I confini del mondo nell'opera incisoria di Nunzio Gulino

 

 

I.

 

Nei Quattro quartetti del 1942, in cui domina il volto oscuro del deus absconditus [1]  Eliot scrive che l'artista vero non può sopportare troppa realtà. Il grande poeta anglo-americano sostiene che l'ordine nel quale organizza — per così dire post festum — gli eventi, per poterli vivere e raccontare, ne è una falsificazione.  Ma precisa soprattutto, in apertura del poema, che il passato e il futuro finiscono per confluire in una sorta di tempo unico, nel sempre-presente, il presente del passato e il presente del futuro:

Ciò che chiamammo il principio è spesso la fine

E finire è iniziare.

La fine è la dove cominciamo [2]

Al pari della lirica di Eliot e Montale, anche l'opera incisoria di Nunzio Gulino preferisce abitare nel punto dove tutti i punti convergono:  dove gli astri e la terra, il visibile e l'invisibile, il gioioso principio e la malinconica fine si confondono e si contemplano gli uni negli altri. 

Mentre disegna sulla superficie della lastra,  Gulino può comporre soltanto qualcosa che contamini il racconto figurativo, l'allegoria metafisica e la parabola morale, il gioco del chiaroscuro e la miniatura dei contorni; e inseguire verità da mille facce, attorno alle quali getta non un corpo, ma una veste vaga e allusiva.  Essa è un panno caldo e grigio in cui ci avvolgiamo proteggendoci di fronte al nuovo che ciò che ci è più prossimo e abituale può svelarci.  Ma questo panno è "rivestito all'interno di una fodera di seta dai toni più smaglianti" [3]. Solo in sogno siamo a casa negli arabeschi della fodera.  E, infatti, "chi potrebbe con un gesto rovesciare la fodera del tempo?" [4].  Chi potrebbe dunque scoprire la bellezza di ogni incisione guliniana, come il suo rovescio abitualmente invisibile?

Appena guardiamo con attenzione un'acquaforte del maestro siciliano, crediamo di avere sotto gli occhi — come ha intuito Luigi Carluccio - "una remota struttura astratta" [5] dal contenuto netto, dalla linea precisa, dallo stile che tenta d'imitare lo splendore della gemma e dell'onice.  Ma è solo un inganno: uno dei molti di questa straordinaria tékhne incisoria.  Subito dopo ci accorgiamo come Gulino detesti sempre di più l'ostinata caparbietà della linea retta, preferendo ad ogni cosa l'intreccio segnico, che suggerisce il mistero nella trasparenza e nell'equilibrio, entro spazi svuotati d'aria, dove un alito di vento non potrebbe insinuarsi senza portare scompiglio in questa harmonia mundi.

Nell'universo delle calme colline pensili e delle magiche nature morte, di penombre e di fruscii, dove pare si aggirino meditando Qubilai qan e Marco Polo, ciò che importa non sono le cose reali.  Qui contano unicamente le grandi forme dell'esistenza: gli archetipi di Platone, le categorie linguistiche di De Saussure, gli schemi matematici di Lévi-Strauss.  Con il suo nitore intellettuale, Gulino descrive queste forme, e tenta d'immaginare il sistema invisibile della sua genesi, il kleeiano Formwurzeln [6], che la sorregge.  "E un lascito memoriale che continua a lasciare stupori e enigma d'altri eventi, e in un passato che continua a passare, dalla spola all'immobilità, all'acquiscenza ultima che si fa luce" [7].   Ma ecco, di nuovo, un'altra contraddizione.  Mentre Morandi ama la nobile e luminosa monotonia delle forme, o un Giacometti la loro nascosta parentela col Vuoto e col Nulla, Gulino osserva quanto esse possano essere molteplici. 

Qual è il senso della sua propensione incoattiva ad attingere alle cose ultime, all'origine della creazione, a una physis metamorfica, al grembo dell'essere custodito nel cuore pulsante dell'universo?  Dove un Kandinskij scorge soltanto il trionfo della geometria — un cerchio grigio o il bianco e nero di un gioco di scacchi —, Gulino intravede boschi d'ebano e d'acero, gemme uccise dalla brina, nidi di larve e di bruchi, alchechengi e soffioni, campi di grano e di girasoli, divenuti a volte nuances di vessilli, a volte relitti preziosi abbandonati dalla marea sulla spiaggia.  Tutte le cose giacciono infatti mute finché egli non le rende proprie nella forma: finché non le rende reali, nel senso che sta nascosto in esse come il segreto della loro verità, che traluce appunto in un'istante, nel velo dell'immagine negli occhi degli angeli di Chagall, negli occhi velati dell'Angelus Novus di Benjamin [8]

 

 

II.

 

Cosa ha spinto Nunzio Gulino ad Urbino (al di là del caso documentabile, e del resto le più volte raccontato, di una borsa di studio che lo abilitò a frequentare nel lontano1938 il Corso Superiore presso l'Istituto di Belle Arti del Libro nel capoluogo feltresco- ?  Come insomma entra la realtà urbinate nel paradigma semantico ed espressivo sul quale si possa ricomporre e comprendere la sua vicenda di artista?  Nato in Sicilia, più puntualmente e precisamente a Comiso (la stessa città di Bufalino-, Gulino non ha mancato di accedere alle cifre della meridionalità animando ed equipaggiando graficamente visioni e folle rusticane in opere del 1941 come Cristo deriso, La vendemmia, e Festa di Pasqua a Comiso:  grandi lastre quasi smisurate, di ottocento, novecento, mille centimetri quadrati, gremite di centinaia di figure, di belle invenzioni scenografìche, sostenute da un estro straripante, insieme mitico e plebeo" [9].

Sono acqueforti degli esordi, che si aprono alla misura dei teleri popolari partoriti dalla coltre germinata del suo territorio, ma intanto passati al vaglio e al selettore memoriale di tavole classiche cinque-secentesche come del rigore incisorio.  La spazialità di Gulino, pur fondata sulla rinascimentale corpora regularia, sul punto focale antropometrico, in realtà si avanza dall'orizzonte verso il  riguardante, ma non come avviene nel microscopio fiammingo di un Franz Huys o di un Pieter Brughel che ingrandisce l'infinitamente piccolo per renderlo visibile.  L'immagine guliniana sorge dalla distanza come dall'oblio, si presenta in modo perentorio e folgorante:  è una silhouette della memoria, la sua evidenza è mentale e non materiale.  Per questo le cose più vicine non sono più minuziosamente incise di quelle lontane: devono essere lontane anche essendo vicine, mantenere quella qualità segnica che non coincide con l'oggettualità referenziale.

Si guardi La fiera di Urbino del 1942, come sono realizzati i primi piani che nascono da un eidos formale e non da un'imitazione pedissequa delle apparenze naturali.  Questa veduta all'infinito, minutissima anche nei punti più lontani dell'occhio dell'osservatore, è una veduta che si proietta in avanti, affiora e non si allontana.  Certamente Gulino carpisce .  come ci ha ricordato Carlo Alberto Petrucci [10].  la tecnica della luce del Callot della Fiera dell'Impruneta, che è appunto di dissociare nell'esecuzione la parte in cui colpisce la luce dal racconto per frammenti, e far sì che tra il punto luminoso e il resto intercorra come uno spazio vuoto, un'intercapedine d'aria.  Il risultato è quello di un'immagine stereoscopica assai vicina alla tavola guliniana.  Il diluvio universale del 1941, dove da lontano — proprio per togliere la tentazione di una visione ravvicinata, mentre quel che deve ravvicinarsi è la"mise en scène sapiente quanto generosa" [11], emergendo dalla distanza - è come se il mare crepitasse, è come se dalle piccole crepe si polverizzi la salsedine.

La Sicilia o almeno un'eco di coloriture e di temi potrebbero aver animato altri studi di nature animali:ad esempio, di Natura morta con gambero del 1957, ma anche di quelle coeve con canocchia, con pesce, ambedue del '55; sicuramente dato il titolo di Natura morta con gambero e pesce San Pietro del '56 e di Natura morta con pesce San Pietro dell'anno successivo.  E anche certe costruzioni orientate sul germinare di spettacoli di fantasia quasi surreale — Il soffione del'64 o, su un piano diverso, Composizione del '75 oppure Agosto di due anni anteriore— debbono forse qualcosa al carattere effusivo e in parte appena dispersivo e libero di un temperamento mediterraneo, che si compiace e gode del gusto d'incidere quadretti di feste agricole e paesane, carri dipinti, il teatrino dei "pupi": "Kermesses e processioni patronali — come ha rilevato giustamente Leonardo Sciascia - di quella che Serafino Amabile Guastalla chiamava l'antica contea” [12].

Ma che in Gulino abbia agito un'ardente e diritta naturalità primigenia che s'affondava, o prendeva stanza, in una realtà antropologica e familiare, è fuor di dubbio.  Non per mera casualità Francesco Carnevali [13]  rilevò nelle sue produzioni di ragazzo e discente, e in conclusione di artista ancora in fase di apprendimento e di maturazione, frantumi di figurine chiassose e rissose traboccanti entro luoghi ed esempi non ricondotti all'ordine né dai valori prospettici né dai grumi segnici.  Il punto è che quella vivacissima prestezza e, se così si può dire, materiale aneddottico che via via gli affluiva da un patrimonio memoriale, rimangono sì conquistati e acquisiti una volta per tutte, ma all'interno di una dimensione in cui l'impeto resta come bloccato ed è messo in cornice:  posto in soggezione di un segno grafico severo ed esatto sotto il rispetto formale.

Insomma — e qui tornano le interrogazioni iniziali — Urbino (secondo quanto ha annotato Liberto de Libero;  altro meridionale trasmigrato nel centro Italia- deve aver raggelato con i suoi venti frescolini e polari e con i suoi inverni la loquela e il carattere di Gulino.  Onde, dagli anni giovanili e dalle prime prove, un'enunciazione linguistica che si omologa sulle matrici stilistiche della scuola locale.  E una "scrittura" che soffonde la propria materia non più nel caldo effluvio di un temperamento acceso, ma invece e intuitivamente nelle gradazioni ed equiparazioni di un coltivato tratteggio elettivo.  In effetti Urbino, e per essa l’apprendistato alla Scuola del Libro [14], forniscono al nostro artista i mezzi per oggettivare il suo sguardo lirico: preciso ed analitico nella solitaria elaborazione formale;  capace di inedite e inaudite bravure nei giri armoniosi ma anche lacerati - di quelle modulazioni tessute sulla pagina fittamente e intricatamente; ma anche in grado (lo ricordava Walter Fontana [15]- di operare per diffrazioni e oscurate fluenti aggrumazioni, per scarti ed eliminazioni.

In breve, dove Nunzio Gulino si produce in eccessi e in flessioni impetuose, si ha un'unità non raggiunta e s'incontra il gioco dei passaggi forzati o inconclusi, e reciprocamente l'impallidire delle forme vive; dove invece quelle orditure di segni lasciano prevalere la vigilanza del controllo formale nel confronto con l'immagine, ecco che tutto diviene pieno e semplice.  Ed ecco che il medium tecnico affina la propria materia e i suoi propri caratteri nel legame con un "intelletto regolare".  Quell'eccellere per ingegno e visione d'animo che caratterizza il primo Gulino, il Gulino pre-Urbino, confluisce infine in quelle affinate prospezioni che rivelano come il disegnare grafico sia una natura tradita, rivelata dall'impegno fisico condotto a vedere con la mente;  che si propone una Bildersprache, un linguaggio delle figure, che non porta alla certezza, ma addirittura all'incertezza [16].  Onde il tratto leggero, disciolto, non più eccessivo e turbolento o confuso, ma invece silenzioso e quieto in un dire originario, il sagen del poeta, che coglie ciò che è vicino nel suo rimanere lontano [17].

 

 

III.

 

Condotto per gradi a un simile approdo, Gulino deve la sua struttura espressivo-stilistica al paesaggio urbinate e alla sua storia.  E un paesaggio interiore prima che geografico ed artistico: non mera effusione dei sentimenti, ma invece muraglia verde-azzurra e con testura formale; meglio, visione naturale e storica—le colline, il Palazzo Ducale, la fuga dei tetti, le pinete — interna a quella forma, in primis la incisoria, nella quale riconoscersi nel profondo e in radice.  Così rapidamente nel corso di un breve tempo Gulino consuma tutte le ingenuità e gli ardori giovanili e isolani;  modifica il proprio stile nativo flettendolo sul desiderio di misura e sull'accorto calcolo di spazi: gli stessi che Carnevali in un suo scritto ritrova e indica con la memoria in una stampina perduta di quegli anni, "limpida, un piazzale vuoto, edifizi, una giostra" [18]

Urbino e la sua cultura, potremmo dire la sua stessa realtà umana e spirituale, cambiano radicalmente la mente del giovane siciliano.  Ma, per spiegare tale rapida metamorfosi e insomma la nascita dell'artista, altre ragioni appaiono imperative, anch'esse legate all'Istituto del Libro:  l'imposto dato alla ricerca incisoria da tutta una squadra di artisti e artigiani, il contributo e le spinte in altre parole dell'operosità locale;  la fortuna di crescere interiormente e tecnicamente nel rapporto con l'impareggiabile magistero di Leonardo Castellani, l'intelligenza della cui opera è anche il tramite all'opera di Giorgio Morandi, che "incide all'acquaforte con segni sottili e fluttuanti,che suggellano l'immagine in pura realtà mentale" [19].

Già però carichi di interesse e di essenziale e radicale valore — come tra gli altri studiosi suggerisce Paolo Bellini — sono stati gli anni dell'esordio di Gulino, il quale supera, o per meglio dire "doppia", la maniera castellaniana, quale poteva comparire nelle sue prime prove, e come compariva a lui giovane autore, per giungere ad una propria personale dimensione e misura.  Sempre Bellini — in uno scritto del 1996 licenziato per "Grafica d'arte" - menziona un'acquaforte del 41, La morte del cacciatore, in cui l'adunarsi negli spazi prospettici del disegno di figurine che commentano l'avvenimento ha il potere di evocare una stampa affine di Jacques Callot: "Simile l'argomento, simile il modo di rappresentare, identico lo spirito del racconto"  [20] aggiunge lo storico dell'arte milanese.  Precisando, tuttavia, che non si tratta di un fenomeno d'imitazione, quanto forse — aggiungeremmo noi — di una precisa collocazione in una linea ugualmente ideale come inevitabile per chi volesse cimentarsi con una tecnica tanto rigorosa quanto elettiva.

A Callot si sarebbe presto aggiunto Stefano Della Bella, e l'avrebbero aggiunto i critici, da Leonardo Sinisgalli [21] a Virgilio Guzzi [22] e ad Agostino Ghilardi [23].  Ma anche in questo caso il richiamo a una tradizione palesemente alta vale solo per il carattere di esemplarità e di una con giunta rimarchevole qualità degli occhi dell'autore giovane che ne vagheggia e insegue i ritmi sulla distanza di diversi secoli.  Un motivo di legame tra i due grandi maestri del Seicento e Gulino è dato da come l'artista siciliano si ponga davanti alla realtà e successivamente la realizzi.  Certi suoi fogli svelano una trasudante pietas, un sentimento spirituale di qualità interiore rigorosa (verrebbe voglia di dirla "nordica"- che si traduce insegni nitidi, sia a livello d'interpretazione che di adesione (Il Santuario del 1944-;  altre tavole come quelle de La notte di Natale del 1944 scoprono un umorismo grottesco, di vena e di calore popolaresco, che potrebbe restare incomprensibile nel suo iter creativo se non lo si calasse nella realtà letteraria di Nikolaj Gogol. 

Per Gulino la cosa significata e il segno significante — in una serrata lettura filologica — sono un altro elemento di affinità con "L'atmosfera favolosa" [24] del Callot dei Balli di Sfessania o Cucurrucu del 1621 (in cui s'è voluta vedere "una certa analogia fra queste stampe e i Songes drólafiques de Pantagruel erroneamente attribuiti a Rabelais [25] e col Della Bella de Le cinque morti del 1648-62: con un segno che "si connota anche nella ricerca dei motivi razionali/irrazionali, reali/surreali, che popolano questi fogli (anche i più spogli- di domande senza risposta" [26].  Alla luce bianca, appena segnata sulla carta, si contrappone il dettaglio in cui il reticolo dell'incisione si infittisce e si annera e lo spazio misurato della lastra diviene architettura di pieni e vuoti il cui rapporto è sempre di equilibrio. 

Similmente sarebbe avvenuto nelle opere della maturità, in questo legame con l'antico, con il rimando ai maestri dell'incisione Novecentesca, da Morandi a Viviani e a Maccari, da Bartolini a Zancanaro e a Mandresi, ma in un'ottica di riconoscimento delle "virtù di stile" e di "magia operativa" del Gulino:  così aveva sottolineato nel '73 Alfonso Gatto [27].  O per dirla con Leonardo Sciascia [28], quale marcatura di un'essenzialità monacale che, alla stessa stregua della triade Morandi Viviani-Bartolini, sa ricondurre a quell' "aura disemplicità" che ritroviamo anche in Gulino.  Tutto ciò in stretta congiunzione, sul piano degli effetti stilistici, con il sovente riscontrato e d'altronde ampiamente confessato magistero callotiano che avrebbe spronato il nostro a "quell’ expolio lento e pacato di forme e spazi" [29].

 

 

IV.

 

Sulla fine degli anni Quaranta cresce l'attenzione per Giorgio Morandi, la cui lezione morale "era troppo sensibile per non avvertire il crollo delle illusioni più tenaci, ma anche troppo artista per tradirle" [30].  Poi arrivano interminate suggestioni più difficilmente immaginabili in un incisore:  Gauguin, Van Gogh, Bonnard, Vuillard (questi dato con maggior evidenza-. Vedansi Eva nel giardino e Nudo di donna con fiori a mostrare come l’ apprentissage della cultura di Urbino [31] sapesse aprirsi all'influsso dell'arte internazionale, senza distinzioni oppure limitazioni storico-cronologiche.  È un modo per appartenere al tempo però altrettanto per sfuggirgli;  e, infatti, il problema della forma guliniana si specifica a un livello profondo condotto però all'incontrarsi con il nostro e il suo presente. 

Nella misura morandiana di acqueforti del 1949 quali Aguglie, Case e Pagliai lievita quel raro fascino che è privilegio delle opere in cui la smagliante tecnica esecutiva si fonde con la seduzione dell'immagine insolita e singolare e, pur tuttavia, talmente naturale da far credere che Gulino si sia limitato a ritrarre quel che già "l'azzurrina levità dei luoghi dell'anima" [32] offriva e che l'occhio comune non riusciva a scorgere.  Questi suoi "notturni" ripercorrono all'indietro l'operare dell'artista-stregone [33] che riga il nero fumo della lastra con i rivoli di luce argentata della punta incisoria:  ecco perché il sole non può segnare la scansione temporale di queste scene;  ecco perché un chiarore senza consistenza, senza origine e senza limiti, penetri e trasformi le parvenze reali in fantasmi d'ombra. 

Il celebre e ammirato labyrinthus-ricamo, o segno lavorato e cesellato dall'artista di Comiso, si porta dietro l'eco di trinate ornamentazioni arabo-bizantine.  Ma poi la trama segnica, fitta e incrociata, sa dimensionarsi sulla misura del paesaggio urbinate:  più la campagna circostante che non il centro feltresco, a dire la verità.  E un paesaggio carico di storia, ma anche pieno di natura: una visione ferma ed essenziale che, tradotta nelle tavole di Gulino, appare tutt'insieme Natur-Bild e Kunst-Bild.  Pensiamo a veri e propri capi d'opera come La piana di Canavaccio del '54 oppure Campagna di Urtino del 1955, ma anche a Paesaggio del '53:  non solo esiti artistici di grande rilievo, ma anche e soprattutto "lingue" e "segni" di attraversamento del mondo, per l'affermazione di un proprio mondo e un proprio sguardo.

Ma la culla rimane sempre lì a Urbino, nel crogiolo di talenti e di esperienze -  anche didattiche — della Scuola Statale d'Arte di Urbino, nell'insegnamento oggettivo eppure implicito di Leonardo Castellani e di Francesco Carnevali, nell'aurea religione rinascimentale dello spirito locale (Urbino città dell'anima, avrebbe postillato Carlo Bo-, ma anche nell'umanesimo della natura e della vita in campagna. Urbino come biblioteca ideale e insieme caleidoscopio di fantasie esatte e libere, ma anche Espace d'air — per usare la lirica segmentazione baudelairiana richiamata per Gulino da Libero de Libero [34] in cui l'elemento soggettivo e onirico, abbarbicato alle radici mediterranee e siciliane, trovava modo di oggettivarsi nelle intavolate prospezioni della "scrittura" incisoria guliniana.  In un segno che pare interrogarsi e modularsi sulla precisione esecutoria, ma che poi quasi inavvertitamente — e senza darlo troppo a vedere — si trasforma in declinazioni ritmiche e nella specificità di un'acidatura lavorante e morbida, sospinta ad arabescare e poi acquarellare l'universo.

 

 

V.

 

Il lavoro degli anni Cinquanta ha per Nunzio Gulino il valore di definizione e di sperimentazione del suo peculiare segno espressivo:  una tessitura particolare e molto meticolosa, che lo differenzia dai modi degli altri incisori urbinati.  Si tratta di un segno plasmato quasi su un'unica intensa tonalità, non suscettibile di molteplici morsure; esemplato su modalità cromatiche coerenti e non variate, tendenti al grigio.  Ma è un grigio leggero, impalpabile, per il cui tramite Gulino può avvicinarsi a quella dimensione vagamente, cioè ariosamente metafisica, che il nostro amava e prediligeva (e che continua ancor oggi ad acclarare-.  Di fronte a fogli come Il giardino della Signora Peppa del '54, Stradina di campagna dell'anno appresso e La sveglia del '58, la prima impressione è quella di una luce arcana e cristallina, non naturale, che fissa immutabilmente le forme, abolisce il tempo e la corruzione, elimina l'atmosfera, diffonde quiete, palesa un'ordinata essenzialità.  L'impressione è anche di un'antica misura che emerge come da uno scavo;  e si sa che gli scavi possono essere fatti nella storia o nell'inconscio del "principio di piacere sul principio di realtà'' [35].

Sotto il rispetto iconografico, ci si trova in presenza di un Fabulieren, nel quale si perde il senso del racconto, della prospettiva, della profondità, grazie a quella texture-ricamo interpretata per tale in una pagina critica di Carlo Munari: "I pesci di Gulino certamente esistono, ed anche i fiori, gli oggetti sono consunti, fanno parte, anzi, della nostra conoscenza persino domestica.  Eppure, una volta riportati sul foglio, si costituiscono quali elementi di un mondo diverso e remoto, divengono componenti del Paese della Poesia" [36].  Il racconto smarrendo le proporzioni si disvolge in superficie; tanto che in quella orbitano oggetti singoli o elementi incandescenti o almeno accesi, in tal senso più importanti del prospetto complessivo oppure del paesaggio, quando esso sia presente.

Se nelle prime incisioni è possibile intravedere una narrazione estesa e piana — il disegno dei mercati agricoli, siculi oppure urbinati, non a caso assonante La fiera di Soricinez di Nikolaj Gogol (testo illustrato da Gulino con una serie di acqueforti nel 1944 per un libro edito dall'Istituto del Libro-; nelle tavole degli anni successivi si ritrovano un teatrino e un'allegria tipiche di certo Palazzeschi.  Questo per dire di un archée di forme e di grovigli, in cui si irradia l'ardore dei campi dorati di grano e dei girasoli appassiti, e lucidi antichi stupori sulla grande natura.  S'incontra quella luce d'Occidente con i trasfiguranti, spirituali e astratti bagliori delle antiche icone d'Oriente.  Si tratta di un'incredibile alchimia, di luce naturale e di luce d'anima, sicché il ricco mondo immaginativo di Gulino appare immerso in fluide atmosfere di sogno. Tanta è la forza allusiva del segno e profonda la sua risonanza che esso, nelle tavole Natura morta con paesaggio del '55, Equilibrista in Urbino del '58 e Capriccio n. 1 del '59, pervade l'oggetto, conferendogli vitalità dal di dentro, corrodendone la sostanza plastica, sino a prospettarlo come un puro fantasma dell'immaginario.

L'idea della vita in quanto inscenamento di persone e fatti, congeniale alla fantasia interiore di Gulino, si ritrova in congiunzione con un gusto illustrativo che si correda di richiami letterari che rammentano - ci puntualizza Fortunato Bellonzi - "certi istanti panici della poesia di Giovanni Pascoli:  con quel senso del mistero che essa ci comunica in componimenti come il Bolide, per citarne uno tra i più comunemente conosciuti.  E altresì è pascoliana la luce, velata, come di lucerna cui faccia schermo una mano" [37], che finisce per mescolare senso e gioco nel cielo alto e rabescato del testo, nel quale il grumo d'inchiostro dell'io dell'artista pare estinguersi come una rimbaudiana etincelle d'or de la lumiere nature [38].  Non per nulla, in due acqueforti del 1962, La margherita e Il re di danari, c'è un gusto decorativo e ricostruttivo di atmosfere lievi e oniriche, latamente surrealistiche, soglie in direzione di mondi "altri" e inconosciuti che solo il segno linguistico dell'arte può avvicinare, o almeno far vedere per un attimo.

Ma il ricamatore all'incisione non si subordina al referente esterno e ai suoi oggetti e temi, e invece si costruisce tutto sul valsente del segno grafico:  meglio sul suo rilievo liberato da ogni grevità e peso.  E un intricato corredo segnico che avvolge e ingloba gli oggetti e i paesaggi, ma per scioglierli da ogni legame naturalistico e ogni referenzialità e affidarli a un territorio del sogno, che è "nella diafinità un enigma da decifrare" [39].  La réverie di Gulino coincide essenzialmente con il tempo dell'immagine, e salda nella insistita struttura figurativa della stampa calcografica memorie e luoghi che possono appartenere a momenti diversi dell'esistenza.  Poiché l'impalcatura creativa della sua écriture per figure è proprio il sogno del desiderio, dell’ orexis, che acquista: "la pienezza del suo carattere simbolico" [40] spontaneo è lo scambio tra figura e forma scaturite dall'inconscio (Lo specchio del 1963- e altre nate dall'incontro con la realtà dell'esperienza (La casa di Emilio del 1965-.

Anzi, proprio per questo non separare il mondo del sogno dall'esperienza cosciente (conferendo invece all'immaginazione la possibilità di spaziare in un campo vasto, entro i cui confini stanno tanto l'impatto emotivo con il reale, quanto memorie e miti della propria storia, e infine anche la materia sconosciuta e metaforica del lato invisibile, per così dire illogico della forma e dello spirito,  senza il quale "la verità esterna non è completa" [41],  si comprende bene l'estraneità di Gulino alla poiesis surrealista:  che non è rifiuto della visionarietà del movimento bretoniano, bensì consapevolezza che un proprio mondo poetico già sussiste naturalmente, non per intellettualismo assunto, ma per un ineludibile fondamento della propria arte.  L'affabulazione utopistica è del tutto determinante nell'Erfindung, nell'invenzione incisoria di Gulino, ma in una sfera che elude sperimentazioni e scoperte, e fa parte di quel compatto cosmo espressivo che può —  s'è visto .  talora dilatare i suoi confini, ma sostanzialmente sempre riportandosi su un unico centro la complessa natura, visibile e invisibile, dell'uomo e delle cose.

 

 

VI.

 

Invece di essere vibrante come interviene in genere nell'incisione (tanto che nell'unica puntasecca realizzata si avverte qualcosa di tagliente-, il segno di Gulino è piano, tonale. Nel bianco e nero dei grigi infiniti, come fantasmi dai contorni intimiditi, le silhouettes — precisa Carlo Alberto Petrucci — "nascono da campiture accostate a mo' d'intarsio, mantenute quasi sempre in una gamma media priva di eccessivi contrasti, che parte da bianchi luminescenti, pacati, lardacei e tiepidi come di giada, tipici della sua arte" [42]. Non affidato alla singola unità o al valore a sé (come accade per i classici, da Picasso a Chagall, da Villon a Carrà-, ma al contrario ad un grappolo di tracce e a un disegno d'insieme. Non v'è perentorietà nel singolo segmento, v'è all'opposto il suo flettersi — e il flettersi degli altri tanti segmenti — verso un modello e toni generali.  Da ciò un'unità poetica che arriva e si chiarifica da momenti delineativi e larghi, anche in senso letterario.

Quanto alle morsure sulla lastra, essi si avvalgono di un acido invecchiato: non virulento, nemmeno bruciante su singoli tratti, incline non ad allargarsi in superficie, ma a scendere in profondità. Probabilmente è il precedente di Castellani, che invecchiava l'acido inserendo pezzi di metallo dentro la bacinella, a muovere Gulino alla volta di un'affine meccanica.  Perciò l'acido, così trattato, agisce non rapidamente, ma in un decorso di tempo che porta a incidere in verticale.  E ne sono testimonianza le matrici incise su zinco, su rame e su ottone, immediatamente essenza pentimenti come un'opera Zen, trepide nel segno, liquide negli spessori, colte come un fiore trepido di rugiada. Appunto perché sigillo di un'individuazione simbolica -  più di natura musicale che letteraria "nel significato di questa fuga immobile" [43] — nel contorno sicuro, nei tratti appena segnati di ombre, senza far perdere nulla di quello che meno concisamente Gulino esprime negli acquarelli e nelle tecniche miste.

Altro elemento tecnico di rilievo pare essere la vernicetta: che non può essere grumosa, e dev'essere invece pura, diluita alla perfezione. La nuance del grumo è infatti usata dagli artisti come orma cui tener dietro per eventuali suggestioni.  Lo xilografo guarda le venature del legno e anche certi esiti poetici sono dati e orientati da tecniche con la vernice molle o la maniera a zucchero.  Nulla di ciò in Gulino.  L'incisione è in lui segno puro e liberatorio — come capita nel solo Castellani, come neppure sempre avviene in Morandi -: segno che unicamente delinea il tono, il modo generale della tavola, malgrado l'intrecciarsi minuziosissimo delle singole scaglie dentro un tappeto tonale di straordinaria intensità.  In fondo, Gulino è l'unico degli allievi di Castellani che ne abbia rispettato i principi tecnici fondamentali, ma non ripetendone i motivi e i paesaggi lirici, né reiterando la forma classica del maestro urbinate, invece assumendone i tratti in vista di una propria personale elaborazione e scrittura che "ha dentro l'Oriente".

 

 

VII.

 

Dopo dunque i vasti quadri iniziali, gremiti e affollati di personaggi -  e orientati oltre che da modelli europei anche dai disegni e dalle illustrazioni di Carnevali, che "si snodano lungo il racconto con una puntigliosità rispettosa delle unità classiche aristoteliche, per poi modularsi entro l'architettura labirintica della Favola" [44]—, un periodo che potremmo dire di sintesi cubista o meglio neo-cubista, con piani geometrici irti e rilevanti (che ricordano, lo annotiamo, la maniera figurativa dell'allora giovane Giorgio Bompadre, anche lui della scuola urbinate-, Gulino arriva a quella sua cifratura stilistica, che sarà poi la costante del suo lavoro sino ad oggi. 

La svolta, o se si preferisce l'approdo, si compie sul finire degli anni Cinquanta. Il suo annuncio era stato in una qualche misura fornito da certi tratti incisori evocanti un carattere francese ed europeo: un modo di trattare il segno, soprattutto nel paesaggio, che ricorda artisti come Estève e Manessier e in genere lo stile dell’Ècole de Paris.  Dal microcosmo urbinate Gulino sa aprirsi a un macrocosmo internazionale: non smarrendo tuttavia le radici e al contempo precisando la propria scrittura grafica.  Tale struttura si è sostanzialmente mantenuta sino alle opere della recente maturità. Ciò nel senso di un mondo poetico saldamente confidato a una propria maglia espressiva. 

Certamente la Koinè di Gulino è paradigmatica di quanto una cultura d'immagine sia presente e indispensabile anche in un incisore così originale; ma i precedenti seicenteschi o settecenteschi non arrivano alla soglia della formulazione: si guardi nell'acquaforte Dietro la rete: i sogni del 1967 i cinque soffioni controfondati dalla retemetallica e dal muretto.  Si ha un bel pensare a Rousseau il Doganiere,o al nostro GiuseppeViviani de L'aquilone del '52 e di Notturno del '56, ma è un'altra cosa quello di sfogliarsi angelico di aghi arruffati e chiarissimi, timbrati e tenuissimi.  Fanno sospendere il fiato, perché un respiro più forte non li faccia cadere e al tempo stesso stanno in un altro mondo, in un dérèglement fiabesco, che riporta, "come Iride, il messaggio della luce a chi ne è il centro irradiante: quel Dio sconosciuto del secolo a cui solo nei sogni porgiamo da bere sul l'orlo del pozzo della Samaritana dove, come Narciso, per un miracolo non siamo caduti dietro la nostra immagine riflessa nello specchio oscillante che non disseta" [45]

Di qui l'impressione a prima vista di una unitarietà e per certi aspetti di unitarietà e monotonia [46]. Ma, infine, senza rilevanti differenze e fratture, il modo di rendere particolari e oggetti e il prospetto complessivo delle tavole calcografi che si è prolungato dagli esiti dei tardi anni Cinquanta sino agli anni Novanta.  Qualcosa tuttavia parrebbe essere intervenuto.  Già Carluccio, nel ricordato testo del 1972, annotava il progressivo dilatarsi della maglia del tratteggio,"quasi per una più intensa ricerca di effetti di luce solare, o per una riflessione più diretta del sentimento della natura" [47]

Senonché, l'universo artistico di Gulino presenta una grande unità, in cui la consapevolezza, e la volontà di rottura d'ogni barriera tra visibile e invisibile, interno ed esterno, rappresentano il filo conduttore che collega l'intera esperienza incisoria.  Con Estate del 1970 e Case del Sud del 1972 un tema nuovo entra nella sua Weltanschuung, ed è il simbolico del suo diverso atteggiamento creativo.  Numerose tavole di quella stagione — da L'appuntamento del '73 a Sinfonia del '76e a Colloqui del '78 — hanno per soggetto la natura morta aperta sul paesaggio, e vi compaiono talora sedie, divani, pesci nel vaso, stelle marine, tavoli netti, vecchie chiavi, scarpe, clarinetti e fiori. Questo singolare elemento compositivo si mostra non a caso nel corpus grafico guliniano con evidenza: "certe colline -  scrive Dino Buzzati -, soprattutto, immerse nel sole meridiano, senza ombra, sono di una delicatezza e di una verità incantevoli" [48].

La finestra nell'atelier di Gulino è un varco che consente di affacciarsi sull'esterno, di partecipare senza che esso prenda il sopravvento e impedisca il ripiegamento sugli "interni silenzio si, perdutamente contemplati con inesausto e incorrotto amore" [49]. Negli anni Venti Bonnard dipinge le affascinanti visioni dalle finestre di Le Cannet, in cui lo splendido rigoglio cromatico del paesaggio nato dall'incontro con le stampe giapponesi, tanto da farlo soprannominare Nabi trés japonard, invade l'interno, trasformando ogni oggetto e ogni figura in fantasmatiche presenze animate dalla luce. Eppure non c'è contiguità tra le soluzioni espressive dei due artisti.  L'unico punto di contatto consiste nella rivelazione della luce mediterranea: felice e panica per Bonnard, decantata nel poetico mondo del sogno che gli è proprio per Gulino.

 

 

VIII.

 

All'altezza degli anni Ottanta-Novanta il segno dentro la retina diventa macchia.  Superata la chiarezza, nelle acqueforti di Gulino si trova l'oscurità; alla luce che diffondono, che le fascia come una patina protettiva, si sostituiscono le ombre che, come in Borges, il poeta sceso nel buio della cecità, sono il preludio della conoscenza, e quindi della chiarezza finale, l'oscuramento prima del lampo, o anche,chissà?, un avvio alla perennità del nocturno obscuro: "Giungo al centro / alla mia chiave, all'algebra, / al mio specchio. / Presto saprò chi sono" [50].  Nelle tavole Serenata dell'80, La casa del pescatore dell' 83, Ricordi di una notte dell'87 e Attesa dell'89, tutto rimane sospeso, crepuscolare ed enigmatico: al di là delle apparenze s'incontrano incubi diurni e notturni.   E l'ordine, la cristallizzazione, sono subito contraddetti da sfuggenti legami, inafferabili miscugli di oggetti, contraddizioni insensate, "per portare in alto, in cielo verso la luna, le stelle [...] i nostri sogni" [51] da cui nasce, quasi a programma, razionale, da un ordinato disordine.

Il senso di misura antica, tanto da far scrivere a Marziano Bernardi che le acqueforti di Gulino richiamano "certi particolari paesistici [...] dei maestri senesi del Trecento" [52] si rivela prodotto dalla lenta, meditata, profondissima e tecnicamente complessa, invenzione ed elaborazione del ductus grafico.  Ma il senso vero dell'opera è di una sconvolgente modernità, che supera, anche se tocca, la modernità della pittura metafìsica e surrealista, e richiederebbe una formula di inedita scoperta estetica.  Questa modernità, e il fascino che ne emana, sta tutta nelle suddette contraddizioni, negli ossimori, e nella loro spontanea convivenza e fusione. Se ancora avanti si poteva avere la valorizzazione della matrice, con parti chiare lasciate in evidenza e con la modulazione di un grigio unitario fatto non di contrasti, ma invece di minime variazioni, il procedimento ulteriore, senza tuttavia troppo accentuarsi dalla norma fissata, punta su rilievi per così dire d'atmosfera.  Inizia, insomma, la nuova fase, pur data la coerenza sostanziale, dell'attività guliniana.

Il risultato è stato descritto numerose volte. Le immagini si costituiscono per il tramite di un avvicinamento ritmico di singoli innumeri tasselli tra loro lasciati intersecare e anche dialogare.  Il paesaggio urbinate è quello che trae linfa da questa vena: una poetica, o una visione del mondo, che è anche movimento di forme, anzi esiste in sua funzione e virtù che accompagna "con naturalezza il mondo leopardiano (i momenti idillici, non le ore dello strazio-— e non saprei chi oggi, morto Morandi, lo potrebbe far meglio in Italia (o almeno con più spontaneità- – perché l'artista, nato in Sicilia ma vissuto lungamente ad Urbino, è un innamorato del paesaggio marchigiano" [53]

Ma accanto, e vorremmo a questo punto anche dire oltre, alla suggestiva concisione e alla severa costruzione dei motivi consoni all'incisione, quelli che le appaiono infine tipici (o che lo sono stati storicamente-, accanto all'irrompere di una diversa suggestione"su una superficie di fondo compatta, ed unitaria, che suggerisce l'effetto dell'acquatinta e nulla concede al biancore del foglio, prende forma un mondo fiabesco e sognante sospeso in un'atmosfera piena di suggestioni".  Ove si sviluppi e però anche si interpreti questa indicazione di Marina Massa, gettata su carta un decennio fa [54], ci si trova a spalancarsi su di un territorio misterioso; definito volta a volta con il ricorso alla natura e al lirismo; un qualcosa che utilizza l'ispirazione georgico-idillica di alcune primarie segmentazioni, oppure il gusto intimista, ma quanto invece interiorizzato, degli oggetti e di certi scorci, per addivenire a una misura segreta e magica. 

E una peculiarità che si sarebbe potuta ben cogliere anche in acqueforti degli anni Cinquanta si dica per esemplificare La vecchia quercia o L'orto di Canavaccio del '54, oppure Solustro lungo il Foglia dell'anno successivo—, ma che forse meglio irrompe ed è più leggibile, nella serie di "nature morte" con pesci e gamberi o con paesaggio: tale quella del '55 con un vaso di fiori in primo piano collocato in piena evidenza su una seggiola.   Se si prende un singolo testo come Natura morta con gambero e pesce San Pietro del '56 o, all'inverso, La fornace sempre del '56, ricadiamo in un ambito e in uno sguardo che ci appaiono o ci sembrano tradizionali.  Ma si veda Composizione A del '61: un gambero in primo piano ingigantito rispetto alle cabine in legno dislocate al centro dell'immagine, sulle quali tende e appoggia il retro del corpo. Oppure Paesaggio con girasoli, ancora del 1961: rarefatto, scevro d'ogni plasticità e intento solo a dare fantasmatica vita.  La luce mediterranea combacia qui, quanto alla suprema spirituale astrazione, con un'architettura "di rarefatta perfezione" [55], che assume nella purezza del linguaggio incisorio, con l'argentea, metafisica luce di un'antica icona orientale.

 

 

IX.

 

Il quotidiano colto nella sua dimensione comune diventa in qualche modo insueto. Cavallucci marini e gamberi si avvitano sugli oggetti e si atteggiano in singolari e rapite conversazioni (Fresie del 1963-64-.  Il paesaggio si stringe in linee che lo assorbono quanto profondità terragne, o lo dilatano verso una musica cosmica (L'ultimo sole del '63-; oppure esso si popola di irripetibili escrescenze animali o vegetali (Alberi del '63-: qualcosa che è recondito e misterioso e che irrompe infine nell'universo poetico di questi lavori.  Così improvvisamente, e quasi inavvertitamente, la materia lievita e galleggia entro bolle d'aria (Estate del '70-.  Le lische di un pesce racchiuse e stese nello stomaco di un gatto dall'occhio dilatato si modulano ritmicamente con la carcassa di un altro pesce affilato e lungo all'infinito, posante si su un vassoio nel tavolo (Il colloquio del '67-.  Dal fondo del foglio, per effetto del virtuosismo tecnico, il tratteggio segnico come una ragnatela imprende quasi a sommuoversi: attraversato e toccato da eteree vibrazioni.

Occhi inconoscibili si accendono e guizzano nel groviglio degli oggetti, e di lì si fanno strada verso noi che li guardiamo attoniti e ci guardano a loro volta (Composizione del '75-. Le presenze vive si immettono nel rango delle cose morte, dando loro vita e fiati (Tempo di favola del '67-.  Figure lievi si compongono con inediti e impensati collegamenti: stelle marine sopra foglie larghe quali mani (È caduto il vento del '67-, la canocchia sul divano (Solitudine del '71-, dove Gulino perviene a una sintesi netta nelle sue forme e nei suoi toni, quindi al potenziamento della sfera umana in un cor inquietum che richiama l'Apuleio delle Metamorfosi, in "un particolare significato allegorico" [56], essenziale per il porsi della figura dell'animale come ieratica apparizione. 

Si potrebbe continuare con gli esempi e i rimandi alle varie tavole.  Ma è fuori dubbio che qualcosa di brividente ed enigmatico - un alito imprendibile, una folata di aria lieve — trascorre attraverso l'immagine delle acqueforti vecchie e recenti di Gulino.  E qualcosa da quelle immagini così trattate con la punta di metallo, quasi a "comporre una sorta di Alfabeto Morse” [57], prenda a disvelarsi e a lasciarsi vedere, accendendo e mostrando una propria intima natura. I riguardanti a loro volta si indirizzano verso una dimensione che è reale e irreale al contempo, favolosa e presente.  Decifrando una écriture grafica di cui da sempre ha compreso l'attualità e l'universalità espressiva, Gulino in Pomeriggio d'agosto del '92, Capriccio del '96 e Pensieri del '99, afferra i profondi nessi che legano tale idioma alla situazione umana, "terrestre", nella quale essa si è sviluppata e dalla quale ha trovato alimento.

 

 

X.

 

Quello del maestro siciliano è un universo fantastico fatto di spore e di cosmici ectoplasmi (La luna del 2002 e Natura morta del 2003-;  ma un universo sempre basato sugli oggetti dell'esperienza e del quotidiano — e su un proprio repertorio di immagini e temi — e virato su una intonazione surreale, quasi surrealista, raggiunta non per scelta teorica ma invece nel gioco interno dei richiami sensoriali, che paiono riproporre il tradizionale dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa e sopravvalutare soggettivamente la libertà della coscienza.  Nelle acqueforti Il clarino del 2001 e La chiave dell'anno scorso soggetto e oggetto, io e mondo, indipendenza e necessità, non vanno visti nei termini antitetici della filosofia classica, ma piuttosto nell'esperienza vissuta della percezione, dove idea e natura si costituiscono in un rapporto d'implicazione reciproca, di scambio e di interazione.

Nondimeno Gulino non diventa altro da se stesso.  Il "pulviscolo luminescente" che accende le molte tenui vibrazioni sulla superficie dei suoi fogli, e quel "tacito fulgore lunare", come ancora si esprime Carlo Giacomozzi [58], che cerca iridiscenze e depositi di luce in fìlagrane e smerigli, appartengono all'intima natura e al senso profondo del l'incisore, così come era negli anni Quaranta e Cinquanta.  Le sue tavole luminose, e però ugualmente distanziate in un loro universo, misurano l'esattezza col mezzo tecnico, ma ne disvolgono il limite verso un'illimitatezza abbagliante ed arguta,un'opera cromaticamente viva.  Se l'acquaforte nasce in bianco e nero e dai grigi perfetti e "di straordinaria, quasi inarrivabile limpidità nella scansione degli spazi e nella dosatura dei toni" [59], la suite degli acquarelli è la necessaria continuazione del lavoro grafico: una conferma poetica rispetto al tratteggio accorto e sapiente delle incisioni.  E un'espansione verso il regno del fenomenico: che si scioglie dal rigore tecnico-empirico dell'acquaforte e della calcolata armonia dell'unicità del segno.  L'effetto, forse, del contatto culturale con Roma, dove dalla fine degli anni Settanta Gulino ha voluto trasferire il suo lavoro.  Negli acquarelli infatti si può intravedere il valore prospettico della "Scuola Romana": Ciarrocchi e Omiccioli, ma anche Antonietta Raphaël Mafai, quasi memoria di una stagione di scorrevoli affetti, di vicende familiari, un'eco insomma, ma sobria, di interni alla Vuillard, alla Bonnard,, non esclusa la cromia preziosa e tutta francese" [60].  E si coglie la natura fenomenica, transeunte, espansiva di quei suoi quadretti e disegni; non armoniosi come in Leonardo Castellani o in Giorgio Morandi, ma invece materiati di piccoli, trasalenti ingorghi materici. 

L'acquarello è in conclusione in Gulino dissonante rispetto alle tavole d'incisione. E però la magia dei colori ci riporta al gioco di polivalenze e filtrazioni — un trapasso di luci, la giunzione policroma — che si svolgono nel riverbero di quell'altro spazio e universo, che l'immaginazione liberata suggerisce e lambisce.   Si tratta di un avita diversa e silente in cui vibra e si effonde l'intima natura dell'artista e dell'incisore.  La luce guliniana — come quella di Vivianie di Barbisan - non consuma, non brucia, non folgora, ma raggiunge pacatamente, e rivela una sorta di metafìsico ralenti della traccia nel suo farsi signe; poeticamente stampa la visione, stampa e sfrangia i profili e i piani come epifanie di luce che hanno maggiore corporeità della parvenza dei volumi.   Nell'acquaforte di Gulino non va riconosciuta la fluidità indifferente del tempo, ma la mens lucida del poeta che eleva nel firmamento un canto puro ed assoluto. 

 

 

Floriano De Santi

 


[1] Cfr. Thomas Stearns Eliot, Four Quartets, Faber and Faber, London, 2001.

[2] Eugenio Montale, Ossi di seppia, in Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano, 1984.

[3] Walter Benjamin, Dos Passagen-Werk, Gesammelte Schrifien, voi. V, Suhrkamp, Frankfurt, 1982; tr. it. a cura di G. Agamben, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino, 1986.

[4] Idem

[5] Nunzio Gulino, presentazione del catalogo della mostra alla Galleria Viotti, Torino, 1972, p.7.

[6] Paul Klee, Uber die moderne Kunst, Benteli Varlag, Berna,1945; ed. it. Sull'arte moderna, Grafica Edizioni d'arte, Roma, I960. È un discorso pronunciato nel gennaio 1924 in occasione della sua mostra al Kunstverein di Jena.

[7] Alfonso Gatto, presentazione alla cartella Gli incantamenti di Nunzio Gulino, con quattro acqueforti, Sellerio, Palermo, 1973.

[8] Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino, 1997, p. 34. Sul rapporto Klee-Benjamin si veda G. Scholem,Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano, 1978.

[9] Leonardo Sinisgalli, Invenzione, estro e ironia nelle acqueforti di Gulino, in "II Tempo", n.24, Milano, luglio 1968.

[10] Le incisioni di Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla Calcografìa Nazionale, Roma, maggio 1954.

[11] Carlo Giaco mozzi, Coralità in Nunzio Gulino, in "La Fiera Letteraria", n. 86, Roma, 19 settembre1976, p. 14.

[12] Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria "Arte il Borgo", Palermo, marzo-aprile 1973.

[13] Antologia dei tempi,introduzione allo studio monografico Le acqueforti di Nunzio Gulino, Edizioni della Pergola, Pesaro, 1978.

[14] "Esiste — sia pure contrastata, opinabile e molto più databile agli anni Cinquanta — una scuola urbinate dell'incisione: con tanto di artisti deputati, capostipiti e ascendenti, derivati ed epigoni.  La sua caratteristica è stata e ha continuato a essere il lavoro diretto a mano propria. A differenza di quello che è avvenuto nelle megalopoli della cultura figurativa, stante il criterio della riproducibilità tecnica, a Urbino gli incisori hanno continuato ad attendere in prima persona a morsure e inchiostrazioni, al fissaggio dei segni e delle nuances, insomma al complessivo processo di stampa del foglio grafico. L'arte si è venuta completando sulla sottostante perizia artigianale, non mai dovutamente lodata e lodabile.  Questo ha significato, tra le altre cose, creare le condizioni per un quadro e una dinamica culturali, dove la parte del progetto e della concreta esecuzione, con quella impostazione di cui s'è detto, ha trovato il naturale e quasi necessario proseguimento negli spazi della ricezione, della diffusione, del ragionamento critico. L'idea, infine, che il foglio grafico (calcografico, xilografico e litografico- dovesse essere realizzato in un certo modo non apparteneva soltanto agli artisti, ma anche agli insegnanti della locale Scuola del Libro, ai galleristi, agli acquirenti agli stampatori.

Questi ultimi, in particolare, sono arrivati ad un grado tale di bravura da essere ricercati in tutta Italia traducendo in concreto, dai tratti del disegno o abbozzo pittorico all'esito grafico, opere di celebratissimi pittori che si pensano inopinatamente anche maestri dell'incisione, e di quelli che, pur producendo stampe e smerciandone a iosa sul mercato, sanno di non essere punto incisori. Non trovando a Urbino la possibilità di una solida intrapresa commerciale,molti di loro -con tanto di diploma e con un bagaglio di esperienze in proprio .  hanno trasmigrato un po' ovunque, soprattutto nel Nord.  Si sono associati, sommando perizia a perizia, curiosità a curiosità: e hanno fondato stamperie invidiatissime e frequentate.  La diaspora, deprivando il Montefeltro e Urbino di tecnici preziosi, ha però arricchito il tessuto culturale dell'intero paese.  La lontananza .  relativa, dal centro d'origine non ha portato a compromissioni e in ultimo a dimettere i caratteri basilari: che, in uno con il lavoro degli artisti operanti e con la tradizione rinascimentale, già Marco Valsecchi individuava nel "segno nitido e secco" della stampa (Floriano De Santi, La scuolaurbinate dell'incisione, catalogo della mostra al Gabinetto delle Stampe Antiche e Moderne, Centro Culturale Polivalente, Bagnacavallo, 1996.

[15] “Con occhi da Mille e una notte scende ora Gulino in mezzo agli orti a udire palpiti serotini e notturni (o il microcosmo delle esistenze arboree!-, coglie luci e trasparenze del Foglia, quasiun plein air d'argento, annega in antichi interni profumati di provincia, con gladioli rigogliosi, ginestre bianche in fuga, là dove ogni cosa s'agita, viva e trema come dentro un limpidissimo acquario. Né va taciuta,dello stesso periodo (1955-, la grande composizione della Natura morta con paesaggio: una sedia enorme, d'ombra, con un vaso fiorito, e il paesaggio dietro metaurense vastissimo chiaro al centro, senza più confini di cielo: il primo importante apparire di un metafìsico 'oggetto' con rapportato rimando spaziale, questa volta un fondo tappezzato, minutamente descritto" {Le incisioni di Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria "II Camino", Pordenone, 1958-.

[16] GeorgeSteiner,Vere presenze, trad. it. di C. Bèguin, Garzanti, Milano, 1992, p. 95.

[17] Cfr. Martin Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968.

[18] Francesco Carnevali,Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla "Saletta degli Amici dell'Arte", Modena, 1957.

[19] Floriano De Santi, II linguaggio dell'incisione II, Edizioni del Comune di Cellatica (Brescia-, Cellatica, 1982, p. 20.

[20] Gulino primo e ultimo, Rivista di storia dell'incisione antica e moderna e storia del disegno, Milano, aprile-giugno 1966, p. 27.

[21] Op. cit.

[22] La raffinatezza di Gulino, in "II Tempo", Roma, 30 aprile 1968, p. 3

[23] Purezza e stile di Nunzio Gulino, in "L'osservatore Romano", Roma, 1 marzo 1981, p. 5.

[24] Alfredo Petrucci, Maestri incisori, De Agostini, Novara, 1953, p. 50.

[25] Ibidem, p. 41.

[26] Aldo Cairola, Introduzione al  catalogo della mostra Jacques Callot, Stefano Della Bella, dalle collezioni di stampe della Biblioteca degli Intronati di Siena, a cura di P. Ballerini, S. Di Pino Giambi, M. P. Vignolini, Centro Di, Firenze, 1976, p. 20.

[27] Op. cit.

[28] Op. cit.

[29] Libero De Libero, op. cit., p. 7.

[30]  Franco Solmi, Morandi: storia di una leggenda, Grafìs, Bologna, 1978, p. 107.

[31] "C'è un lascito delle generazioni attive dopo la seconda guerra mondiale che, nel caso degli artisti urbinati e non, impegnati a insegnare nella Scuola del Libro di Urbino, ha oggi qualcosa non soltanto di inconsueto ma altresì di assolutamente eccezionale e forse anche irripetibile (o almeno irripetibile nei termini in cui quelle passioni e quel lavoro si espressero nei folgoranti e [...] tutt'affatto esaltanti anni Cinquanta-.  Tale lascito concerne un novero di personalità e di talenti che vedevano nell'arte e nella cultura un contributo alla ricostruzione del paese, in senso morale e materiale. 
Quel che accadeva in ambito letterario e cinematografico si prolungava con naturalezza nella cittadella degli artisti
figurativi.  Nessuno era in una qualche demonia - per così dire -  delle proprie specializzazioni, e del resto “fra l'istituto artistico di Urbino e l'arte italiana c'è stata una profonda collaborazione, una larga rete di scambi” (Carlo Bo, Cento anni di vita dell'Istituto d'Arte di Urbino, in Atti del Convegno I Centenario della fondazione dell'Istituto d'Arte (1861-1961-, Urbino, 1961, p. 11-. I poeti e i letterati seguivano le produzioni degli incisori, da cui erano stimolati.  E gli incisori ed i pittori, anche quelli che apparivano imperiti di scienza letteraria e filologica, attingevano ampiamente al lavoro degli intellettuali della parola.  Nessuno poi si distraeva da un confronto con la realtà materiale e politica:  e anche questo rendeva grandi e imperiose tutte quelle attenzioni e attitudini.  Nell'aurea isola urbinate, i due capisaldi erano rappresentati dall'ateneo feltresco (in anni in cui con Carlo Bo erano attivi e presenti Piero Rebora, Fabio Cusin, Rosario Assunto, Alessandro Parronchi, Arturo Massolo e quel Leone Traverso, germanista d'eccezione, [...]- e poi correlativamente dall'Istituto del Libro, allora glorioso e vivo delle presenze luminose di Leonardo Castellani, Francesco Carnevali, Carlo Ceci, Pietro Sanchini, Umberto Franci, Arnaldo Battistoni, Nunzio Gulino, Renato Bruscaglia, dei più giovani Dante Panni, Enrico Ricci, Giorgio Bompadre e Walter Piacesi.  Al di fuori delle due istituzioni, altri contribuivano ad arricchire questo radiante tessuto: lo storico dell'arte Pasquale Rotondi, soprintendente al Palazzo Ducale, l'allora giovane Egidio Mengacci, fondatore della Galleria "L'Aquilone" e vera e propria anima della nostra enclave urbinate, l'ancora poeta Paolo Volponi, che aveva però lasciato la città ducale, il giovane Ercole Bellucci, l'ingegnoso e oltremodo talentoso Armando De Santi.  Tutte figure purtroppo scomparse nei vortici di questo trapasso di secolo e di universi" (Floriano De Santi, Arnaldo Battistoni. Il paese dell'ombra, saggio della mostra antologica al Palazzo Ducale di Urbino, Edizioni del Comune di Urbino, febbraio 2001, pp.13-14-.

[32] Floriano De Santi, Leonardo Castellani. Opera grafica, con un'introduzione di Carlo Bo, Fabbri Editori, Milano, 1986, p. 15.

[33]  "Nel processo dell'acquaforte le coincidenze con l’opus alchemico sono non poche: abbiamo la partenza da un metallo oscuro (oggi rame e zinco, ma allora ferro-, l'impiego di un acido corrosivo, del fuoco che scalda ed affumica;  abbiamo le fasi, le attese e le misteriose trasmutazioni della forma.  La sostanza mercuriale che attacca la 'materia prima' era chiamata dagli alchimisti acqua nostra, mercurius vivus, argentum vivum, succus lunariae, acetum fontis, ma anche proprio acquefìortis: 'una acqua forte potente — commenta Jung — che dissolve tutto ciò che è divenuto e fa nascere la più duratura delle formazioni: il misterioso Lapis”.

Per l'achimista l’opus poteva svolgersi in termini chimici (metabolismo dei metalli-, ma insieme fisici (trattamento della pietra- o geometrici (quadratura del circolo- ed infine puramente interni, con riferimento alla potenza creativa del logos: immaginare è creare, e infatti il mondo fu creato logos, ovvero plasmato dalla mente e dal verbo di Dio.  Questa è la ragione per cui alcuni trattati identificano il vaso delle trasmutazioni con l’occiput, cioè con il cranio; e questo è il tema della celebre incisione di Dùrer Melanconia I, eseguita a bulino nel 1514, proprio nell'anno in cui, in prove meno impegnative, il maestro di Norimberga cominciava a sperimentare l'acquaforte" (Floriano De Santi, L'immagine e il suo doppio, Ricerca della pittura internazionale contemporanea fra realtà fìsica e metafìsica, Grafìs, Bologna,1984, p. 7-.

[34] Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria "La Minima", Torino,1969.

[35] Cesare Musatti, Commento al libro di Sigmund Freud Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 593.

[36] Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria Viotti, Torino, 1967.

[37] Presentazione alla cartella Cinque acqueforti di Nunzio Gulino, Edizioni Nemo, Città di Castello, 1966.

[38] Cfr. Arthur Rimbaud, Illuminations, a cura di M. Matucci, Sansoni, Firenze, 1952.

[39] Maria Zambrano, II sogno creatore, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 87; si veda anche sull'esperienza dell'artista avvertita come estrema Franco Rella,  Dall'esilio. La creazione artistica come testimonianza, Feltrinelli, Milano, 2004.

[40] Ibidem, p. 92.

[41] Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989, p. 28.

[42] Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della VII Quadriennale Nazionale, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1956.

[43] Valerio Volpini, Incisioni di Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra al Centro Culturale Olivetti, Ivrea, 1965.

[44] Silvia Cuppini Sassi,Una scuola fastosanegli ambienti, conventuale nei silenzi, in La Scuola del Libro di Urbino, a curadi P. Zampettie S. Cuppini Sassi, Arti Grafiche Editoriali, Urbino, 1986, p. 38.

[45] Piero Bigongiari, // caso e il caos. Dal Barocco all'informale, Cappelli, Bologna, 1980, p. 106.

[46] "Se infatti l'altissima capacità tecnica rappresenta in un certo qual modo il denominatore comune alla maggior parte dei grafici urbinati, la padronanza rivelata in questo campo da Gulino appare addirittura sbalorditiva quale frutto di fatiche e tentativi mille volte ripetuti, condotti con spietato rigore sino a raggiungere, nel dominio assoluto della tensione nervosa e nel mascheramento dello sforzo doloroso imposto dal controllo delicato di una approfondita elaborazione materica, quel piano di resa caratterizzato da una viva spontaneità capace di dare quella sensazione di facilità e scioltezza nell'esecuzione che contrassegnano le pagine migliori di Gulino. La perfezione del risultato può, nella raffinata complessità dei valori, fare talvolta gridare al miracolo, come dopo l'esito felice di un prestigioso giuoco di equilibrio. Un giuoco a cui riesce quasi sempre la ventura di evitare sia l'errore anche più piccolo, sempre fatale in questo caso, come il pericolo di quel tecnicismo, seppur di livello superiore, che ebbe talvolta a caratterizzare certe esperienze urbinati. Non meno straordinarie e stupefacenti, nel loro contrapporsi a tale complessità strutturale, risultano quella estrema parsimonia e limitazione degli elementi base impegnati e quella purezza e semplicità del processo tecnico, capacidi contraddistinguere soltanto la compiutezza emotiva e linguistica dell'artista autentico"(Giorgio Trentin, presentazione alla cartella Cinque acqueforti di Nunzio Gulino, a cura di A. Carrain e A.M. Prandstraller, Padova, 1962-.

[47] Luigi Carluccio, op. cit., p. 7.

[48] NunzioGulino, in"Corriere della Sera", Milano, 9 dicembre 1967.

[49] Riccardo Bollati, Nunzio Gulino, in La Scuola del Libro di Urbino, op.cit., p. 120.

[50] Jorge Luis Borges, El elogio de la sombra (1965-, in Opere, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano, 1984-85.

[51] Franco Simongini, Viaggio fra i Maestri dell'incisione: Nunzio Gulino. L'acquaforte come scienza, in "Vita", Roma, 18 marzo 1972, p. 14.

[52] Ottocentisti piemontesi e uno splendido incisore, in "La Stampa", Torino, 9 marzo 1967.

[53] Renzo Guasco, Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria"Dantesca", Torino, 1977-78.

[54] Nunzio Gulino, in Dalla Traccia al Segno. Incisori del Novecento nelle Marche, a cura di S. Cuppini, De Luca, Roma, 1994, p. 141.

[55] Giorgio Mascherpa, Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria Gian Ferrari, Milano, 1967.

[56] Federico Roncoroni, introduzione alla Metamorfosi di Apuleio, Garzanti, Milano, 2002, p. XVI.

[57] Giorgio Mascherpa, op. cit.

[58] Nunzio Gulino. Incisioni 1939-1967, nota critica nel catalogo della mostra alla Galleria "Astrolabio Arte", Roma, 1968.

[59] Ferdinando Camon, Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla "Steven Gallery", Padova, 1978.

[60] Guido Giuffrè, Nunzio Gulino, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria dei Greci, Roma, 1993, p. 9. Riportata alla concretezza delle sue radici urbinati, la poetica di Gulino, con ilsuo mondo come "nonsenso", recupera una parte considerevole della cultura europea, e non solo artistica. "Se i suoi esordi erano caratterizzati da una forte vena realista, in quegli anni portata avanti dalla Scuola Romana, in seguito — come nelle opere che vediamo in mostra — Gulino scopre la sua propensione al geometrico senza astrarre, al simbolico senza eccedere in connotazioni metafìsiche. Raggiunge sapori quasi da favola, da incantesimo, da mondo irreale comequello di Alice nel paese delle meraviglie e cristallizza le nuove campiture,i tratti sempre più fitti e ritmati, in modo che diventino la sua cifra distintiva e connaturata" (Debora Ferrari, Gulino, Piacesi, Foretti ... ad un tratto ..., catalogo della mostra al Museo Salvini di Cocquio Trevisago, Edizione Grafica Varese, maggio 1998, p. 8-.