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Itinerario di un artista, un maestro, un uomo 

di Franco Mazzini
 

La ripresa dell'attività pittorica: 1977-1989

 

Nell'ottobre del '78 Ceci si congeda dalla scuola con qualche anno di anticipo, fruendo dei benefici di legge come ex-combattente. Una scelta più che comprensibile, di fronte ad un'offerta allettante dello Stato che egli aveva servito in modo esemplare per quasi trentacinque anni. Lascia la scuola naturalmente salutato da molti di quegli attestati di cui dicevo, cui si aggiungono un «abbozzo per un giudizio su Carlo Ceci» di Pasquale Rotondi (questo sì da florilegio critico) ed una lettera (tutta da leggere!) del «vecchio Carnevali», il quale, nella clausola d'augurio lo ammonisce: «Ascolta te stesso, sempre e non aver timore di rivelarti» [i]. Forse un velato incoraggiamento a riprendere. Ma nessuno, in generale, ci pensava: chi per essere da tempo avvezzo a vederlo aggirarsi fra i torchi litografici in veste di insegnante; chi per considerarlo ormai un «maestro», dai contorni ben delineati in forza dei suoi precedenti, non un artista da scoprire.

Ma Ceci aveva già ripreso a dipingere.

La scuola aveva restituito un uomo appagato, in quanto convinto «di esserne uscito dignitosamente»; un uomo sempre riservato e solo, ma in effetti consapevole di essere circondato dalla stima, dalla riconoscenza e talora anche dall'affetto di tante persone, non importa se lontane. Ciò attenua il rammarico, benché accantonato, «di aver subordinato spesso» il lavoro personale alle esigenze della scuola, dalla quale tuttavia sente di avere «imparato molto». Ho stralciato queste parole da una pagina di diario che l'artista mi ha fatto leggere, e dalla quale traspare una serenità pensierosa. Alla fine, si augura di continuare, «come ieri e tanti anni fa, a leggere, a studiare, a lavorare».

Di questo nuovo stato d'animo è specchio la stessa pittura alla quale è ritornato come - non è una novità - a un naturale caro «diletto». I due «mazzetti» di rose (cat. 114 e 117; il secondo dedicato alla madre, allora scomparsa) segnano una ripresa di contatto con la natura in chiave di intimità morandiana. Analogo contatto è avvertibile anche nella Spiaggia in febbraio (cat. 116), che non riprende esattamente dai modi di Urbino del '59; v'è infatti un nostalgico compiacimento illustrativo in quelle carte abbandonate sulla sabbia, e una tentazione di descrivere, sia pure ridotte all'essenziale, qualle schiumose crestine dell'onda che si spegne sulla battigia. Anche nei dipinti seguenti, del '79, non sembra che, per il momento, egli intenda riprendere il discorso de II piccolo circo: il dialogo con la natura sì, ma meno ermetico e colto, più diretto e teneramente cordiale, spesso e volentieri in vista del mare, inteso come confine di un «infinito» leopardiano, oggetto di un desiderio struggente forse legato a impressioni e ricordi remoti, tra infanzia e adolescenza. Così nella confessione del medesimo artista, la cui visione va costituendosi, ormai di regola, sempre più dalla memoria di un luogo. «Ho potuto osservare alcune Marine a tempera [. . .] ch'egli mi disse vedute a Pesaro in varie ore e in diverse giornate» - annota il Carnevali nell'86 [ii]. A me ancora, Ceci ha detto di aver dovuto ritornare sul posto (mentre lavorava a un dipinto) per imprimersi meglio nella memoria - soltanto nella memoria! - un certo colore che in quel medesimo luogo aveva una volta notato: alla foce dell'Esino, alla cava, al Furio, a Fiorenzuola di Focara (che sono poi località ricorrenti in alcuni titoli di dipinti) ed in altri luoghi che, pur senza un distintivo toponomastico, quando siano restituiti nei dipinti, rivelano i segni della patetica ricognizione di un preciso ambiente naturale: come appunto è il caso di La foce dell'Esino (cat. 123), pieno di cielo e di luce; di Collina a Fiorenzuola di Focara (cat. 127), dove sembra fissata, sul posto o per prodigio di memoria, quella luce che c'è sull'Adriatico marchigiano nei tardi pomeriggi estivi, col sole alle spalle, mentre il cielo comincia a tingersi di rosa.

Già la sua quotidiana esistenza — me lo ha confidato e lo capisco benissimo - scorre come su di un fondale di continui ricordi della vita vissuta: quelli gratificanti in primo piano, mentre quelli che li sono meno possono tuttavia guardarsi con distacco, senza amarezza.

E memoria di luoghi, e di emozioni e sentimenti a quei luoghi legati è la sua pittura: in questo, fedele alle origini. Ma ora la presenza umana ne è definitivamente esclusa, sia pure nei panni della maschera o marionetta simbolica. Quindi, salvo le rare eccezioni dei «fiori», è pittura di paesaggi, quasi sempre visti da lontano, iscritti in quei cartoncini telati di poco più di un palmo di lato (quasi mai superiori ai trenta centimetri!) e che pure danno la sensazione di spazi infiniti, ma spopolati, senz'altri segni di vita che quelli dell'ambiente naturale,dove, se c'è una casa è disabitata, e come se l'uomo se ne fosse andato per sempre.

Dicevo di un colloquio con la natura ora più immediato. Lo dichiara il suo modo di dipingere, anche oltre il 79, e fin verso l'86 all'inarca, quando, con graduale processo, vedremo riaffermarsi quei valori di sintesi formale raggiunta nel '54, con un punto d'arrivo all'Urtino del '59. Ma ora il colore - «trovato» subito anziché per rovello perfezionistico - è perciò liquido, trasparente fino a lasciar scoperta la trama della tela bianca. Le gamme, come sempre, hanno settori limitati, quasi monocromi, con dominanti adeguati al soggetto. E, soprattutto, questo colore è trasparente non soltanto nei cieli e nei lontani fatti di velature impalpabili, ma anche dove, nei primi piani, una trama connettiva di segni sottili, ora esibiti senza ritegno, modella discretamente volumi essenziali e ne suggerisce, senza descriverla, la specie - terra, sabbia, bosco, prato e così via - abbastanza perché si possa immaginare di trovarsi là in mezzo. È una trama così ordinata e pur di segni diversi, da somigliare a volte ad una selezione cromatica neo-divisionista: vedi, fra gli altri, Colline (cat. 119), Paesaggio con casa bianca (cat. 120), Collina verde (cat. 122), Paesaggio al Furio (cat. 128). È in sostanza il recupero di certi modi grafici delle origini, quando i tratti di pennello ricordavano le orditure a punta di matita. Ma si tratta, ora, di un recupero parziale, adottato quando occorra, per metter a fuoco un primo piano o definire un particolare; e liberamente coniugato a campiture piane o sfumate di colore, tendenzialmente chiaro nonché trasparente. E ancora: a differenza che in passato, codeste trame sono leggibili nel loro vario costrutto (a volte più di tocchi che di tratti) e quindi con esiti di trasparenza pienamente coerenti a questa rinnovata visione. Dico appena rinnovata, perché «Ceti» vi è sempre inconfondibilmente riconoscibile. Con la variante - giova ripeterlo - che tale visione non è più conseguita attraverso tormentate elaborazioni di elementi materici eterogenei, poi consunti, cerati, ripresi, graffiti, come fin dai primi dipinti del '38 e quindi fra il '46 e il '51. È una pittura fatta di materia quanto mai semplice, starei per dire povera; così come semplice è il costrutto sintattico dell'immagine, talora di una «facilità» quasi irridente, mentre è frutto di sapienza figurativa e anche di cultura per quanto ormai sublimata. E tutto è poi sempre calato entro una certezza geometrica, nel rigore dell'equilibrio compositivo: tutto, intendo anche il movente sentimentale, come la memoria del luogo e di quant'altro può esservi umanamente connesso e che non compare nell'immagine; tutto, anche il «diletto» del fare. «Abolite le mani (e anche la materia dei colori). Ceci dipinge con la mente più cuore (. . .)». Queste parole Paolo Volponi ha annotato d'acchito sul retro di Piccola marina (cat. 126). È la formula dell'itinerario mentale e «amoroso» della pittura di Ceci, con l'avvertenza, mediante quel paradosso, che un colore così lieve fa pensare di esser stato esalato anziché posato da un pennello guidato da una mano. E non è un caso che quella notazione riguardi questo pezzo, che è appena dell'80: è cioè uno di quelli che nel percorso cui ho cercato di dare un taglio sinottico, anticipano con un colpo d'ala la visione figurativa più semplificata, essenziale, tesa verso quell'astrazione formale che non esclude - come ho già detto - il senso di una realtà naturale dai precisi connotati. Sono strisce e campiture, come ritagliate e ricomposte, già viste nel '52 e '53, ma ora più scarne, più naturali e sentite, non proprio delimitate in quanto non altrimenti distinte che dal colore e da tenui viraggi di tono. Così come già può ravvisarsi nel Paesaggio d'estate (cat. 121, 1979); quindi, meglio ancora, in vari brani dell'81 : nel Paesaggio con deh bianco (cat. 131), saggio di virtuosismo luministico, con un primo piano dove ancora emergono delicate trame grafiche policrome; nel Paesaggio sull'Adriatico (cat. 133), dai colori arsi di meriggio estivo; e nella Stradina di campagna (cat. 134), simbolo di un'uggiosa giornata di pioggia, essendo ogni cosa immersa nel liquido svariare di quei toni plumbei.

Dall'81 all'89 si colloca una trentina di dipinti la cui sequenza si dirada tra l'84 e l'85 senza ragione apparente. Ma il percorso è filante, la direzione bene indicata: forme sempre meno modellate, volumi, più che suggeriti resi intuibili da stacchi e accostamenti di toni cromatici quasi piatti, variamente e appena sfumati; pennellate lievi, a volte schiumose, in libertà, non sempre accurate; materia cromatica di timbri smorzati, sempre più rarefatta, fino alla trasparenza. Tale il comune denominatore stilistico via via più evidente in questo nutrito gruppo di opere con le quali si conclude la mostra: opere dunque omogenee, in successione apparentemente monotona per il ripetersi dei formati. Ma un'osservazione non superficiale sarà ripagata dalla scoperta, ogni volta sorprendente, di soluzioni sempre nuove e di tono elevato.

Si può immaginare l'emozione provata da chi scrive nello scorrere, tutti in una volta e tutti per la prima volta, sia pure nei tempi indispensabili, quei cinquanta dipinti all'incirca che dal 78 ad oggi Ceri ha prodotto nella sua nuova casa d'artista [iii]. Opere inedite, soltanto qualcuna essendo stata mostrata occasionalmente a qualche intimo [iv]. Opere allineate come linde cartelle, in un recesso di quella casa, una dopo l'altra, neppure esposte alle pareti, e non credo per mera ragione di spazio. Opere che costituiscono il nerbo e la novità di questa mostra, ma che Ceci sicuramente non ha dipinto per questa mostra (anche se già se ne parlava nell'82), perché sappiamo troppo bene come egli sia «alieno dal suscitare interessi che non siano se non i suoi, personalissimi, colloqui con se stesso» (per giovarmi ancora una volta di una lucida locuzione del Carnevali). E nata così, silenziosamente, un'antologia rimasta finora segreta; dico antologia perché a stento riesco a scorgere momenti di stanchezza, di scarsa vena. D'altronde è risaputo che in tal caso Ceci non avrebbe messo mano ai pennelli. Se il dipinto viene da lui licenziato, e sia pure per esser riposto, è segno che è passato al vaglio severo della sua autocritica, è segno che è compiuto nel senso che si è realizzata quella corrispondenza tra «interno» ed «esterno» che egli voleva esprimere.

Parimenti a stento riesco a scegliere qualche vertice che sia particolarmente rappresentativo di quest'ultimo tratto dell'itinerario che ho cercato di ricostruire. Comincerò da una delle sue rare litografie (che tanto sono piaciute a Valerio Volpini!): è dell'82, Primule (cat. 138) tratta da una «tempera» del '51 (cat. 69), nella quale la freschezza del dipinto è tradotta in un registro di valori tonali smorzati, in delicati effetti di pastello, grazie alla calcolata sovrapposizione di diversi colori su altrettante pietre: un'indicibile «gentilezza» d'immagine conseguita mediante un superlativo dominio tecnico del mezzo litografico.

Tornando ai dipinti, La villa, dell'86 (cat. 147) è una pietra miliare, e lo stesso Autore ne è convinto. Ma per una geometria essenziale dell'immagine, l'invenzione di Marina deserta (cat. 150), dell'87, segna un passo avanti ancor più deciso, e con piena corrispondenza del registro cromatico: una nota forte di violetto in un concerto sommesso di grigi. Altro saggio in questa medesima direzione, però in chiave volumetrica e spaziale, in un alpestre deserto di verdi, è Casa bianca tra le colline (cat. 152), sicuramente un altro vertice.

Su di un versante apparentemente nuovo, sembra affacciarsi Mare dietro la collina (cat. 155, della fine dell'87), per quelle taglienti deformazioni «espressionistiche» degli alberi, visti come una sorta di geologia verde. Deformazione ottica di effetto sorprendente è l'invenzione di ha chiesetta (cat. 156, 1988) dove la sagoma inclinata del piccolo edificio è incastonata al fondo di un caleidoscopio di grigi e lillà. Subito dopo, La casa fra gli alberi (cat. 157) sembra riprendere lo stesso motivo del n. 155; come un particolare di quello, virato in toni decisamente meridiani. Poi è la volta di Meriggio d'agosto (cat. 159), che è uno di quei dipinti dai quali ci si sente come fisicamente attratti, perché possiedono una tale carica lirica — una materia sfatta, non si saprebbe se disposta da una mano sapiente o nata da un moto dell'anima - da trasmettere la sensazione di trovarsi in quel medesimo luogo.

Tuttavia, durante quello scorrere, uno dopo l'altro, di tutti quei piccoli cartoni, mi sono reso conto che qualche cosa stava cambiando: perché suscitavano sempre meno sensazioni di spazi infiniti, epperò commensurabili e vivibili; sempre più, invece, «metafisici», per il graduale annullamento di un'ottica oggettiva, razionale (come già ne La chiesetta); per il distacco ormai imminente della memoria fisica del luogo, quasi che Ceci la volesse serbare tutta per sé, quella, esternandone soltanto immagini allusive. E mi chiedevo dove, senza venir meno alla sua coerenza figurativa, sarebbe approdato.

La risposta l'ho avuta dagli ultimi due dipinti, datati '89, nei quali credo di aver riscontrato una messa a fuoco della sua visione attuale, non dirò definitiva, maturata probabilmente dopo una pausa. Soprattutto Case con cielo azzurro - che conclude mostra e catalogo (n. 163) - non è che una composizione di piani di colore, stacchi di tono, profili fuor di squadro, che, titolo a parte, continuano a suggerire l'idea di un cielo, di una collina, di una casa soleggiata; però ora liberi da concetti «rappresentativi», come da rapporti competitivi con una realtà naturale della quale quei valori formali e cromatici non sono che metafora lirica.

Forse per questa strada, non già imboccata a caso; dopo una nuova pausa di riflessione, forse già iniziata - ed ora comprendente l'avvenimento della mostra, con l'occasione di quei paragoni e di quelle rivelazioni che una mostra sa procurare — Ceci, quando ne sentirà l'urgenza, continuerà a dipingere: forse non più paesaggi fiori, arlecchini, soltanto «amorosi» pensieri.

 

  Febbraio 1990

 

Franco Mazzini   

[i] La lettera, firmata «il tuo vecchio Carnevali» è del 10 luglio 1978 ed è pubblicata in AA. W., Dalle carte di C.C. citato.

[ii] Ibidem.

[iii] È quella dove abita dal '78, in via della Stazione; casa affacciata sulla valle (proprio sotto il moderno convento clarense) quasi con le stesse visuali della prima (casa Volponi).

[iv] Fa eccezione G. Galeazzi, che nell'82 ebbe modo di vedere qualche opera recente presso lo studio dell'artista (cfr. il suo articolo, Le tempere di Carlo Ceci, anteprima al pittore urbinate, in «Azimut», Ancona (marzo 1982).

 

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