Grandezza e Dignità delle Figurine di Francesco Carnevali

Paola  Pallottino  (Catalogo Mostra 1982 - Accademia Raffaello)

 

III    GLI ANNI DEL PELLICANO

 

Solo allo specchio specchio in sogno appare.

Al silenzio il silenzio fa la guardia.

Anna Achmàtova

 

 

Quando, durante una seduta del Corpo Accademico dell'Istituto d'Arte di Urbino del 14 luglio 1925, il Presidente Luigi Renzetti aveva comunicato: 'Una domanda è stata rivolta al Direttore dal Prof. Francesco Carnevali di Pesaro, geniale illustratore, già alunno di questo Istituto il quale si offre come insegnante'[1], il nuovo ordinamento che trasformava il Regio Istituto di Belle Arti delle Marche, in Istituto d'Arte per la decorazione e la illustrazione del Libro, era andato in vigore da appena cinque mesi, e prevedeva, tra gli insegnamenti specializzati, quello di Disegno e stile dei caratteri tenuto dal Direttore Aleardo Terzi, di Incisione e Tecnica Calcografica da Tarquinio Bignozzi, di

Xilografia da Antonello Moroni e di Architettura e Prospettiva da Ciro Pavisa.

Creato nel 1861 da Lorenzo Valerio, Governatore della Provincia di Corno e Regio Commissario Generale Straordinario nelle Province delle Marche, che lo innesta sulla tradizione di un insegnamento artistico impartito durante il governo napoleonico presso il locale Liceo, l'Istituto di Belle Arti delle Marche di Urbino, vantava tra i nomi dei suoi docenti quelli di Pompeo Gherardi, Giuseppe Castellani, Ettore Ximenes, Lionello Venturi e Luigi Scorrano, la cui scomparsa nel 1924 coincide con la conclusione di un'epoca.

È infatti alla presidenza Renzetti che si deve quel nuovo corso di studi del quale Francesco Carnevali sarà, come si è visto, testimone e protagonista fino dalle origini.

Per una più approfondita storia dell'Istituto, dei suoi protagonisti e delle sue vicende, appare indispensabile rimandare al documentatissimo e suc-coso saggio che lo stesso Carnevali fu incaricato di redigere nel 1961 nell'ambito delle celebrazioni del primo centenario, e che, intitolato Cento anni di vita dell'Istituto d'Arte di Urbino, testimonia dello sforzo di obbiettività nel mettere ordine e rievocare un arco di storia così lungo e così strettamente intrecciato al proprio vissuto, già nella modestia del sottotitolo: Appunti da servire a una storia raccolti da Francesco Carnevali.

Per inquadrare, comunque, almeno i principali eventi che caratterizzarono la vita dell'Istituto fino al 1967, anno nel quale Carnevali conclude definitivamente il suo insegnamento, basterà qui ricordare che al termine della direzione Terzi, si avvicendano Ettore di Giorgio e Mario Delitala fino al 1942 quando viene designato Direttore Carnevali che avrà la responsabilità della Scuola nell'ultimo periodo di guerra e nel durissimo dopoguerra — quasi una rifondazione — fino al 1963.

'Nel Novembre mi accinsi a guidare la Scuola insieme ai colleghi' sarà infatti coadiuvato da Carlo Ceci di Chiaravalle e dagli urbinati Renato Bruscaglia, Umberto Franci, Giuseppe Paolini e Piero Sanchini, 'e mi sostenne il Commissario Rotondi nell'intricato maneggio di pratiche amministrative delle quali nulla capivo e in quanto altro lo richiedessi. Il quarantatré ebbe inizio con una forzata vacanza invernale perché non v'erano legna e carbone per riscaldare le scuole; ma avremmo potuto assistere gli scolari ugualmente accogliendoli per un'ora o due, tre volte alla settimana e assegnando loro compiti da svolgere a casa. Durante quei mesi, gennaio e febbraio, approfittai per sistemare la biblioteca [. . .] e fu proprio in quella occasione che mi avvenne di aprire volume dopo volume e di rintracciare gli antichi esemplari dei quali poi ci avvalemmo allo studio, e così nacque la prima idea di impartire lezioni sullo stile della stampa e del libro. [. . .] Ed erano, ben lo ricordo fulgenti giornate di sole e si stava sulla terrazza per togliere dai volumi la polvere come se fosse la primavera'  [2].

Sono le ultime giornate che conchiudono un'epoca e preludono a quelle ben più drammatiche delle requisizioni naziste del 1944, alle quali Carnevali si opporrà con ogni sotterfugio, cercando soprattutto di attenuare il danno della perdita di tonnellate di caratteri, il sequestro dei motori delle macchine tipografiche e il conseguente caos in cui piomba la Scuola, tanto che solo il 15 febbraio 1945 può essere considerata la data della regolare ripresa dei corsi.

A mettere a fuoco gli obbiettivi artistici e culturali dell'Istituto, potranno risultare eloquenti, oltre ai citati, i nomi di alcuni insegnanti che si alternarono nel tempo nei vari corsi: da Bruno da Osimo a Luigi Servolini, da Leonardo Castellani a Nunzio Gulino.

Tra gli avvenimenti di maggiore rilievo della Scuola, sono sicuramente da annoverare la Mostra dell'Antico libro Urbinate e dei Codici miniati del Museo del Duomo nel 1927, e nello stesso periodo la parziale fusione dei corsi inferiori con i corrispondenti corsi della locale Scuola d'Arte e Mestieri dove insegneranno, tra gli altri: Gian Carlo Polidori e Federico Melis.

Nel 1930, nell'ambito del nuovo impulso che viene dato alle Scuole d'Arte, si assiste alla nascita della «Rassegna della Istruzione Artistica», diretta per i primi quattro anni da Guido Ruberti, 'la pubblicazione di un periodico portò fervore, richiese nuovi studi e pratica di impaginazione e di stampa; il reparto di fotoincisione, dopo le incertezze di un primo esperimento ebbe tecnici esperti, il potenziale della tipografia si accrebbe di caratteri e di macchine' [3].

Lo stesso anno Carnevali, la cui cattedra è ora denominata: 'Disegno e figura con elementi di anatomia, disegno architettonico e ornamentale e della illustrazione del libro', è chiamato alla vicedirezione.

Iniziative degne di menzione, furono, sempre agli inizi degli anni Trenta, le prime esperienze di libri completamente t^\z7.&i\ dagli allievi all'interno dell'Istituto; 'Naturalmente anche se per alcuni si trattò di novelle a poche pagine, se essi 'libri' risultano squilibrati e pretenziosi, ciò non toglie che una nuova e proficua esperienza fosse da questo punto cominciata' e non ostante che i saggi pubblicati risentano tutti del clima del tempo e non siano 'nuli'altro che incisioni di ragazzi principianti, in pompose vesti e caratteri aulici con un controsenso a volte grottesco, devo dire che alcune paginette qua e là potrebbero ancora resistere' ad essi giovò comunque l'esperienza del corso di Calcografia, 'sicché i saggi degli alunni recarono non solo litografie e xilografie originali in nero e a colori, a decorazione del testo, ma anche acqueforti; e le tavole eseguite da Angelo Rossi per il 'Racconto di Natale' di Carlo Dickens e quelle di Salvatore Fiume per la 'Secchia rapita' sono ancora fra le più felici di questo primo periodo' [4].

A riprova del progressivo qualificarsi della Scuola, nel 1933 la rivista d'arte «Emporium» affida la realizzazione dei caratteri e il fregio decorativo delle copertine, proprio agli alunni dell'Istituto, che, lo stesso anno saranno presenti con le loro opere nel Padiglione delle Scuole d'Arte alla V^ Triennale milanese.

Della partecipazione degli allievi a mostre di incisione e di artigianato in Italia e all'estero, che andarono moltiplicandosi nel dopoguerra, è sufficiente ricordare quella alla grande esposizione romana sugli Istituti di Istruzione Artistica del 1939 e la serie di regolari rassegne interne, culminate con la grande mostra realizzata per il 25° dell'Istituto nel 1950.

Sembra anche interessante segnalare come a seguito di successive esperienze didattiche, negli anni Cinquanta, la Scuola venne dotata anche di una sezione di 'Disegno animato' e in seguito di una di 'Microincisione'.

Di questa impalcatura didattica, soprattutto nell'ottica specifica dell'illustrazione, Carnevali offre una interessante testimonianza in un articolo del 1936, che, nel fare il punto della situazione italiana all'epoca, enuncia in filigrana, anche quelli che saranno i punti centrali del suo programma di insegnamento.

'C'è stata in questi ultimi tempi in Italia non dirò una campagna contro il libro illustrato, ma una specie di diffidenza contro di esso.

Taluno, non a torto, dice [. . .] che il libro illustrato può essere solo quello a carattere scientifico e divulgativo, e allora oggi quale mezzo migliore per illustrare un libro se non la fotografia, così chiara, così precisa, (e anche veramente talvolta così bella) riprodotta poi in modo impeccabile dagli svariati modernissimi processi fotomeccanici?

Si fa qualche concessione al libro dei bambini e dei ragazzi, dove la rappresentazione grafica può aiutare la magia delle parole a scoprire mondi inesplorati; ma si considera tale arte per lo più come una specie di cenerentola cui raramente l'occhio del critico largisce uno sguardo distratto.

L'illustratore è una specie di pittore mancato e molte pitture mancate sono classificate col titolo infamante di illustrative. Sorgono polemiche e polemiche [. . .] la colpa è data ora all'editore, ora agli illustratori, ora anche al pubblico che non compra libri' si denuncia il 'nessuno o scarso legame fra la parte tipografica e la decorazione; dall'altro, si dice, poca cura (od educazione?) degli illustratori che, o sono disegnatori di mestiere e se la sbrigano con immutabili calligrafie, o sono pittori, anche di larga fama e quasi per degnazione o passatempo concedono la loro firma ad affrettati disegni di scarto.

Ne esce qualche cosa di ibrido cui naturalmente è da preferire il libro nudamente tipografico in cui trionfi con rinnovato gusto la nitida architettura. Giustissimo. Senonché il libro illustrato è esistito sempre; rozzo o raffinatissimo, per il popolo o per i principi, ha avuto tuttavia (aiuto alla comprensione o prezioso godimento estetico) la sua ragion d'essere.

E allora il problema non va scartato completamente con una negazione comoda e sbrigativa, ma considerato entro termini precisi. Proviamo a parlarne'. E dopo avere stabilito a priori un'analogia fra il libro e l'architettura di un edificio nelle sue varie parti, Carnevali ricava che 'il compito primo dell'illustratore (del decoratore direi meglio se per decorazione non si rischiasse di correre subito col pensiero a comuni e insulse sequenze di ornatini e di fregi) diviene allora quello di uniformarsi con umile dedizione allo stile che l'architetto (tipografo artista editore) gli propone. [. . .] Considerato in questo senso esso libro diviene, come tutte le altre opere d'arte grandi e piccine, indicatore dei gusti, delle tendenze, del grado di civiltà cui un dato popolo in una data epoca perviene'. Appare quindi ovvio 'che il dovere principale d'un illustratore sia quello di una dedizione completa all'architettura del libro. Vi sono tanti libri che richiedono figure! [. . .] Chiederei ancora all'illustratore, come essenziali, doti tecniche di somma pazienza o per dir meglio di scrupoloso amore, senza le quali è inammissibile il pretendere di decorare un libro, oggetto di dimensioni piuttosto ridotte e che per il suo carattere stesso richiede intimità'. Analizzati meticolosamente i vari modi di approccio all'illustrazione di opere narrative e poetiche, che non devono ripeterne le immagini, ma restituirne piuttosto la visione plastica da esse suscitata, e stabilita, per le opere del passato la necessità di studiarne i coevi documenti figurativi — diffidando dal cadere in noiosi archeologismi — dopo avere indicato e descritto, la vasta 'scelta di mezzi tecnici più acconci per la decorazione di un libro', Carnevali conclude con un ammonimento che è anche una professione di fede: 'ma soprattutto complessa e delicata l'arte dell'illustratore la quale altro non è, mutati i modi che quella antica ed umile del miniatore; e presuppone agile fantasia, paziente misura, profondità di sentire, sensibile cultura' [5].

Scaduto nell'ottobre del 1963 il suo incarico di Direttore, che gli era valso una medaglia d'argento nel 1955 e una d'oro nel 1962 assegnategli per meriti didattici dal Ministero della Pubblica Istruzione, fino al giugno 1967 Carnevali crea e regge un memorabile corso di 'Stilistica', il cui momento centrale è costituito dalla lettura che egli fa personalmente in classe di brani poetici e teatrali della grande letteratura, seguita dal commento e l'indagine sugli stili delle rispettive epoche, alla quale molti anni più tardi, alluderà con l'icastica civetteria: 'E il professore ce la legge bene, meglio di quello di lettere' [6].

La motivazione profonda, sottesa ad una così lunga e valorosa stagione di insegnamento, che si riflette nelle opere di tanti allievi come Hedda Celani, Maria Ciccotti, Anna Maraviglia, Ervardo Fioravanti, Franco Fiorucci, Walter Piacesi, Alberico Morena, Fulberto Pettinelli, Arnaldo Ciarrocchi, Remo Brindisi e Salvatore Fiume — che ha recentemente dichiarato: 'Credo che la sua lezione di uomo religioso e di artista dedito allo studio e al lavoro, sia stata la più efficace che abbia ricevuto' [7] — può essere così compendiata: 'Non trovo altra spiegazione per intendere la suggestione quasi carismatica che ha esercitato almeno in un paio di generazioni d'artisti che son nati ad Urbino. Se insieme alla pienezza della vocazione culturale, Carnevali ha potuto realizzarsi anche negli altri è perché ad un certo momento della sua vita è riuscito a quello che nessun artista del suo valore avrebbe mai accettato di fare: trasferire la vocazione artistica nella scoperta e nell'aiuto di quella degli altri (qui l'immagine dello starets mi torna sempre più comoda ma non voglio abusarne). Ha ridotto la propria comunicazione nello scrivere e nel disegno in proprio ai ritagli di tempo che la fatica del magistero (full day, per intenderci) poteva lasciargli. Debbo insistere su questa scelta di Carnevali non tanto per ricordare che senza di lui (e senza Castellani e poi senza i maestri che hanno saputo creare) non sarebbe nata la 'scuola degli incisori d'Urbino' e la Scuola del Libro non sarebbe mai stata quella che è stata e continua ad essere; debbo insistere perché la disponibilità a rinunciare per altri a una vocazione che l'aveva attratto in progressiva prepotenza già dai banchi del liceo, evidenzia la radice della sua integrità culturale. Tale disponibilità non è stata un tradimento (o una fuga) dal personale impegno ma un approfondimento del suo modo assoluto di vivere (semmai una fuga in avanti) e quindi una maniera di rispondere alla sua aristocratica e aperta capacità di vedere e contemplare' [8].

Parole che possono concludere anche il nostro breve riassunto della storia dell'Istituto e delle vicende scolastiche di Carnevali, accanto alle quali è ormai opportuno riallacciare l'esame delle sue attività artistiche dal momento cruciale della sua nomina a Direttore nel 1942, senza mai perdere di vista, come si è sottolineato, il loro conseguente rarefarsi e progressivo divenire tutt'uno con le iniziative e le esigenze della Scuola.

Eletto membro dell'Accademia dei Disuguali di Recanati nel 1946, l'anno successivo dipinge due illustrazioni, rimaste inedite, per la fiaba di Perrault Il gatto con gli stivali, che espone nel 1948 alla XXIV Biennale veneziana.

Il mai sopito amore per il teatro lo spinge nel 1949 a esporre accanto a Prampolini, Marussig, Pompei, Sensani, dieci studi di costumi per Le allegre comari di Windsor, di Shakespeare, alla I Mostra Nazionale di Scenografia per professionisti e amatori, organizzata dall'ENAL al teatro Rossini di Pesaro. Nel 1950 e '52 dipinge due acquarelli per il primo e il secondo atto del Guglielmo Tell, di Schiller e dal 1960 al '63 realizza quattro copertine di programmi per i Festival Nazionali delle Filodrammatiche di Pesaro.

L'isolamento e la progressiva mancanza di tempo, agiscono in favore di una sempre maggiore interiorizzazione che si manifesta con il ritorno alla natura, negli studi dal vero disegnati solo a matita 'sintesi del paesaggio pesarese-urbinate, che è paragonabile ad un canto ineffabile' [9].

Nel dicembre del 1953 espone due paesaggi alla Mostra del Disegno e dell'Incisione in Italia dal Futurismo ad oggi, organizzata a Lisbona dall'Istituto Italiano di Cultura in Portogallo, e con cinque paesaggi alla mostra: Futu-ristas e artistas italianos de Hoje, alla II Biennale 1953-54 di San Paolo in Brasile, organizzata dalla Biennale di Venezia.

E 'se il disegno' come rileva la Cuppini Sassi nel leggere in rapporto all'opera di Carnevali la prefazione di G. C. Argan 'è qualcosa che si raggiunge dopo l'esperienza della forma pittorica o plastica e ne esprime, in qualche modo, l'essenza più sottile' [10], tanto da farglielo definire 'l'architettura del suo spirito' [11], appare sempre più urgente indagarne le peculiarità tecniche e i conseguenti modi espressivi.

'Eseguiti con una matita durissima, sollevano dall'apatia delle sorprese e riconducono al vigore della consapevolezza. Sottili come il refe, minuziosi e sintetici come la curiosità dei bambini, pervasi da un candore direi quasi liturgico (tanta è l'assenza di sotterfugi e tanta, invece, la certezza nell'osservare le regole), ci si domanda come mai dalla loro delicatezza possa emanare tanta forza. Tant'è: le opere di Carnevali sono l'ultima espressione di un'arte che confidi unicamente nelle capacità dell'uomo. La loro poetica nasce dalla grammatica: una grammatica saldamente acquisita da una lunga stagionatura di consuetudini verbali'. Se è dunque vero che 'disegnare, più ancora che dipingere, è un atto di coraggio' poiché 'molto spesso la punta di un lapis o un minuscolo pennino si trovano ad affrontare di punto in bianco una superficie, che per piccola che sia, non offre alcun appiglio, come una roccia di sesto grado' [12], allora bisogna dedurre che quella perizia 'fiamminga' con la quale attraverso l'insensibile tratteggio, Carnevali riesce a ricavare lo sfumato e il tono, scaturisce dal fatto che egli 'non sente solo il segno che penetra nella carta e la grafite della matita che si amalgama con la carta, la sua adesione va oltre questa unità segno-carta, per coinvolgere tutta la persona in un processo di identificazione totale con il linguaggio e la natura della propria storia e dì scrittore. La struttura del disegno, i particolari, le sfumature, i recessi, che emergono ai vari appunti dello sguardo, si assorbono tutti e contraggono una efficace unità. Di qui la pazienza e l'intensità della sua opera, e la sua narrazione esaustiva' [13].

Nel 1956 è invitato alla XXVIII Biennale veneziana dove espone 12 disegni presentati da Pietro Zampetti che conferma come parlare del suo disegno 'significa seguire il cammino di un uomo che da anni guardando entro se stesso, ha cercato forme di espressione che fossero sinceramente, onestamente, adeguate alla sua emozione, alla sua sensitiva personalità'. Ad esprimerla, infatti, 'bastano alcune matite, nere e a colori. Guidate dalla mano, esse creano su quei fogli delle immagini, che sono la trasposizione visiva della coscienza di Carnevali, il suo pensare per racconti, la meditazione interiore che diventa espressione e, quindi, messaggio' [14].

Nel 1959 una personale allestita ad Urbino e replicata l'anno successivo a Pesaro, coincide con la stesura della citata storia dell'Istituto, che si inserisce con continuità in quella attività che lo aveva visto, negli anni Venti e Trenta prevalentemente sulla «Rassegna Marchigiana», e dal dopoguerra soprattutto con presentazioni a mostre, svolgere attenta opera di critico e studioso con articoli, atti di convegni e monografie sui principali artisti marchigiani e su aspetti della storia dell'arte locale.

Ma la fatica letteraria che lo trasformerà in romanziere, è quella che, sera dopo sera, dall'aprile del 1953 al dicembre del 1967, lo vedrà impegnato a vergare su grandi fogli protocollo, la torrentizia saga 'che si può leggere come parabola interiore, come una sorta di iniziazione alla vita', nella quale egli trasfonde una tale 'profusione di notizie intorno alla propria natura artistica e alle predilezioni culturali 71, da farla assurgere ad apologo di 'una generazione che ha visto la fine di un mito, forse di un sogno: quello del dominio della borghesia operosa e colta, apparentemente dimessa ma in realtà provveduta e quasi feroce, studiata dall'angolazione di una vita dì provincia [15].

Pubblicata nel 1972 solo per il primo quinto, che comprende — per un totale di millesettecentosessantacinque pagine — i due libri in 4 tomi: Tre giorni di settembre e Storie del tardo autunno e dell'inverno; Tavola di un luogo della terra, è una autoanalisi in forma di fiaba e favola insieme, un journal scritto nella pienezza della maturità, con 'la sfrenata gioia del primo romantico che scrive per sé e che in null'altro trova limite che nella propria ispirazione' [16].

'Per me non domando di più (né a te [lettore] del resto chiedo nulla)' [17]. L'urgenza di questa 'favola che da sempre per tutta la vita ho raccontato a me stesso' [18], è testimoniata dall'irresistibile incalzare narrativo, nel quale si avverte che 'mentre egli seguita a scrivere, sì viene formando, col romanzo, il romanziere' [19].

Opera dalle molte valenze, impossibile a riassumersi nel labirintico intreccio dei rimandi, nelle raffinate invenzioni linguistiche e nell'inesauribile vena affabulatoria, la Tavola è un sanguigno affresco sugli allusivi modi e le fantastiche etnie delle genti di Calendula, nel quale metafore simmetriche intrecciano intorno al tema dell'omosessualità e dell'innocenza oltraggiata — denunciata dalla violenza subita dal giovane Donato Gentileschi —, i ricorrenti motivi dell'infanzia, della natura e del teatro, in una partecipazione integrale al giuoco di vivere, il cui 'segno letterario', vigorosamente esplicito rispetto al 'segno grafico', si scolpisce in una lingua alto-arcaica, vivificata da ripetute accensioni ironiche.

Favola che salda il rapporto fra l'autore e il lettore in abbaglianti giuochi di scatole cinesi nella metafisica geometria dei simboli, le cui ascendenze non si possono esaurire nel generico rimando al romanzo dell'Ottocento, ma che dal caparbio misticismo de II sogno di Zola, o dalle reminiscenze settecentesche dell'amatissima La principessa di Clèves sembra pervenire alle saturazioni fantastiche e solari di Cent'anni di solitudine di Màrquez.

Tutta la Favola, in altre parole, ripropone, collegandole, una lettura amplificata e portata alle estreme conseguenze di quelle immagini nelle quali Bartolini aveva individuato il pullulare di 'mille figure: ognuna delle quali vuoi essere osservata da persona di pari estro a quello che l'ha disegnata' [20], e che 'cercano qual sia il punto più intimo ove partecipare a tutto il palpitare della scena. Talvolta ce n'è di perse che appena s'avvertono, pare siano nascoste. Eppure ovunque siano portano con sé la loro vita piena, mai un momento che siano assenti' [21] e che dai contenuti della Favola, trarranno nuova linfa per tornare a riverberare e ad invadere le opere figurative che ad essa verranno ispirate nell'ultimo decennio.


 

[1]  Op. cit. alla nota 17, p. 93

[2]  Ibidem, pp. 125-26.

[3]  Ibidem, p.  106.

[4]  Ibidem, p.  110.

[5]  Cfr. F. Carnevali, // Libro e le Illustrazioni, «Rassegna dell'Illustrazione Artistica», n. 5-6, Anno VII, Urbino, maggio-giugno 1936, pp.  144-54

[6]  Op. cit.  alla nota 4, libro secondo, tomo I, p.  169.

[7]  R. Battaglia, Prego sempre per avere fantasia, intervista a Salvatore Fiume, «II Giorno», Milano, 11 agosto 1982, p. 3.

[8]  V. Volpini, Rigore e carisma, «II Leopardi», cit. alla nota 26, p. 7.

[9]  Op. dt. alla nota 18.

[10]  Op. dt. alla nota 37, p. 225.

[11]  Ibidem, p. 226.

[12]  N. Ciarletta, F.C., in Bartolini, C, Fazzini, Monachesi, Scipione, Urbino, Galleria l'Aquilone,  1962, pp. 17-18.

[13]  G. Mosci, La litografia, «II Leopardi», cit. alla nota 26, p. 11.

[14]  P. Zampetti, Per F.C., Urbino, Quaderno 1 della Galleria Raffaello, 1976.

[15]  Cfr. C. Antognini, L'incisore di racconti, «Avvenire», Milano, 12 agosto 1977, p. 8.

[16]  L. Anselmi, C. Romanziere, «La Fiera Letteraria» n. 52, Anno XLVUI, Milano, 24 dicembre 1972, p. 4.

[17]  Op. cìt. alla nota 26, p. 9.

[18]  Ibidem, libro primo, p. 319.

[19]  Op. cit. alla nota 26, p. 9.

[20]  L. Bartolini, La prima Esposizione Sindacale marchegiana, «II Lavoro Fascista» (Roma), 15 luglio 1932.

[21]  Op. cit. alla nota 53.