoni e insieme pregarono un comune conoscente che in quel momento col muso in aria veniva contando le stelle che man mano venivano accendendosi in cielo, di fare da secondo testimonio al matrimonio civile di Spirindione e Silfarosa con la promessa di una cenetta. L'uomo non si fece pregare e i tre in "mesto e ordinato corteo" si portarono in via delle Stallacce a prelevare la sposa che era già sulla porta di casa con la sorella ad attendere il... principe azzurro. I cinque componenti il corteo nuziale salirono in "mesto e ordinato corteo" le Scalette delle Stallacce, la rampa fiancheggiante il Palazzo Ducale, attraversarono la Piazza Buca Federico raggiunsero il palazzo comunale il di cui ingresso era aperto a metà per ricevere i maturi sposi ed eccoli introdotti tutti nel gabinetto, voglio dire nello studio e in piedi in semicerchio sono intorno al magistrato seduto nel suo scranno d’onore con a fianco un impiegato adoratore di Bacco e già abbastanza brillo. Il magistrato interroga dapprima lo sposo:

«Siete contento di ricevere per legittima sposa la qui presente Silfarosa ------».  E Spirindione risponde:

«Mi faccio meraviglia che uno come lei che ci conosce tutti possa metterlo in dubbio. Crede davvero se non avessi voluto sposare la mia Silfarosa sarei venuto quassù a rompere i coglioni a lei?»

Tutti ridono, ossia ridono i testimoni l'impiegato e la sorella della sposa. Non ridono gli sposi, non ride il sindaco che va su tutte le furie per questa scappata proprio alla Sciapilon e dice:

«Ma almeno qui dentro fa finta di essere una persona educata e parla da cristiano... Devi rispondere o si o no e nient'altro   »

«Allora dirò: Sarò content tant ! E' tant cla volev fé sta frescaccia»

«Lo vuoi dire questo "si"? Bisogna dirlo altrimenti qui si fa un buco nell'acqua!»

«Non ci mancherebbe altro!». E disse il suo "si" anzi lo urlò in modo tale da essere sentito dalla piazza dato che le finestre erano aperte. Più quieta e raccolta fu la sposina che sibila un si leggero e leggero ma che si aggirava, da mezzo secolo nel suo corpo senza mai aver avuto la possibilità di uscire alla luce del sole. Ora è uscito: Oh ! gioia!!!

Il Sindaco levatosi in piedi solenne come un monumento, sciarpa tricolore attorcigliata intorno la sua abbondante epe, pronuncia la formula prescritta e li unisce in matrimonio. Finalmente! Te Deum laudamus… Il segnatario presenta agli sposi il "registro dei matrimoni" per le firme. Si dà cavallerescamente la precedenza alla sposa la quale appone al posto della firma una croce (l'ho già detto: era analfabeta); poi firma lo sposo ma lui la sapeva lunga in fatto di… lettere ragion per cui si accinge al suo lavoro ma mancando di pratica andava, si capisce, adagio e il sindaco spazientito gli dice:

«Fai presto pachiderma».

«Intanto io non mi chiamo così e poi deve sapere signor mio che per imparare a scrivere il mio nome ci ho impiegato dieci anni»

«Bel profitto!»

«    e non mi vuoi lasciare dieci minuti per far il mio nome in questo libraccio?»

Quando Dio volle che lo sposo aveva finito di firmare, vi segnò vicino anche un "croce". Il sindaco va in bestia:

«Ma guarda chi mi doveva capitare fra i piedi oggi! Uno Sciapilon da far venir il mal di fegato a un missionario! Ma se hai firmato che cosa c'entra quella croce?»

«Lo dice lei che non c'entra! Mio padre, buon'anima, quando aveva fatto una cosa col proposito di non farla più diceva: «Ci metto una croce e noi lo faccio più».

La cerimonia è finita, la compagnia meno il sindaco e compreso il segretario si portarono in una trattoria dove fecero uno "magnata" di stoccafisso con le lenticchie, bevettero buoni bicchieri di vino, meno gli sposi che si comportarono in modo dabbene, poi ognuno alle proprie case. La mattina dopo tutti si ritrovarono in duomo dove durante lo prima messa della giornata, per bocca del loro parroco furono sposi in pari anche con Dio. Dopo di che Silvarosa fece il suo solenne ingresso nella casa maritale.

Ed ora facciamo uno capatina nella camera nuziale nel momento in cui i due sposini vi entrarono la sera del matrimonio religioso. Intendiamoci: ci entriamo per dir così spiritualmente perchè nessuno, all'infuori degli sposi, era presente lì; e tutto quello che diciamo, non è crediamo che il racconto romanzato dei soliti capiscarichi.

Intanto dobbiamo anche dire che mentre gli sposi quella sera stavano consumando per la prima volta insieme la prima cena della loro vita coniugale di fuori, in istrada e precisamente sotto le loro finestre i soliti scanzonati fecero in onore di essi una serenata con chitarre e mandolini. Al suono di questi strumenti e con l'accompagnamento dei medesimi, il tenore "Patacchin" cantò la patetica romanza del Trovatore:

A sì ben mio coll'essere

Io tuo tu mia consorte …

Poi i strumentisti diedero mano alla "marcia nuziale del "Loengrin" di Wagner e successivamente suonatori e cantori diedero voce a una scanzonata canzone che diceva:

Viva, la faccia di Silvarosa

Che a sessant'anni s'é fatto sposa...

Canti e musica diedero nei nervi di una attempata irascibile e "scoglionata" vicina di casa che si chiamava Marianna sempre in lite coi vicini e conoscenti, lo quale s'affacciò alla finestra e si mise a berciare e tutti i titoli più parlamentari li indirizzò agli orchestrali i quali rivolsero i loro canti alla "protestante" che vociava con una voce da trombone rotto, tanto è vero che quel gruppo di capiscarichi rivolsero i loro evviva alla Marianna sul primo motivo inneggiante alla sposa:

Viva la faccia' dla Mariannaccia

Che ha una vociaccia

Che par un trombon.

E la Mariannaccia versò il contenuto liquido del suo vaso da notte che costrinse la banda a sciogliersi.

E ritorniamo all'ingresso dei due sposi al sospirato "talamo" (sulla scorta dei "si dice"). Ohè! Ohè! non si disponga il probabile lettore ad ascoltare scenette piccanti. Si diceva che un certo "Trescon" si era armato di una lunga scala a pioli l'aveva appoggiata alla finestra degli sposi aveva veduto tutto ciò che avveniva dentro. Vide adunque Trescon entrare i due sposi lei tenuta per mano da lui e quasi trascinata mentre la sposa diceva con voce lamentevole:

«No, non vengo a letto con voi! Mi vergogno! E' peccato! Voi siete un uomo io sono una donna! La mia camicia è trasparente! E' peccato!... Io andrò a dormire nel vostro letto!»

E si mise a piangere. Spirindione cuore generoso e sentimentale, raccolse le lagrime della sposa che voleva restare (diceva) vergine (ma ci sarebbe restata lo stesso, via!) cedette ai desideri della sposa che si diresse nella camera da scapolo dello sposo e così separati passarono la loro prima notte di matrimonio. E così segui per parecchio tempo (non potrei precisare quanto).

Lei pensava al governo della casa e accudiva alle sue faccende con molta cura e diligenza, lui pensava al mestiere, faceva le spese occorrenti alla casa e si sentì a suo agio dopo aver trascorso anni ed anni di tormenti attraverso i brontolii della madre. Vivevano come due buoni "Taddeo e Veneranda", ma la cosa non durò a lungo. Chi ruppe le uova nel paniere fu una conoscente di lei che affrettò la tragedia con cui si chiude questo scanzonato racconto al quale, credo, pochi presteranno fede. Adunque una mattina uscendo di chiesa Silfarosa incontrò una sua vecchia conoscente, dopo i soliti convenevoli notizie della sua nuova vita e che soddisfazioni provava. Quando la curiosa donna riuscì a tirar fuori dal la bocca della sposa la notizia che fra i due sposi fin dalla prima notte di matrimonio era avvenuta la separazione consensuale e che ognuno dormiva per suo conto in letti separati. Fece tanti versi, si abbandonò a tante esclamazioni a tante recriminazioni fino ad intontire la povera sposa: «Ma non capisci disgraziata che oltre a tutto commetti anche un peccato? Non ha detto il Nostro Signore "crescete e moltiplicate" e come vuoi moltiplicare se non vai a letto con tuo marito? Ma non ti sei confessata? Confessati, confessati e sentirai che cicchetto ti darà il prete quando saprà che tu e lui non... non... basta; sentirai da lui prete... Che sciapiloni che siete tutti e due! Fate ridere!»

E invece Silfarosa ci pianse e dopo averci pensato qualche giorno si decise di parlarne al parroco in confessione; il quale, naturalmente diede ragione alla conoscente; apprezzò gli scrupoli pudichi di Silfarosa e le impose di adempiere i suoi doveri di sposa non solo nella cucina ma anche nella camera da letto perchè diversamente facendo si fa "peccato"... Se poi i vostri anni vi impediscono lavori superiori alle vostre forze non fa nulla, direte le vostre orazioni e Dio sarà contento lo stesso.

Se lo dice lui, pensò Silfarosa, è segno che bisogna far così; e facciamo cosi! Non mi va troppo ma…

Una sera e quando ognuno dei due sposi era arrivato sotto le coperte dei rispettivi letti lei prese il coraggio a due mani, invocò l’aiuto di Dio, dato che era lui che a quanto aveva sentito voleva così, e in camicia attraversò un terrazzino che separava la camera nuziale dove adesso dormiva solo il marito dalla cameretta dove aveva preso stanza lei (le due camere erano separate da un terrazzino esterno) e... quando la donna fu per aprire la porta di quella nuziale fu assalita da un nuovo scrupolo, la baldanza, se di baldanza si poteva parlare, le cadde (era vergogna? era pudore? era... paura? ma!) e rinviò alla sera appresso ogni decisione e su i suoi passi, ritornò alla stanzetta "non nuziale". La sera appresso stessa manovra e senza mai parlare di ciò allo sposo (voleva fargli una improvvisata?) e per non allungarla più del bisogno dirò che la notte del quarto tentativo la poveretta fu assalita da un febbrone (si era in pieno inverno, un inverno senza neve ma rigido più del consueto) foriero di una polmonite energica. Spirindione ne fu allarmato e desolato. Chiamò subito il medico che non nascose il pericolo di morte. Allora non si parlava di "penincilina" e le cure del caso furono affidate alle bocche delle mignatte, delle "coppette" e dei salassi. Cure che si svolsero tutte a puntino ma la povera, semplice, buona Silfarosa dopo otto giorni di malattia morì fra la braccia del desolato sposo, che non l'abbandonò un minuto, non fece scenate disperate, pianse entro il suo cuore. L'accompagnò al cimitero oppresso da un duolo immenso e quando vide la bara adagiata sulla buca e prima che gli affossatori vi gettassero la terra disse con voce quasi tremante:

«Addio Silfarosa del mio cuore, ricordami a Dio e vieni presto per me!»

Spirindione Sciapilon nella deserta casa non trovò che la disperazione della solitudine. Si abbattè talmente che pochi giorni dopo della dipartita della sua compagna fu colpito da infarto cardiaco e si ricongiunse per l'eternità davanti a Dio con l'unico amore della sua grama vita.

Il loro amore o fidanzamento che dir si voglia durò la bellezza di quarantasette anni. Il loro matrimonio durò quarantasette giorni.

Un bel record il primo, un disgraziato record il secondo. I buoni semplicioni Sciapilon e Mechioppa furono compianti dai concittadini malgrado le loro stravaganze anche come esempi di tenacia e fedeltà di affetti.

Non voglio negarlo; qualche frangia in questa descrizione ci sarà stata attaccata ma voglio essere impiccato se ce l'ho attaccata io.