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Bibliografia

VITTORIO SANTINI:   Maestro - Direttore / Ispettore Didattico

Io maestro e istrione

 

Indice per soggetto

 

Il paesino emiliano

Il factotum

Il parroco

Il medico

Villaggio visto dal prete

Villaggio visto dal medico

Ancora sul factotum

Signora del factotum e teatro del villaggio

Debutto come attore

Debutto con la prima donna

Inquisizione spagnola

Il general Placido

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IO  MAESTRO  DI  SCUOLA

e

ISTRIONE  DILETTANTE

 

Racconto autobiografico dei primi anni di didattica in un paesino in provincia di Reggio Emilia. Qui l'autore parla dei suoi primi successi di attore in commediole in voga in quei luoghi e in quei tempi, più che delle prime esperienze come educatore. Nel racconto emerge un delizioso quadro pittorico dei  piccoli paesi della provincia emiliana, ambientato in un contesto storico anteriore di circa trent'anni a quello di Guareschi nel Don Camillo e Peppone di Brescello. Anche qui un bonario clima mangiapreti necessario per rendere accettabile la secolarizzazione delle istituzioni dello Stato Pontificio di recente annessione al Regno d'Italia e una spasmodica ricerca di stare al passo delle grandi città del nord perseguita con una "casareccia" attività teatrale. In quell'ambiente rurale il maestro Santini, appena diciottenne, ha un successo strepitoso  (ndr).

Sono un giubilato della scuola elementare che ho servito per quasi mezzo secolo in tutti i gradi della sua gerarchia. Vivendo ancor oggi spiritualmente ad essa vicino, voglio risalire col pensiero nel ricordo del primo anno dei miei uffici magistrali che esercitai  in uno sperduto villaggio che non interessa nominare anche perchè sconosciuto dalla geografia ufficiale e nella quale è nominato appena (se pur lo è) il capoluogo del comune, un paesetto di poco più di duemila abitanti. Il villaggio, al tempo di quel mio lontano soggiorno, era popolato di coloni, affittuari, braccianti tutta brava e buona gente, ospitale, laboriosa, simpatica.

Prima di prendere il possesso canonico della scoletta, che mi era stata affidata, mi presentai nel capoluogo al signor Sindaco e questo feci non solo per atto di ossequio al primo cittadino del luogo, ma anche per dovere d'ufficio e per pratica amministrativa, dato che allora le scuole dipendevano dai comuni ed i maestri erano stipendiati dalle amministrazioni comunali come le guardie, i cantonieri, i bidelli, gli accalappiacani, i becchini et similia. Il signor sindaco, un enologo come lui si qualificava, un oste come lo era nei fatti.  Mi accolse con molta affabilità temperata da un certo sussiego che la carica gli consentiva. Si rallegrò con me della mia... giovinezza non senza farmi intendere, come non avessi avuto la necessaria perspicacia per capirlo, che anche lui era stato giovane e che perciò vedeva proprio con piacere che nelle sue scuole entrasse, in mezzo a tanto vecchiume di insegnanti, un giovane di belle speranze che avrebbe portato un soffio di vita nuova ecc. ecc. Usando o, come lui modestamente diceva, abusando della libertà che gli anni concedono (poteva avere una sessantina d'anni) volle darmi anche qualche paterno consiglio sul come comportarmi con la popolazione cercando di ben adempiere ai doveri di maestro e assecondarla per guanto possibile nei suoi desideri e nei suoi gusti.

 

 

Il villaggio descritto dal "factotum"

 

Arrivato alla mia residenza ufficiale, ebbi la fortuna di far subito la conoscenza di colui che era ritenuto il factotum del villaggio; era un bravo laborioso muratore affabile e servizievole che la gente del luogo stimava uomo di talento e di lettere; era presidente, segretario, cassiere, magazziniere, il faccendiere insomma di una cooperativa di consumo che egregiamente funzionava a gran sollievo di quelle povere popolazioni. Sapeva, mi disse, la storia di Roma (non tutta veh!), quella della rivoluzione francese (anche questa per sommi capi) e conosceva a memoria le teorie di Carlo Marx, che adorava perchè socialista convinto, ed aveva ben letto il Galateo di Della Casa e Bertoldo, Bertoldino e... discendente. Malgrado questa prosopopea poteva considerarsi la miglior pasta di questo mondo. Il giorno del nostro primo incontro mi volle a "desinare seco" e così nella tavola ospitale, dinanzi a rustici, ma buonissimi cibi, ciarlammo in libertà sulle cose del villaggio. Chiesi se c'erano autorità qualificate alle quali io avessi il dovere di presentarmi ed ossequiare ed egli, modestamente, mi avvertì che salutato lui, erano salutati tutti perchè ... il parroco, caro maestrino, non c'é; c'é bensì la parrocchia ma da qualche tempo è vacante del titolare e la chiesa viene officiata da un prete di una curia vicina; il Dio delle furie, che capita qui, tempo permettendolo, una volta la settimana, la domenica verso mezzogiorno, quando cioè ha disbrigato le sue faccende nella sua chiesa; confessa in fretta e furia, assolve con la manica dei frati; dice la messa in dieci minuti o poco più; in dieci parole spiega il Vangelo e poi via come il vento a casa sua. Però debbo dire che è un buon prete: non è un "succhione dei lavoratori" come la maggioranza dei suoi colleghi, e caritatevole ma, purtroppo, manca di una certa finezza di modi. Pensi che un giorno volendo dimostrare l'esistenza di Dio, così argomentò:

«Le questioni sono due: due solamente: o Dio c'è o non c'é. Chiaro? Vediamo: Se Dio c'é, c'é e niente da dire; se non c'é? (pausa) Ma chi è quello spudorato che dice che Dio non c'é? Si faccia pure avanti che lo sganascio con un pugno davanti questo Crocefisso». E siccome dinnanzi a simile argomento nessuno si fece avanti a contraddire lui tutto gongolante, chiuse il suo discorso così: «Dio vi benedica! Sono contento di avervi ben convinto!"  Le pare, maestro, un bel sistema per convincere la gente?»  

Io naturalmente ridevo e lui continuò. Un'altra volta che, come al solito, aveva una fretta matta di tirar via e andarsene per i fatti suoi, vedendo avanti il confessionale parecchi penitenti in attesa, alzò la mano e diede un'assoluzione in massa senza, nemmeno entrare nel bussolo dicendo a chi gliene fece osservazione:

«Ma io i peccati di quella gente li so a memoria perchè sono sempre quelli; bestemmie, parolacce, ingiurie ai preti, porcherie, botte alle mogli e qualche volta ai mariti, ladronerie....» Poi disse la messa a gran velocità e alla spiegazione del vangelo se la cavò rapidamente così: «Oggi nel Vangelo non c'é niente di buono ( evidentemente voleva dire niente di interessante), perciò arrivederci a quest'altra domenica». 

Il mese scorso, per la festa della Patrona, mentre faceva baciare la Reliquia della Santa ai fedeli, uno di essi, nel colmo dell'ardore religioso, lo urtò sgarbatamente e gli fece scappare il reliquiario di mano che andò a frantumarsi in terra. Apriti cielo! Il prete col braccio teso e l'indice appuntato verso i rottami gridò: 

«Hai visto sfuriato della malora? E adesso bacio questo paia di stivali !» 

Lo scorso anno dopo aver accompagnato un morto al cimitero se ne ritornava tutto solo portando con se la Croce, quella con l'asta lunga, quando si imbatté in un gruppo di giovinastri alticci che cominciarono a gridargli contro: 

«Abbasso i preti».  

Lui li guardo, sorrise e non volendo prendere la cosa in serio, scherzando si curvò alquanto e chiese ai suoi schernitori: "Va .bene così?" e  quelli prendendo la cosa sul serio berciarono ancora: "Non basta! Non basta! Vi vogliamo più in basso!"  E lui sempre ridendo si stese a terra con la Croce accanto "Beh! cosi basterà! Sarete contenti!"  Si accontentarono infatti i giovani anticlericali perchè, in segno di giubilo per la... vittoria riportata, intonarono "Bandiera rossa la trionferà ecc." 

A questo canto il prete si rizzò in piedi e alzando ben alta la Croce gridò: «Questa è la sola bandiera che ha sempre trionfato e sempre trionferà nei secoli».  Il più ubriaco delle compagnia facendo una smorfia di noncuranza e alzando le spalle in atto di disprezzo: «Di. quella, disse, non sappiamo proprio che farcene».

Ma seppe bene il prete che farsene di quella Croce, perchè la fece cadere violentemente sulla testa del bollente giovinotto. Testa e croce si ruppero, talchè lo zelante prete si buscò una querela dal giovinotto. Per una delle solite ingiustizie della giustizia borghese, commentò il factotum, fu assolto il prete ed il giovinotto dovette pagare le spese della causa e il risarcimento dei danni.

Male e malanno, prosegue il mio narratore, pur essendo socialista, libero pensatore ed anche un pochino anticlericale, disapprovò il contegno dei giovinastri perchè, caro maestro, non è con l'offendere i preti e il loro Dio che si riuscirà ad estirpare dai cervelli degli ingenui le superstizioni ed i pregiudizi. Ci vuole la rivoluzione, quella sociale, senza spargimento di sangue  che annunci alle masse lavoratrici pace, felicità e benessere.  

(Parentesi: l'episodio della Croce che cala sulla "dura cervice" del giovane rivoluzionario mi ritornò in mente dopo molti anni quando assistetti alla proiezione cinematografica del Don Camillo di Guareschi e pensai allora e penso anche adesso che dev'essere l'aria di quei paesi a infondere simili bellicose ispirazioni ai preti per difendere la fede perchè debbo dirvi, giacchè non ve l'ho detto prima, che il villaggio in parola non è troppo lontano da quel di Don Camillo e Peppone. E chiudo la parentesi).

 

Esaurito l'argomento del prete il mio ospite passò a parlare del medico che... non c'era. Mi spiegò: anche la condotta medica era vacante ma, a quel che pareva, non se ne sentiva disagio. Capitava, di quando in quando in quando o quando se ne ricordava, un medico del capoluogo:  "un puntello della borghesia" come lo definiva il mio narratore, perchè era un antisocialista arrabbiato. "Un medico, che vede giorno per giorno tante miserie, tenerla dai signori! Si può dar di peggio?  Il popolo però non gli vuol bene e lo chiama "sbroglialetti".  Il reazionario dottore considera questo nomignolo quasi un titolo onorifico confermando che in effetti, sì, io sono sbrigativo nelle cure nel senso che non tengo troppo nel letto i miei malati in quanto li guarisco presto e li faccio alzare da letto nel più breve tempo". Tutto sta a vedere, commenta il mio ospite, se i suoi malati si alzano da letto da soli o aiutati dal beccamorto e quasi sempre si verifica il secondo caso... Lo scorso anno il dottore, continua il mio ospite, chiese un congedo di quindici giorni per affari di famiglia e la Giunta Comunale glielo concesse. Trascorsi quindi questi giorni chiese una proroga del congedo stesso e la Giunta deliberò in tal senso: "La Giunta Comunale di...... (il muratore mi fece leggere la delibera riportata da un giornale delle provincia) veduta la domanda del Dottor Tal Dei Tali per ottenere la proroga del congedo già accordatogli, poichè durante l'assenza dell'illustrissimo signor medico nessuno della sua condotta si è malato e tantomeno nessuno è morto, ben volentieri gli si accordano i quindici giorni richiesti ed altri se ne vorrà e senza decurtazione di paga".  Il satirico giornale aggiunse di sua invenzione la firma del sindaco così concepita: "Per il Sindaco analfabeta: Croce dell'assessore anziano".  Una spiritosaggine che mi sembra di aver letto anche in altre parti.

 

 

Alle prese col parroco e col medico

 

Interrompo il corso della mia narrazione e la conversazione col mio ospite per dirvi di passata, che la domenica successiva il mio arrivo al villaggio ebbi occasione di conoscere e conversare col prete che, si vede, quel giorno non aveva tanta fretta e volentieri si trattenne qualche tempo con me. Tra l'altro mi chiese che impressione avevo ricevuto del villaggio»  «Buona - mi affrettai a rispondergli.»  «E della popolazione?»  «Ottima».

 

Ed ecco il villaggio descritto dal prete

Ho piacere: certo che questi villani non sono la quintessenza della perfezione ma, in fondo, non sono cattivi.  Vengono alla messa domenicale; alcuni, non tutti veh!, fanno pratiche religiose e, malgrado si professino atei; pure si sposano in chiesa, fanno battezzare i loro figli, li mandano alla dottrina che la fa una pia signora del posto che corregge loro anche i compiti di scuola, insomma non c'é da lamentarsi di questa gente per quanto si dichiarino socialisti intransigenti e spesso mi facciano perdere le staffe con il loro strampalati discorsi che altro non sono che ripetizioni di rimate scorrette di quelli dei loro ignorantissim i capoccia.  Sa, o maestro, come ci chiamano a noi due?  «Come ci chiamano?  A lei il cero a me lo spegni moccolo».  Io inarco le ciglia e faccio tanto d'occhi... interrogativi. E lui:  «Proprio così da quando capitò qui un tribuno socialista per un comizio anticlericale (pensi un comizio anticlericale in un posto dove non c'é nemmeno un prete!)  il quale dal balcone della cooperativa si sbracciò a gridare: "In ogni villaggio c'é una fiamma che illumina le menti della povera gente alla luce della civiltà e del progresso,  il maestro (credo che vi comprendesse anche la maestra) e c'è una bocca che vi soffia sopra per spegnere quella luce e lasciare il popolo nella oscurità dell'ignoranza, il prete. E adesso avrà capito perchè ella è chiamato il cero ed io lo spegni moccolo!"»

Questo oratore da strapazzo, continuò il prete, fu come le sarà facile immaginare altro che applaudito! Osannato quasi! La frase era bella davvero ma il plagiario l'aveva presa di sana pianta da un lurido libro di Victor Hugo quindi non aveva nemmeno il merito di essere originale. Ora questo ciarlatano è, per somma scarogna, di queste contrade, nientemeno che deputato. E come va via gonfio e pettoruto!  Ma solamente qui perchè alla camere dove c'é gente con la testa nelle spalle è considerato poco più di una cicca. Ha parlato poche volte: una volta per chiedere al presidente il permesso di andare al... gabinetto e un'altra volta per chiedere ad un donzello una presa di tabacco e una bibita di liquerizia per schiarire la voce per star zitto.»  Così mi parlò lo scanzonato facente funzione di parroco e dico il vero che mi fece passare qualche momento di buon sangue e poi mi simpatizzò perchè non fu fegatoso e intransigente in fatto di idee politiche come mi si mostrò invece il medico quello che il factotum mi definì un "puntello della borghesia".  Questo dottore, un uomo di mezza età, il giorno in cui ebbi modo di conoscerlo mi chiese isso facto come mi trovavo in mezzo a questa "canaglia".  Dovetti rispondergli «bene» E lui: «Li imparerà a conoscere in seguito».

 

Ed ecco il villaggio descritto dal medico:

 

Sono villani grandi, grossi e minchioni che li fa pessimi la loro robusta ignoranza e la poderosa presunzione. Socialistoni, seguaci della comoda teoria "quel che è tuo è mio e quel che è mio è... mio"  E vanno sbraitando a pieni polmoni la filosofia di Proudon che è stata loro scodellata da un filosofo anarchico in un comizio, secondo la quale "la proprietà è un furto".  Questi emeriti gonzi fanno anche professione di ateismo e si lavano la bocca proclamando "Sono ateo per Dio" e non capiscono i cretini che con questa frase ammettono implicitamente l'esistenza di Dio e poi alla sagra della Patrona che la fanno durare tre giorni a Natale e a Pasqua e ad ogni tocco di campana a festa si mettono a tavola a mezzogiorno e si alzano a mezzanotte ubriachi fradici e pieni di stomaco come porci.

Poi, si sa, si ammalano, ma si guardano bene dal chiamarmi, perchè sanno che io glie le canto chiare e li tratto da maiali come sono; chiamano in vece mia un "porcaro" che si picca, il gaglioffo, di intendersi di medicina meglio di un medico con tanto di laura (Laura si chiama la moglie che lo incorna e tuttavia la invoca sempre).  E che arie si dà quando è chiamato al letto di un malato!  «Prima di ammalarti stavi bene?»  questa e la prima domanda che fa; dopo la visita fa questa diagnosi: «Quando sarai guarito non è più niente». Ordina, un medicinale che manipola di sue mani dopo aver pulito il deretano alle sue scrofe, un intruglio di sugo di lombrichi pestati con altri schifosi ingredienti. Ho tentato qualche volta di spedirlo in galera, ma non sono riuscito, e per poco non ci vado io per calunnia, data l'omertà dei suoi mascalzoni clienti e compagni per giunta, perchè il porcaro è anche un "capo lega" che distribuisce lavoro richiesto, fissa tariffe e affama chi non è organizzato.  Dirige anche gli scioperi ordinati da quella che loro chiamano la Camera del Lavoro, che io chiamerei  la cucina dell'ozio, e allora assume il grado di capitano che inquadra le intelligenti masse che sfilano a passo di parata (e poi si dicono antimilitaristi) cantando, i versi dell'Inno dei Lavoratori.  "Noi vivremo del lavoro" E li cantano proprio quando fanno sciopero. Il porcaro raccomanda di stare uniti per combattere i"padroni succhioni" e fa cantare anche questi altri versi del sullodato Inno: "Se divisi siam canaglie".  Io una volta durante il passaggio di un corteo aggiunsi. "figuriamoci in compagnia".  Mi sentirono e per poco non mi accopparono. Costoro presi ad uno ad uno sono perfette canaglie, ma uniti sono un brando di filibustieri che vogliono la rivoluzione predicano l'odio di classe e vedono, in chi non professa le loro luride idee, un nemico del popolo.

Dovetti convenire che il dottore, nelle sua fobia antisocialista, esagerava un pochino perchè personalmente, politica a parte, non trovavo quei popolani così "canaglie" come lui me li presentò.

 

 

Ancora sul factotum del villaggio

E ora di riprendere la conversazione interrotta nella tavola del factotum del villaggio, conversazione annaffiata con qualche buon bicchiere di lambrusco di cui la mensa era ben dotata (veramente a detta del dottore, il più factotum era il vaccaro, medico empirico, ma si trattava di una supremazia solamente politica o sindacale e... profilattica).

E così da un discorso all'altro il factotum letterario venne a parlare, non so a che proposito, di un certo "casaro" un manipolatore di formaggi e della rispettiva consorte che lo mandava a... quel paese cosa che tutti sapevano e ritenevano quasi ovvia per il fatto che lui aveva sessant'anni e lei venticinque e che del resto anche lui, il becco, riteneva questo un fatto logico in quanto, come diceva lui, "essa è di razza e conosce il mestiere..."

Questo spinoso argomento fu troncato dalla signora del mio ospite che mi chiese ex abrupto: «Le piece il teatro signor maestro?»  Ed io abbozzai un «certo che mi piace!»  E lui: «Le piace anche recitare?»  Questa inchiesta, che nulla aveva a che fare con i temi della conversazione finora sul tappeto, mi sorprese perchè non riuscivo a capire dove si andasse a parare, pure aggiunsi: «Beh! In quanto a recitare non saprei che dire dato che non ci ho mai provato».  E lui: «Ci proverà qui.»  «Per carità, non me lo dica nemmeno! Il pubblico mi farebbe paura!»  «Paura di che, disse la signora, il nostro pubblico è cortese, comprensivo e buon intenditore.  Io lo so per esperienza...»  Guardai quella prosperosa massaia che, per la verità niente aveva di attrice e pensai che era opportuno non contraddire i miei gentili ospiti, ragion per cui chiesi: «Avete anche un teatro qui?»   «Se l'abbiamo! Un vero gioiello, bene attrezzato e più che sufficiente per la nostra popolazione, e frequentato anche da gente dei dintorni! O Dio! Non sarà come la Scala di Verona... »  Corressi: «Di Milano».  E lui senza scomporsi: «Già di Milano, ma... fa lo stesso».

Dopo pranzo mi fece vedere questo teatro dove avrei dovuto, più tardi, produrmi anch'io. Invero era una sala abbastanza ampia. C'era il palcoscenico con tanto di sipario e buco del suggeritore, quinte e scenari dipinti da un pittore assassino; la platea con scanni di legno; il loggione, una specie di cantoria di chiesa.  Insomma per un villaggio non c'era proprio male. «Non le dicevo, mi disse tutto gongolante il mio uomo, che le sarebbe piaciuto?  Che lavori! che lavori ci facciamo!  e che pienoni! Si chiama  "Teatro Sociale".  E' stato costruito con gli utili della Cooperativa per la elevazione morale  e culturale del popolo e funziona in carnevale per opera della filodrammatica locale di cui io sono il direttore e nella quale Lei ci farà la grazia di entrare in qualità di... recitatore; tanto più che Ella reciterà in perfetto italiano mentre qui nessuno sa parlare la vera lingua nostra tranne, modestia a parte, io e mia moglie che da giovani siamo stati per ragioni di lavoro a Strasburgo e perciò, via!, ce la caviamo benino anche nella... recita».  (Toh! E io, maestro, non sapevo ancora che per perfezionarsi nella lingua del "sì" bisognava andare nell'italianissima...  Strasburgo!  Quante cose s'imparano nella vita!).  Di tutto mi rallegrai con questo simpatico operaio il quale mi prese a benvolere e col quale intrecciai un accordo perfetto di vedute, se non politiche, perlomeno... letterarie.

Un giorno ebbi da lui anche una lezione di didattica della lingua e la cosa andò così: aveva egli esposto sulla porta della cooperativa un invito scritto ai soci per un'adunanza così testualmente concepito:

"I sochi sono in vitatti ad una dunanza che si terrà nel s'olito l'ocale allora s'olita ecc. ecc."

Francamente a me, maestro del villaggio, sapeva male vedere pubblicamente esposto un saggio di così bello scrivere e tentennavo il capo di fronte ad strafalcioni così cavallini. Mi vide l'autore del componimento letterario, mi si avvicinò e, benevolmente mi chiese:

«Maestrino c'è qualche cosa che non va lì?  Me lo dica pur francamente» 

E francamente io gli feci osservare alcuni (non tutti per non urtarlo troppo) errori ortografici.  Lui mi ascoltò e poi calmo calmo mi disse: «Può darsi che lei abbia ragione (a buon conto, ci mise un "può darsi" però), ma venga domani sera nella sala delle riunioni e vedrà che i soci ci sono tutti o quasi tutti.»

«E con questo?» dico io.

«Con questo, dice lui, vuol dire che  malgrado gli errori che lei ha notato i soci hanno capito l'avviso.  E questo è quel che preme...»

Buono a sapersi. E dire che io, imbevuto delle pignolerie dei miei professori d'italiano, tutti puristi al centouno per cento, credevo che scriver bene significasse non solo rispettare la sintassi ma anche l'ortografia.  E invece, nossignori, per il mio letterato significa esclusivamente farsi intendere.  Però, ben pensandoci, non è poi del tutto sbagliato perlomeno dal lato pratico...

Per assecondare i giusti desideri del Sindaco e della popolazione io in quel villaggio feci del mio meglio per adempiere i miei doveri di educatore.  Ma non è di questo che voglio intrattenervi ma voglio dirvi qualche cosa dell'altra mia attività; quella di attore comico dilettante e improvvisato a cui mi decisi dedicarmi dopo essermi fatto alquanto pregare. Debuttai in un drammone che oggi si definirebbe "giallo" dove usciva una grande quantità di morti di morte violenta, quasi sempre...

Mi prude il desiderio di descrivervi questo debutto. Fu un avvenimento per tutto il villaggio e un caro e ameno ricordo della mia vita. Un tutto esaurito malgrado il costo dei biglietti, un po' altino per le borse di quei popolani e per i tempi che correvano. Quattro soldi i primi posti, due il loggione. Titolo del dramma: "La ruota maledetta". Il mio apparire in scena è salutato da prolungati applausi intercalati, mi ricordo bene, da due chiari pernacchi usciti, come risultò da una inchiesta fatta, seduta stante, dal direttore del teatro, dalle bocche di due miei alunni che proprio quel giorno a scuola avevo scapaccionato di santa ragione per marachelle scolastiche. Recitai, mi dissero, come un angelo. Alla scena madre avvenne questo:  nel palcoscenico un personaggio che rappresentava una vecchia ricca, che non decideva di ritornare al Creatore, legata su una ruota di un molino dai suoi carissimi buoni nipoti al nobile scopo di farla morire in acqua e stritolata, per giunta, dato che gli altri accorgimenti, usati nei precedenti atti, per il medesimo fine/avevano fatto cilecca e la eredità desiderata, movente del delitto, ritardava ad arrivare. Pelle dura quella vecchia! In quella entro io seguito da un personaggio gobbo, come prescriveva il copione, e, come Enzo Grimaldo della Gioconda, grido: «Sciagurati, quel crin venerando rispettate o io snudo il mio brando».  Il brando era un bastone da passeggio, ma per il pubblico faceva lo stesso e non impedì a uno dei buoni eredi della vecchia di rispondermi con un colpo di pistola. Non vi spaventate che la pistola era di legno e la detonazione era stata data per una delle solite finzioni sceniche da un colpo di bastone contro un cassabanco fra le scene.  Io stramazzo al suolo mentre il pubblico si abbandona ad una dimostrazione di vero entusiasmo.  «Bravo! Bene! Bis!  (non ho ben capito se si gridava "bene" perche mi avevano fatto fuori o perchè ero caduto bene artisticamente, il fatto sta che in quel momento mi arriva, tra capo e collo, una arancia che mi viene a battere, direbbe il Manzoni, sulla protuberanza della profondità metafisica.  Anch'io, come il personaggio manzoniano, mi metto a gridare "canaglie",ma non sono udito tanto è il baccano/e allora, sdegnato faccio l'atto di alzarmi e abbandonare il palcoscenico ma il "regista"  si accorge e di tra le quinte mi scongiura:  " non si muova per carità che guasta tutto.

E allora mi abbandono sul ligneo pavimento e mi metto ad.... agonizzare il che non mi impedisce di vedere la scena che seguì del gobbo coraggioso che, lesto lesto si toglie di dosso la giubba e procede al salvataggio della vecchia.  Ma con la giubba cade anche ... la gobba, che altro non era che un involto di cenci mal sistemato sotto la predetta giacca aderente alla schiena; l'involto ruzzola sul palcoscenico, arriva in platea e, raccolto da qualche spettatore passa da una mano all'altra, da una schiena all'altra, da una testa all'altra con una gazzarra da non si dire.

A sipario calato io mi alzo e mi scaglio fremente e furente contro il direttore e gli dico: «E' questo il modo di trattarmi proprio la prima sera di mia gentile prestazione?  Pernacchi ! aranci sulla testa da intontirmi! ma che educazione ha questo pubblico che lei mi ha presentato cortese, comprensivo, competente?»  E lui,senza scomporsi e col miglior sorriso di questo mondo, mi dice: «In quanto ai pernacchi se la veda coi suoi scolari, per l'arancia mi preme farle sapere che "il tiro dell'arancio" è il miglior omaggio che qui si possa fare a un bravo recitante. E' come se gli si buttasse fiori...»  Ed io: «Già di arancio! »  E lui:  «Sicuro di arancio che alle schiappe si gettono invece patate, carote, pomodori e consimili generi.» Dunque le arance in testa costituivano una distinzione particolare.

A questa rivelazione mi calmai e mi tranquillizzai anzi feci di più: abbandonai il proponimento che mi ero fatto mentre ero steso morente nel pavimento del palcoscenico di ritirarmi dalle scene (ci ero appena entrato), non senza far sapere, in seguito, ai miei ammiratori che se proprio ci tenevano a farmi omaggio di aranci me li avessero mandati a scuola che li avrei mangiati coi miei scolari.  Vi dirò che a quei buoni villani piacque la mia proposta; talché nei giorni che seguivano le rappresentazioni alle quali io mi producevo, le bucce di arance sotto i banchi della mia scuola ce n'erano tante da mettere a dura prova la pazienza della bidella e tanta era la richiesta, da parte degli amici del teatro, di questo olezzante frutto da consigliare il venditore ad aumentarne il prezzo.  Eppure a dispetto dei pernacchi del getto delle arance mi ammalai di comicomania e, come comico sia pur dilettante, ne feci di tutti i colori; perchè feci il primo uomo e il caratterista, il brillante e il tiranno riuscendo a far piangere quando si doveva ridere e a ridere quando, perlomeno, si doveva piangere.

E feci anche il moroso ma questa parte era quella che mi dava qualche preoccupazione perchè in materia non ero ancora praticamente ferrato, dato poi che la "morosa" di solito era la moglie del direttore (cioè il factotum della città, nde) di cui vi parlai prima e ciò in difetto di attrici giovani disposte a compromettere la loro riputazione in palcoscenico.  La morosa di servizio non recitava male (diamine! era stata a Strasburgo) ma non era fisicamente in carattere. Forme giunoniche con cinquantotto anni in cuore.  Sta bene che il cuore non invecchia, ma che scena vederla abbracciata ad un ragazzo smilzo ed allampanato com'ero io allora (cinquanta chili io e il doppio lei) che, se avesse tentato una stretta un po' più robustella, mi avrebbe rotto senza gran che di fatica le costole o mi avrebbe fatto morire non d'amore ma asfissiato addirittura.  Ve la figurate, dico, quando di un palmo più alta di me mi piagnucola abbassando il viso alle mie guancie: "A te vicina mi sento bambina" è le solita voce del pubblico  "ma cala, cala!"  "Ma che calare? Crescere deve".  Una voce più robusta proclama: " Bambina?  E allora perchè non ci vai a scuola da lui invece di farci all'amore?"   Ma nemmeno la mia morosa stette con la lingua in bocca e rivoltasi a quest'ultimo interlocutore che si capì aveva riconosciuto alla voce gli gridò a sua voltare in dialetto che io traduco in italiano:  «Tu non capisci niente, non hai mai capito niente e non capirai mai niente. Piuttosto devi fare una cosa devi andare da sbroglialetti per farti curare il fiato che maledettamente ti puzza come una cipolla fradicia».  Un'altra voce rivolta all'attrice: a "E tu come lo sai?"   E l'attrice maligna: «Me lo ha detto la sua amica»  Risate e salaci commenti scombussolano il regolare andamento del nostro idillio amoroso. A questo proposito debbo dirvi che in quel teatro era costume che il pubblico non dovesse limitarsi a fare alla lunga la parte di semplice spettatore ma, se voleva, poteva intervenire ed interveniva spesso a rimbeccare gli artisti, a correggere le loro papere magari con altre papere più robuste, chiedere spiegazioni, in modo che corresse tra attori e spettatori una corrispondenza d'...amorosi sensi che, il più delle volte erano tutt'altro che amorosi sensi. In certi momenti un cieco se non avesse riconosciuto le voci dei partecipanti non avrebbe capito che erano gli artisti e chi i commentatori.  E questi battibecchi non erano in fondo sgraditi a nessuno anzi davano alla rappresentazione un tono inconsueto di interesse e di gaiezza.  E avrò occasione di portare altri esempi; anzi ve li spiffero subito.

Una sera mi trovavo in scena con un attore novellino timido ed inesperto; tremava a verga a verga. Costui doveva pronunciare tre sole parole: "Ecco un frate " solamente! Non era una parte granchè pesante ma glie ce ne volle per impararla e soprattutto per eseguire la mimica che doveva accompagnare il lungo monologo. Alla prova generale se la cavò senza infamia ma alla esecuzione fu un altro paia di maniche. Disse bensì le prescritte tre parola ma sbagliò mimica perchè invece di rivolgersi dalla  parte di dove veniva il frate, che veniva dall'ultima quinta, puntò il dito verso il pubblico come se il frate venisse dalla porta d'ingresso della platea. Io che gli ero vicino non potei fare a meno di sussurragli nella speranza di essere sentito solamente da lui: «Così non puoi averlo veduto perchè tu non hai gli occhi nel c...»  Giuro che volevo dire nella schiena ma un boaro che sedeva in prima fila della platea, vicinissimo al palcoscenico mi sentì, mi troncò di bocca la preposizione articolata e gridò a voce alta il nome della parte del corpo che segue la schiena che anche quella, è chiaro, era rivolta al frate e anche quella, è ancor più chiaro, non aveva gli occhi per poter vedere il religioso che gli veniva dietro. Una prolungata risata accoglie quella maledetta interruzione con gran vergogna dell'attore che resta impalato tendendo sempre il braccio e l'indice al pubblico che lo canzonava con un gusto crudele. Allora io cercai di rimediare in qualche modo e perciò mi avvicinai al frate che era un personaggio che non parlava, e che stava pari pari dietro il suo annunciatore e gli dissi queste parole che non erano però nel copione: «Padre il suo odore di santità fa notare la sua presenza anche dove gli occhi non possono vedere la sua persona.» Mica pensata male, non è vero? Non ho mai saputo se questa mia battuta sia stata compresa dal pubblico; ricordo solo che si ristabilì il silenzio e la rappresentazione continuò tranquilla e regolare fino alla fine.

Invece un mio diversivo fece gran furore in un'altra rappresentazione; anzi, mi si è detto poi, rimase per molto tempo memorabile nel ricordo di quella buona gente. Si rappresentava un truculento dramma intitolato "L'inquisizione di Spagna".  Io ebbi la barbara idea di assumere la parte di Torquemada il personaggio più feroce, o uno dei più feroci, che la storia ricordi. Il pubblico era strabocchevole e l'esaurito aveva costretto molti a portar da casa una seggiola da sistemare alla meglio nei pochi angoli liberi della sala. Si trattava di un pubblico formato di cosi detti "liberi pensatori", socialisti e anarchici, che avrebbero mangiato un prete ad ogni pasto e che fremeva di orrore e di sdegno alle mie, alle nequizie di Torquemada.  Io il feroce inquisitore con "nelle vene il sangue delle tigri e delle iene" dirigevo dal mio soglio i movimenti del carnefice che avendo tra le mani un eretico, gli faceva vedere con la ruota e la corda quante stelle danzavano in cielo. (Roba da chiodi!) Io gridavo al disgraziato: «Abiura, abiura.» E quello «No, piuttosto la morte !» e intanto ad ogni tiro... finto di corda emetteva degli ululati da raggrinzare la pelle. Il pubblico fremeva ed uno gridò rivoltosi al suppliziato: «E, va là, giura che ti pigliasse un colpo e piantiamola con questa scena.» Altri invece lo esortano a non mollare: «No! no! coraggio, continua così che ti faremo un monumento ! Resisti o martire ! viva la libertà ! viva Giordano Bruno ! abbasso i preti ! a morte ai puntelli dell'oscurantismo»… e via di seguito.  Poi cominciano in complimenti per me, vale a dire per l'infame Torquemada: «Assassino ! vigliacco ! prete sporco ! puzzone! troione !» e simile flordilegio letterario.  Io non mi impressiono gran che per questi... convenevoli, i quali, oltre a tutto, mi offrivano indubbia prova che la mia parte, perfida finchè si vuole, la facevo bene, e poi si sa che le invettive al tiranno equivalgono ad applausi all'artista perciò imperterrito e feroce continuavo: «Tre tratti di corda! Quattro giri di ruota! Cinque strofinazioni di ferro arroventato !...» e simili carezze. Una donna svenne e uno dal Loggione mi mostra il pugno e minaccia: «Se ti piglio di fuori ti rompo le ossa.» (doveva essere un forestiero ). Ma un altro interviene: «Quello poi fa il maestro !... Poveri scolari!»  Ma un "povero scolaro" si credette in dovere di correre in mia difesa:  «Ma a scuola non è mica così cattivo! Ci tira solamente le orecchie e pianino per non farci male!»  Era vero: perchè a me, maestro, le punizioni corporali mi hanno sempre ripugnato sapendo che queste, sebbene possano avere un effetto immediato, creano sempre dei ribelli.

Il supplizio doveva continuare, terribile e inesorabile. Per amore dell'arte e per fare effetto e per rispetto al copione, avevo tutto sopportato, tutte le ingiurie e le minacce, ma quando sentii tirare in ballo il mio ufficio di… sacerdote dell'alfabeto allora i miei giovani bollenti spiriti si ribellarono e pensai di mettere fine ad una gazzarra che se da un lato poteva avere un attenuante di sentimentalità, dall'altra mi offendeva ovvero offendeva quanto avevo di più caro, la mia missione, voglio dire quella scolastica per distinguerla da quella drammaturgica. Portando una rivoluzionaria variante al copione mi levo solenne e fiero e alle reiterate ripulse dell'eretico ad abiurare invece di pronunciare la sentenza indicata dall'autore del dramma che era: «si continui la tortura fin ché morte ne segua»  (pensando: se tanto mi dà tanto, finisco al linciaggio) gridai, con gran meraviglia del regista e confusione del suggeritore: «Basta, o carnefice, io assolvo quest'uomo perchè è un eroe, coraggioso e sincero.»  Seguì da parte del pubblico una dimostrazione delirante che salì il suo diapason quando io stesso, il feroce il terribile inquisitore, mi avvicinai al prigioniero e "di mie man" lo liberai dai ceppi che lo tenevano avvinto dato che gli aiutanti del boia non avevano osato dar corso al mio ordine in quanto alle prove mai era stata fatta una cosa simile. La sala pareva un mare in tempesta....  "Urla di gioia echeggiano ed il grido "viva Torauemada" salì alle stelle. Capito?  Viva Torquemada! Nientemeno ! e gridato da ugole di mangiapreti, di atei, di liberi pensatori !  Ero riuscito a nobilitare la fosca truce figura del più fosco personaggio che la storia ricordi. E nobilitarlo nel cuore dei più fegatosi nemici del clero e della religione !  Davvero che fu un gran trionfo per me! Ricevetti poi le più sviscerate congratulazioni del mio direttore (quello del teatro), dei miei colleghi in arte e degli spettatori ai quali avevo risparmiato minuti angosciosi di supplizio angoscioso e in più lo spettacolo terribile della morte straziante del loro "beniamino" il martire del pensiero. Fuori del teatro fui portato quasi in trionfo. Il giorno dopo nella severa aule della scuola (un ex forno; non per nulla ci si distribuiva il pane del sapere!) ricevetti le congratulazioni dei miei scolari che per l'occasione fecero una bella scorpacciata di aranci; ma uno di essi mi disse: «Non le faccia più quelle parti di cattivo."

Le "parti di cattivo" mi studiai di non farle più ma una volta dovetti contro mia voglia, sostituire il "diavolo" per improvvisa sua indisposizione, voglio dire dell'artista che doveva sostenere la parte. Figuratemi di vedermi con al fianco l'acciar, la piuma al cappell, un ricco mantell e una barba posticcia sorretta da due elastici che mi si attorcigliavano agli orecchi ma che non impedivano alla barbaccia di ballarmi sotto gli occhi e passare, a seconda dei miei movimenti diabolici da una guancia all'altra. Ma era la barba del diavolo per cui niente di strano che potesse fare i suoi beati comodi. Mi ero messo un paia di occhiali piccoli e rossi, le cui lenti al riflesso delle luci della ribalta mi facevano due occhi di fiamma. Il dramma era intitolato " Giosafatte"; quindici atti, venticinque quadri, trenta personaggi che morivano a due, a tre, a quattro per scena talché al quattordicesimo atto erano morti tutti; al quindicesimo agivano le anime dei morti nella famosa valle che aveva per fondale di scenario il... Duomo di Milano impiastricciato da un imbianchino che si dava arie da"pittore". Pensate: il Duomo di Milano nella Valle di Giosafatte !  All'ultimo atto fa il suo ingresso il diavolo, cioè io, per riscuotere gli scarti del Signore e portarli nella "città dolente". Ho in mano una spada tutta fuoco perchè in essa veniva attorcigliata una miccia. Una sera, al maneggio più agitato della spada, la miccia si stacca, prende il volo (cosa che non doveva fare) e va in platea e per poco non brucia le bionde ossigenate chiome di una forosetta (contadinella); pericolo scongiurato grazie al rapido intervento dei pompieri di servizio (già, perchè il teatro aveva un corpo volontà rio di vigili del fuoco pagati col biglietto gratuito e che erano un oste e un lattivendolo, gente ben pratica del maneggio dell'acqua) che con due potenti soffi spensero la ragazza che mi ringraziò con questa frase detta in stretto dialetto:  «Cat vegna un cancher boia d'un diavolaz

In una delle ultime produzioni mi... produssi in uno spettacoloso lavoro di epoca romana antica, intitolato, "Il general Placido". Una rappresentazione che fece epoca. In scena venti personaggi, un asino, il cane del fattore, la pecora del portalettere e una capretta di una mia scolaretta, nonché una fanfara, di quattro trombe rotte che mugulavano una specie di marcia militare (roba da turare gli orecchi), la stessa che servì di marcia funebre in altro dramma nel quale due giovani si erano gettati per amore nelle acque del Missisipì. Io ero il generale romano e indossavo la divisa di un capitano di fanteria prestataci da un ufficiale in pensione che villeggiava in quei pressi. Ci stavo ben largo sulla vita tanto da ritenere imminente la caduta dei pantaloni.  Gli altri personaggi: chi aveva le camicia della moglie battezzata da toga, chi l'impermeabile del cantoniere, che la tuta del lavoro, chi la giacchetta rovescio, chi un indumento, chi un altro, che faceva proprio un bel vedere.  La prima sera mentre io, il generale Placido, dall'alto del mio carro di trionfo (il carro, dato che avrebbe ingombrato troppo la scena fu sostituito con una cavalcatura così bene agghindata da non farne conoscere nemmeno la natura) concionavo ai miei legionari, ecco che un bello spirito, dal loggione, si mette a fare:  «Ja, ja, ja»  II mio... carro del trionfo drizza le... orecchie a sì fraterno saluto e risponde con gli stessi versi ma più sonori, più naturali, più melodiosi. Si trattava, come avrete capito, della coniugazione del verbo "ragliare" perchè il mio carro del trionfo altro non era che un volgarissimo asino.