Grandezza e Dignità delle Figurine di Francesco Carnevali

Paola  Pallottino  (Catalogo Mostra 1982 - Accademia Raffaello)

 

II   LA VERGA FIORITA

 

Ed avertite che sia '1 mio sembiante

da la parte sinistra afflitto e mesto,

e de la destra allegro e trionfante

Gaspara Stampa

 

Sotto il segno di una salute gravemente compromessa dalle continue ricadute, dopo una bocciatura all'esame di abilitazione all'insegnamento del disegno e le delusioni di una serie di sperimentazioni tecniche nell'ambito della xilografia e della ceramica, che riconfermano la sua vocazione alla matita e all'acquarello; migrando alla ricerca di un clima adatto alla convalescenza, per la prima volta Carnevali è lontano da casa, soggiornando e lavorando in varie città d'Italia prima di ristabilirsi definitivamente a Pesaro. E non ostante l'invocata timidezza, i risultati danno la misura della fame di esperienze di cui in realtà soffre il giovane provinciale.

Alla fine del 1916 è a Roma, nella primavera del '17 a Bologna dove frequenta lo studio del conterraneo Adolfo De Carolis, impegnato allora come si sa nella controversa e tormentata impresa della decorazione del Palazzo del Podestà, per il quale Carnevali eseguirà alcuni spolveri d'affresco, trattenendosi, finché la stagione lo consente, fino alle soglie dell'inverno. In seguito sarà alternativamente a Pesaro e a Roma, dove Francesco Sapori, ferito e congedato anche lui, lo invita a lavorare al foglio di trincea «La Giberna» del quale è direttore e al quale Carnevali collaborerà dal primo numero del marzo 1918 fino all'ultimo del dicembre, disegnando oltre alla testata, una serie di vignette e illustrazioni per i racconti dello stesso Sapori, della Messina, di Sa-ponaro, misurandosi con gli affermati Scarpelli, Sacchetti, Gustavino, Golia, Sto, e con una firma siglata da un melograno, sostituita in seguito da una mascherina — che nell'alludere al suo cognome, testimonia dell'affermarsi di una influenza déco su quella simbolista — realizza disegni al tratto nei quali le reminiscenze delle nervose grazie preraffaellite ingentiliscono composizioni affettuosamente familiari che indugiano con trepida tenerezza sui minuti particolari del quotidiano.

Dall'agosto dello stesso anno, si dedicherà contemporaneamente all'illustrazione di un calendario poetico di Sapori, il Calendario italiano, per il quale esegue all'acquarello le dodici tavole dei mesi e le relative testatine decorative, che attualmente al Gabinetto delle Stampe di Roma, resterà inedito.

È, per unitarietà e complessivo impegno, il primo lavoro compiuto di consistenza tale da consentire l'inizio di un discorso sulla direzione presa dal giovane illustratore.

Nonostante la critica abbia spesso citato Edmond Dulac [1], è nostra convinzione che le radici di Carnevali siano da ricercarsi prevalentemente nell'illustrazione anglosassone, e più che nelle suggestioni offerte dal Rachkam, suggestioni che vanno meglio riferite ai contenuti fantastico-fiabeschi della sua opera piuttosto che ai modi espressivi — è sostanzialmente estranea a Carnevali l'esplicita visione caricaturale che l'illustratore inglese raggiunge attraverso potenti e grottesche deformazioni — sembra indispensabile citare il Walter Crane del The Baby's own Aesop, per quanto riguarda il limpido uso degli elementi decorativi di stampo morrisiano e lo spiccato gusto alla notazione dei particolari, e ancora più pertinentemente, le animate scene di vita cittadina e rurale del Randolph Caldecott di Sing a Song for Sixpence, o di The Babes in thè wood, che Carnevali vide sicuramente presentati da Pica su «Emporium» e nel primo volume della raccolta Dagli albi e dalle cartelle [2].

Le dodici scene del calendario, che alludono gentilmente alle tradizionali funzioni dei mesi: la benedizione pasquale in aprile, la pigiatura dell'uva a settembre, la visita ai defunti in novembre, con tagli originali e pieni di fascino, delineano attraverso scene intense e sommesse l'anima di una provincia romantica e austera, quieta e remota, colta nelle sue mutevoli vibrazioni: dall'improvviso broncio di una ventata, al gioioso levarsi di un volo di rondini.

Qui, infatti, niente è in posa, nessuno si è disposto in bell'ordine davanti al pennello del pittore, le figurine sciamano in libertà tra siepi, muretti e sentieri di campagna, spesso di spalle, colte e fissate all'improvviso nella grazia della loro verità. E benché questi dodici acquarelli siano ancora discontinui e sovente intralciati da qualche ingenuità, 'per il candido segno che vuole descrivere un mondo innocente, privo di peso, quasi sbocciasse da uno stupito incantesimo' [3], essi anticipano un altro tema della poetica di Carnevali: quello dell'attesa del miracolo e dell'evento spiato, nel quale l'occhio dell'artista coincide con quello avidamente curioso ed eternamente stupito dell'infanzia. 'È la sua, proprio la weltanschauung dell'adolescente [. . . ] le sue reazioni sono quelle accese e candide di quand'era fanciullo'[4], che Polidori individua in quell'irradiarsi 'nelle sue raffigurazioni di un'aura di perpetua adolescenza delle cose' [5].

Dall'amicizia con Sapori scaturirà un secondo incontro determinante per l'evoluzione di Carnevali, quello che alla redazione romana de «La Giberna», lo spingerà a sottoporre a Vamba, il giornalista Luigi Bertelli direttore de «II Giornalino della Domenica», i fogli del suo calendario.

Nasce una regolare collaborazione che durerà otto anni e che vedrà Carnevali impegnato oltre che come illustratore, esordire anche come autore di racconti per ragazzi di sapore fiabesco. Basterà citare qualche titolo: Storia di pitture, di miracoli e di monete, Storia del giovane signore e del capriolo rosso, Storia del vanitoso e della sirena, per individuare il territorio nel quale si situa la sua prosa colta e raffinata, di manierata ambientazione neogotica, che raggiungerà l'apice della maturità espressiva, portando alle estreme conseguenze l'esuberanza narrativa e l'introspezione poetica, molti anni più tardi, in Favola di un luogo della terra, storia, come dice Carlo Bo, tracciata 'con penna pulita' e 'mano che non è stata usata mai per la rapina delle cose, ma per la loro bellezza' [6].

Anche nelle illustrazioni, nelle quali Carnevali puntualizza e sembra quasi dettare il codice di lettura: 'quando tracciavo personaggi delle mie figu-rette da libro, mai riescivo a trovare equilibri se non sul tré o su un multiplo di tré' [7], si rivela l'opzione al mondo fantastico e senza tempo della fiaba, con il vivo gusto alla ricostruzione ambientale e alla dettagliata precisazione dei costumi, con insistita preferenza per luoghi e tempi 'di sapore fra di Medioevo e di acerba Rinascita'  [8], che descriverà introducendo la variante tecnica dell'uso degli inchiostri colorati Pelikan a momentanea sostituzione dell'acquarello.

Il «Giornalino della Domenica», prestigioso periodico moderno che si rivolge all'infanzia della borghesia illuminata e al quale collaborano tutti gli intellettuali dell'epoca, dopo il suo periodo aureo, che va dalla fondazione nel giugno del 1906 al luglio del 1911 — quando deve sospendere le pubblicazioni perché l'editore Bemporad non è più in grado di sostenerne l'onere finanziario — risorge coraggiosamente a Roma nel dicembre del 1918, affiancando agli illustratori della leggendaria redazione: Scarpelli, Finozzi, Brunelleschi, Terzi, Biasi, Rubino, Andreini, Sto; quelli dei nuovi collaboratori: Sinòpico, Guasta, Altara, Betti, Mossa de Murtas, Bettarini, Melis, Toppi, Bernardini e il giovane Carnevali, ai quali, dopo la morte di Vamba nel novembre del 1920, e sotto la direzione Fanciulli, si andranno ad aggiungere: Pompei, Guazzoni, Mateldi, Santi, Chin, e quanti altri, appartenenti a quel gotha dell'illustrazione italiana del primo dopoguerra, potessero testimoniare la continuità di tradizione, il gusto sicuro e le scelte di qualità del «Giornalino».

A documentare l'accoglienza che l'opera di Carnevali — più di 280 disegni, nessuno dei quali, per altro, abbastanza 'di richiamo' da figurare in copertina — ebbe sulle sue pagine, basterà ricordare che dopo un anno di collaborazione, nel febbraio del 1920 gli viene dedicato, onore in precedenza toccato a pochissimi illustratori un ampio articolo monografico, con riproduzioni e autoritratto [9]. Dal 1919 al 1924 e ancora nel 1926, oltre ai suoi racconti, Carnevali illustrerà novelle e poesie di ambito prevalentemente crepuscolare di autori come Auro d'Alba, Umberto Gozzano, Arturo Avelardi, Milly Dandolo, Ugo Ghiron — nonché Luciano de Nardis e Una mamma, che nel '20 gli dedicano le loro liriche [10] — con vignette 'tagliate con mirabile semplicità, stupendamente armonizzate, sgorganti con limpida immediatezza dall'animo commosso', che 'hanno la complessità dei grandi quadri d'insieme'[11], e che si riconoscono subito 'alla impostazione figurativa, al senso dello spazio, alla qualità degli episodi, al carattere delle figure, al disegno che ne è, essenzialmente, il mezzo comunicativo' [12].

Si apre così un decennio particolarmente fecondo per la creatività di Carnevali, per la circolazione delle sue opere con la partecipazione a più di tredici mostre in dieci anni, e per il confronto con gli artisti del suo tempo. Dopo la citata partecipazione alla Esposizione degli Amatori e Cultori del 1918, è presente alla Mostra Regionale di Arte Decorativa all'Umanitaria di Milano nel settembre del 1919 e i suoi acquarelli per il Calendario italiano, appaiono dal dicembre al gennaio del '20, in una Esposizione d'Arte dedicata ai fanciulli nelle salette del famoso Caffè Cova di Milano. Intanto un evento artistico e culturale di rilievo, destinato a suscitare vasta eco anche fuori delle Marche, viene a scuotere la regione: Luigi Serra, Direttore della Galleria Nazionale di Urbino, instancabile promotore e studioso d'arte locale, del quale 'tutta la regione Marchigiana dovrà serbare memoria, giacché egli ebbe a esplorarla borgo per borgo e ne indicò i dimenticati tesori: e non solo per questo ma anche per avere guardato con benevolo occhio a quanto in essa si agitava di vivo fosse piccolo o grande' [13], organizza nel 1921 ad Ancona la I Mostra d'Arte Pura e Decorativa, che si situa a equidistanza fra le due più significative esposizioni italiane moderne di Arti Decorative: la citata mostra all'Umanitaria di Milano nel 1919 e la I Biennale di Monza nel 1923.

'Il suo pregio essenziale e la sua ragione d'essere sta in ciò, che essa rappresenta un'ampia organica completa rassegna di tutte le energie artistiche della gente picena e, inoltre, nell'aver considerato queste varie manifestazioni non in ordine gerarchico ma sullo stesso piano' [14].

Carnevali vi espone quattro acquarelli che se non sono legati ad un testo e quindi in senso stretto non potrebbero rientrare nell'esame del corpo delle illustrazioni edite o inedite, si caratterizzano, in ogni caso, per i costanti caratteri 'narrativi', vistosamente evidenziati ne ha predica di Quaresima.

L'anno successivo, nell'ambito delle iniziative promosse intorno alla I Fiera Internazionale del Libro di Firenze, Carnevali espone le illustrazioni eseguite per «II Giornalino della Domenica» e quelle per II sole di Occhìverdi di Giuseppe Fanciulli, alla Mostra degli Illustratori e Decoratori del Libro a Palazzo Pitti — frequentemente confusa con la Primaverile Fiorentina —: 'È importante notare' osserva Silvia Cuppini Sassi, 'che l'appartenere a un gruppo avvalora una collocazione critica; infatti Mario Tinti, ordinatore della Mostra fiorentina, raggruppa per tendenze e scuole gli illustratori presenti e risulta chiaro che né alle complesse elaborazioni ornamentali del De Carolis, né alla schematica spaziosità compositiva del Cambellotti appartiene Carnevali, che prende le distanze, anche dalle maniere eleganti della scuola francese alla Dulac, creando egli stesso uno stile ingenuo, semplice e raffinato che avvince e che lo avvicina alla decorazione inglese' [15].

E siamo al 1923, anno della Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Monza, dove con i 42 acquarelli per 11 sole di Occhiverdi, Carnevali ottiene, insieme al fiorentino Piero Bernardini, uno dei due Diplomi d'Onore assegnati alla Sezione Illustrazione dalla giuria presieduta da Leonardo Bistolfi.

L'anno successivo, la sempre precaria gestione editoriale del «Giornalino della Domenica», poi naufragata con Mondadori, si fonde con Bottega di Poesia che ne diviene l'editrice fino al dicembre del 1924. L'avvenimento viene celebrato con una mostra degli illustratori del «Giornalino» organizzata da Fanciulli nelle sale di esposizione di Bottega di Poesia. Carnevali è presente con 33 acquarelli che illustrano la fiaba teatrale di Giacinto Benavente: II Principe che imparò tutto dai libri, a proposito dei quali così si esprime Carlo Carrà: 'I soggetti sono ben concepiti, e per quanto la forma possa sembrare sovraccarica di mezze tinte e di romanticismo, non è di quelle passeggere. Anzi, dobbiamo dirlo subito, il Carnevali cerca come pochi di mettersi coi suoi disegni in relazione col senso recondito delle cose. Il suo tipo di disegno non è affatto scolastico e si distingue da quello degli illustratori consuetudinari per una maggiore libertà di metodo e un più largo rapporto d'intimità realistica. Nei momenti più propizi, è un dolce sognare che scioglie la misura dell'ordine fisico [il corsivo è nostro] e si slancia rapito verso l'incanto poetico' [16].

Purtroppo gli acquarelli, usati come figurini per l'allestimento del lavoro del Benavente andato in scena lo stesso anno alla Sala Azzurra di Milano, ad eccezione dei pochi acquistati da Adolfo Wildt, finirono interamente dispersi.

Sempre nel '24 e sempre organizzata da Luigi Serra, Pesaro è sede della I Mostra della Ceramica Moderna dove si confermano le qualità dei Po-lidori, Mengaroni, Molaroni, e della II Mostra Regionale d'Arte Pura e Decorativa, dove Carnevali espone, tra gli altri, i sei acquarelli che illustrano la Storia di Waldemar Daae e delle sue figlie raccontata dal vento, di Andersen. 'La saletta in cui sono adunate le sue illustrazione per libri e riviste è un'oasi deliziosa, una serra di fiori delicati che effondono un profumo sottile ed inebriante per quanto semplice e schietto. [. . .] Carnevali è candido, delicatamente sensitivo; egli riduce ne' suoi modi ogni storia e compie il miracolo dei novellatori di buona fibra, di trasportarci nel suo mondo incantato e riposante, di farci in esso indugiare con inobliabile gioia' [17].

In effetti Carnevali si può ormai considerare un illustratore in piena via di affermazione. Il moltiplicarsi delle commesse affina la qualità delle sue invenzioni come gli riconosce anche la critica. Collabora a diversi periodici e nel 1923 affronta un'opera di più complessa responsabilità, il suo primo libro illustrato: Ginevra degli Amieri.

A Milano, l'editore Raffaello Bertieri, che come Cesare Ratta a Bologna, combatte per il rinnovamento tipografico, festeggia il ventesimo anno di vita della sua rivista «II Risorgimento Grafico», affiancando alla collana Gli artisti italiani del libro, dove dal 1921 ha già pubblicato i profili di Guido Marussig, Primo Sinòpico e Armando Cermignani, una nuova collana: II libro artistico per il giovane, a tiratura limitata, dalla veste semplice e raffinata nella quale ogni particolare è frutto di amorosa cura: dai caratteri 'che ripropongono gli ultimi incunaboli italiani', alla classica legatura alla bodoniana, solida e maneggevole nella sua chiara eleganza. Il testo, ispirato ad una leggenda fiorentina del Rinascimento viene affidato a Mario Ferrigni, le illustrazioni a Carnevali. Solo altri due volumi andranno ad impreziosire la collana il cui difetto è da ricercarsi in un eccesso di rigore progettuale, così legato 'all'antico' da renderne la bellezza vagamente scostante e remota, almeno per i ragazzi a cui si rivolge. Lo stesso anno appare Guerino il Meschino, illustrato da Piero Bernardini e nel 1925 II povero Fornaretto, illustrato da Giorgio Wenter Marini.

Dalle tavole a piena pagina ai capocapitoli, fino alle vignette minime, i 42 disegni di Francesco Carnevali, che 'per deliberato proposito si compiace di parafrasare la sintassi grafica e l'andatura stilistica degli antichi, con una perfetta intuizione del carattere dell'epoca'[18], sono una minuziosa ricostruzione della Firenze tardogotica e Rinascimentale in una chiave narrativa che gioca a mescolare poeticamente citazioni dalle antiche predelle, dai codici miniati e dalle ceramiche istoriate, attraverso fresche illustrazioni nelle quali 'La linea quasi continua non segue freddamente uno schema; è invece sempre commossa nella invenzione di un profilo amorosamente perseguito. Nei particolari delle architetture non trovi soltanto motivi ornamentali di stili, ma dentro allo spartito d'arte scopri una fedeltà anche alle regole del mestiere. Così i tetti sono tessuti secondo la specie del laterizio, e i cavalletti di un'altana scoprono particolari di esatta carpenteria.

Non parliamo degli elementi vegetali studiati filo per filo, ramo e foglie, senza genericità o stilizzazioni arbitrarie. Le varie famiglie di fiori e d'erbe hanno ognuna il proprio profumo che deriva dal proprio carattere' [19], in una sorta di 'onomatopèa grafica' che esalta la musicalità del racconto per immagini.

Ma l'opzione stilistica di Carnevali non è casuale e si inserisce, riscattandola, in quella che Giulia Veronesi definisce 'certa rettorica di ispirazione rinascimentale' [20] e in quella 'tradizione gotica' imperanti al debutto degli anni Venti. Ma mentre la Bossaglia giustamente diffida dal generalizzare, interpretando la società post-bellica 'all'insegna di un'estetica unitaria e ben leggibile' indicando nelle Arts Déco 'un fenomeno abbastanza ristretto nel tempo, non esaustivo della situazione culturale nella quale si inserisce' [21]; ci sembra molto più di un giuoco di parole la sofisticata distinzione della Sassi quando afferma che la decorazione 'intesa non come arte decorativa, cioè inutile orpello di un contenuto, ma essa stessa specchio di una scelta espressiva di quegli artisti, che per ragioni di esistenza, si trovano a costruire uno schema di 'decoro' fra i propri sentimenti e il gesto ribelle, è l'ordito di quella tela, la cui trama è costituita dall'illustrazione'   [22].

Nell'agosto 1925, anno cruciale, che vedrà la pubblicazione di un altro libro illustrato da Carnevali, I poemetti della bontà di Piero Calamandrei, e la sua partecipazione alla II Biennale di Monza con l'arredamento di una camera per bambini, tutta decorata con cuscini e pannelli realizzati sui suoi disegni dalla Picus Industrius; gli viene ufficialmente comunicata l'offerta di un posto come insegnante di 'Disegno ornamentale e geometrico per il Corso Inferiore' all'Istituto d'Arte di Urbino.

'Ed ora converrà pur dire chi fosse allora Francesco Carnevali, e come avesse scritto al Direttore dell'Istituto senza conoscerlo, e chi potesse averlo presentato al Presidente.

Professore non era davvero. Egli aveva trentadue anni compiuti, e s'era sposato da uno' la moglie, Giovanna Santangelo — sorella di quel Giuseppe Santangelo detto Peppino, illustratore di elegante decorativismo che collaborava come Carnevali al «Giornalino della Domenica» — insegnava lettere al Ginnasio superiore di Senigallia dove la coppia trascorse il primo anno di matrimonio, 'ma era pur sempre lo svagato sognatore, timido e impacciato con impennate e improvvisi scatti d'ira e di orgoglio, quale era stato da ragazzo, e quale si ritrovava ad essere tutt'ora. [. . . ] Gli aveva suggerito di scrivere la lettera al Direttore dell'Istituto di Urbino, il suo protettore amico Francesco Sapori [. . . ] incontrato a Roma per caso, in istrada il Giovedì Santo. 'Torno da Urbino ove sono stato a commemorare l'annuale di Raffaello gli aveva detto Aprono una scuola per illustratori del libro sarebbe un posto adatto per te, prova a scrivere a Terzi', e la lettera dopo molte incertezze, trascorsi forse due mesi, era stata scritta.

Chi poi lo avesse raccomandato ali'attenzione del Presidente è facile immaginare: Luigi Serra che si era occupato di lui per il volume della Ginevra e per certi acquerelli esposti a mostre regionali' [23].

Come toccato da una 'chiamata', Carnevali varcherà quella porta con spirito di consacrato, affrontando l'insegnamento con alto senso di responsabilità che si trasformerà in quella dedizione assoluta che lo vedrà sacrificare alle esigenze dell'Istituto ogni sua energia dal momento in cui, alla fine del 1942, ne assumerà la direzione. Tuttavia, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, la sua attività è ancora così intensa da far ritenere che la scelta dell'impegno quotidiano che comportava l'insegnamento in una sede così defilata come la Urbino di quegli anni, tagliata fuori da ogni via di comunicazione e così legata 'a un'idea di accademia in senso alto dove però il sentimento predominava su tutto il resto. Che è poi la caratteristica di Urbino'[24], possa essere interpretata come una sorta di fuga, nella quale comprensibili motivi di esigenze economiche, di mai sopite insicurezze generate da quell'orgogliosa modestia che gli era caratteriale e, non ultima, la genuinità di quella vocazione all'insegnamento che illuminerà quarantacinque anni di vita e di storia dell'Istituto, intrecciano le loro complesse verità al punto da renderne assai ambigua la decifrazione.

Resta comunque il fatto che nel decennio 1922-1932 e negli ultimi anni del Trenta, l'opera di Carnevali raggiunge un'assoluta originalità e ottiene riconoscimenti lusinghieri attraverso i numerosi articoli che gli dedicano, tra gli altri, Carlo Carrà, Francesco Sapori, Mario Tinti, Luigi Bartolini e Luigi Serra.

Dal 1926, infatti, anno in cui è nuovamente presente all'Esposizione degli Amatori e Cultori di Roma con l'acquarello Fiaba d'aprile poi donato alla fidanzata di Guido Gozzano —- la sua cerchia di amicizie si è intanto allargata a scrittori come Diego Valeri, Fabio Tombari, Alfredo Fabietti, Giuseppe Zucca —, si impegna nell'illustrazione di una ventina di libri prevalentemente rivolti all'infanzia — ricordiamo le vignette a colori del Libro di Stato per la II classe elementare all'estero di Giuseppe Fanciulli, quelle al tratto per Il campanellino di Diego Valeri e le dieci tavole per Apina di Anatole France, nelle quali si misura per la prima volta con la pietra litografica —, che alterna alle collaborazioni a periodici come «Lidel», «La Lettura», «La Donna», vedi i limpidi acquarelli che nel 1928 illustrano le Lettere dal villaggio di Michele Saponaro sul «Secolo XX» e quelli per le novelle di Aldo Palazzeschi, Ada Negri e Carola Prosperi su «L'Illustrazione del Medico» dal 1938 al '41. Sono illustrazioni di intensa sensibilità tonale, il cui accorto uso del tratteggio potrebbe evocare il ritmo di certe sincopi del segno di Mario Vellani Marchi e Ubaldo Cosimo Veneziani da noi e ad analoghe spezzature del tratto di Guy Arnoux in Francia; ma ancora non si sarebbe arrivati a specificarne tutta la sottile alchimia grafica.

Si tratta, più propriamente, di opere nelle quali l'aguzzo segno di matita dura, analitico e reticente insieme, di macerata quaresimalità appena percorsa dalla dolcezza di subitanee confessioni cromatiche, delinea volumetrie di impianto cubista, che nell'attenzione volta all'opera di Ferrazzi e di Carrà, si evolve in andamenti Novecento che inclinano alle suggestioni di Valori Plastici e del Realismo Magico, con risultati di metafisica sospensione.

Ma nel caso di Carnevali non si tratta di Metafisica vissuta come formula o moda, la sua origine va cercata molto lontano, essa discende dalla più alta lezione di Piero della Francesca, passa attraverso la metafisica delle tarsie lignee rinascimentali e delle tavolette popolari di ex voto, e perviene ad 'un Cinquecento già più maturo e sul punto di corrompersi; addirittura muove verso un Seicento barocco' [25].

E di una latente ossessione barocca, può suonare testimonianza illuminante e allusiva il rimprovero che, nella Favola, Carnevali rivolge per bocca di un insegnante di materie artistiche all'allievo, quando lo interroga sul perché 'con le qualità naturali di cui era dotato, la sicurezza formale e la robustezza del segno' si fosse accontentato 'di un generico seicento, neppure totalmente a proposito' [26].

Dal 1927, anno nel quale nasce il primo embrione del Sindacato Artisti di Pesaro, partecipa a tutte le mostre Sindacali, Interprovinciali e Regionali, allestite alternativamente a Pesaro e Ancona, esponendo composizioni a carattere religioso: L'Annunciazione, II Santo che caccia il serpente, Sacra conversazione; un Carnevale in campagna che ottiene il Premio Duce nel 1941; e 'civili': San Benedetto e i suoi monaci e 11 giovinetto cristiano; 'questi ultimi due' chiarirà in seguito 'hanno rappresentato la mia avversione alla politica fascista' [27].

Ma soprattutto espone quegli acquarelli che potremmo definire 'illustrazioni inedite' perché nati sotto la suggestione di testi letterari e fiabeschi, come quelli per la citata Storia di Waldemar Daae; i dieci acquarelli per le Myricae pascoliane del 1925 e '27, esposti alla I Sindacale pesarese; le due illustrazioni per II principe felice di Wilde, donati al figlio di Aleardo Terzi e i sei inchiostri colorati per L'usignuolo dell'Imperatore di Andersen del 1926, presentati al Convegno d'Arte a Pesaro nel '27 ed ora in collezione privata; le due tavole di proprietà di Fabio Tombari, disegnate nel 1927 per illustrare la novella Filemone e Bauci dalle sue Fiabe per amanti; la Storia del principe Am-giad e del principe Assan, acquarello del 1930 tratto dalle Mille e una notte, e infine le nove finissime illustrazioni commissionate e poi respinte da una rivista francese per una traduzione di Fiore di Fanciulli.

Ma tra le più suggestive 'illustrazioni inedite', vanno sicuramente annoverate quelle che nel tempo Carnevali ha dipinto ispirandosi a testi teatrali, anche se va sottolineato come tutte le sue opere tendano a mutuare dal teatro non solo il taglio prospettico che esalta la composizione scenografica, ma soprattutto l'epifanica metafora del compiersi dell'evento.

'È vero che in me fosse tanto desiderio del teatro, sempre fin da bambino. Mai potuto realizzare se non nel costante gioco di un teatrino di marionette nel tempo dell'infanzia, o in uno dei burattini negli anni di prima giovinezza a cui mi dedicavo insieme ai figli di una mia sorella maggiore' con i quali, forte dell'esperienza dei primi spettacoli teatrali che aveva appassionatamente cominciato a frequentare, allestisce intorno al '21, la sua fiaba per burattini: Storia di Marzo e d'altra gente. Così che quel 'desiderio che ha un poco guidato tutto il mio disegnare, tenuto in me chiuso'[28], è destinato ad esplodere radicalmente quando afferma: 'Al di là del palco e del finto mondo che viene suscitato, più nulla esiste' [29], e a tradursi in sequenze di immagini che del teatro hanno perfino l'illusione del movimento, come nei citati acquarelli del 1921 per II sole di Occhiverdi — 18 dei quali pubblicati nel 1926 — o per II principe che imparò tutto dai libri, dell'anno successivo. Del 1928 e '30 sono sei acquarelli per II bugiardo di Goldoni, esposti a Pesaro nel 1928 e due per la Didone abbandonata del Metastasio, e infine del 1938 una scena della France-sca da Rimini, per un fascicolo de «L'Eroica» dedicato a D'Annunzio.

Ma è nel 1937 che Carnevali firma il capolavoro della sua maturità, illustrando su lusinghiero invito della Limited Editions Club di New York, La dodicesima notte di Shakespeare. Pubblicata nel 1939, l'opera faceva parte di un faraonico progetto che prevedeva la pubblicazione di tutto il teatro shakespeariano in edizioni di pregio la cui illustrazione era affidata, volume per volume ai massimi artisti di ogni paese come Gordon Craig, Manette Lydis, Arthur Rachkam.

L'opera che aveva indotto George Macy ad affidargli, su segnalazione dell'editore Raffaello Bertieri, l'ambito incarico, commissionandogli sei illustrazioni per l'edizione newyorkese, erano stati cinque acquarelli ai quali Carnevali aveva atteso dal 1932 al '35 e nei quali aveva rappresentato il primo e l'inizio del secondo atto de La dodicesima notte.

Sulla genesi della scelta di questa commedia di Shakespeare, che non è superfluo qui ricordare, si conclude appunto nel magico incanto della notte dell'Epifania, ascoltiamo lo stesso Carnevali.

'Da tempo e con insistenza pensavo di eseguire dei disegni a commento d'un'opera del grande poeta inglese.

Messa da parte l'idea di interpretare una tragedia, che, mi sembrava, le mie possibilità non potessero attingere a quei vertici, avevo diretto la mia attenzione verso un gruppo di commedie; le mie simpatie ondeggiavano da le figure marine, selvatiche e fantastiche de 'La tempesta' alla ricchezza piena del Cinquecento veneziano nel 'Mercante di Venezia' o cercavano di penetrare fra i verdi recessi del bosco in 'Come vi garba' ma ad un tratto si fermarono in maniera definitiva su le pagine de 'La dodicesima notte'.

Ve ne dirò il perché.

La distribuzione equilibrata delle vicende allegre e di quelle romanzesche o più sottilmente poetiche, trovava una risposta nel mio carattere' [30]. Qui Carnevali si diffonde sulle suggestive risonanze che avevano avuto per lui le vicende del remoto ducato di Illiria, che ambienterà sulle coste del 'suo' Adriatico, tra le ville 'roveresche' dell'Imperiale e di Mirafiore; sul vivo contrasto dei personaggi che, gli sembra 'richiami 'certe maniere' dell'arte figurativa propria a quel periodo di trapasso fra rinascenza e barocco'; sorvolando sulle altre possibili congenialità che poteva offrire un testo, che nel concludersi con il conseguimento della sessualità solo al momento dell'agnizione e ricongiungimento fra i due gemelli, — con il doppio matrimonio di Viola e di Sebastiano — sembra adombrare la metafora platonica dell'androgino.

Da queste prime cinque scene, nelle quali 'vi son dei richiami, degli equilibri continui e controllati che forse soltanto gli iniziati riescono ad avvertire'


 

[53], Carnevali trae ispirazione per elaborare il nuovo lavoro. 'Ora si trattava di ripensare l'illustrazione e di raccoglierla tutta in sei sole figurazioni; di racchiudere ciascun disegno in una misura e in una forma stabilita. [. . .] Fu così che pur scartando per esigenze architettoniche e per chiarezza di rappresentazione molti particolari che mi sarebbero stati cari, io intesi costruire gli ambienti principali della commedia in ciascuno dei disegni [. . .] e racchiudere in ciascuno di questi ambienti varii momenti dell'azione scenica , e aggiunto che 'dopo molte prove a penna, in nero, arricchite da qualche macchia colorata, finii per abbandonarmi ad un disegno puramente colorato', prosegue concludendo 'Tali i pensieri altro invero il risultato: alcune parti non rese; e quando mai l'opera compiuta soddisferà l'artigiano che la compie?' [54].

Ma se è vero che rispetto alla irripetibile musicalità dei primi cinque acquarelli, queste illustrazioni tradiscono, a volte, la tensione degli intenti enunciati, è proprio nella squisita, speculare contemporaneità delle scene, nel respiro del colore — accentuato dalla riproduzione cromolitografica — dal verde acerbo al turchino freddo, dal rosso dorato ai sontuosi violetti, ma soprattutto in quel giallo, che dalle calze — con le giarrettiere incrociate — di Malvolio, satura e accende il giardino di Olivia, e infine nella potente invenzione del punto di vista rialzato 'quasi la visione di un palco di teatro, del gioco galante dello Shakespeare giocoso' [55], si può senz'altro 'considerare questa la prova ultima, in senso di qualità, della sua raffinatissima arte di illustrare, ha penetrazione del testo è profonda, il disegno più che descrivere la commedia la ricrea, scoprendo il giuoco dell'ambiguità nel labirinto del giardino, nell'irreale leggero vento che fa lievitare in ogni scena gli oggetti, i costumi, il colore' [56].


 

[1]  L'influenza di Edmond Dulac, sbrigativamente indicata dalla maggioranza dei critici, è invece giustamente ridimensionata dalla Cuppini Sassi, vedi p. .94 e nota 37..

[2]  Cfr. V. Pica, Attraverso gli albi e le cartelle, VIII. Gli albi inglesi pei bambini, «Emporium» n. 37, vol. VII, Bergamo, gennaio 1898, pp. 46-66, poi in Attraverso gli albi e le cartelle, serie I, ivi. Istituto d'Arti Grafiche, 1904, pp. 87-120

[3]  Op. cit. alla nota 4, libro 2°, tomo I, p. 373.

[4]  F. Ciceroni, C. o dell'intensità, «II Leopardi» n. 1, Anno I, Mondolfo, 1 aprile 1974, p. 9.

[5]  Op. cit. alla nota 18.

[6]  C. Bo, // segreto di C, «II Leopardi» cit. alla nota 26, p. 7.

[7]  Op. cit. alla nota 4, libro 1°, p. 322. La meno frequente definizione di 'figurette', offre 'occasione per rilevare il ricorrente impiego, da parte di Carnevali, dell'elusivo termine di 'figurine' per autodefinire i propri disegni, così che la prevalente accezione, consacrata dal lungo uso, finirà per essere quella di sinonimo del sostantivo illustrazioni.

[8] Op. cit. alla nota 2, p. 113.

[9]  L'articolo cit. alla nota 14 è infatti abbastanza eccezionale se si considera che a fronte dell'altissima qualità dei suoi collaboratori, fino al 1921, in otto anni di pubblicazioni «II Giornalino» dedica in tutto 4 profili agli illustratori Aleardo Terzi, Umberto Brunelleschi, Giuseppe Biasi e Cesare Simonetti — vincitori del concorso delle copertine — sul n.  13 del marzo 1907; una poesia con disegno di Filiberto Scarpelli a Ugo Finozzi sul n. 43 del 27 ottobre 1907; un articolo di G. Fanciulli a Giuseppe Biasi sul n. 16 del 6 aprile 1919 e a Beryl Tumiati sul n. 30 del 13 luglio 1919, e uno di Gingillino a Edina Altara sul n. 17 del 16 ottobre 1921.

[10]  Sono esplicitamente dedicate a C. nel 1920, le liriche: Sorellina di L. De Nardis sul n. 33 del 15 agosto e Le marginine di Una mamma (Lina Fantini) sul n. 46 del 14 novembre.

[11]  Op. cit. alla nota 14, p.  18.

[12]  L. Serra, F.C., «Rassegna dell'Istruzione Artistica» n. 4, Anno II, Urbino, luglio 1931, p. 23

[13]  Op. cit. alla nota 17, p. 96.

[14]  L.S. (L. Serra), Una mostra d'Arte marchigiana, «Emporium» n. 322, voi. LIV, Bergamo, ottobre 1921, p. 242.

[15]  S. Cuppini Sassi, F.C., in Cat. cit. alla nota 8, pp. 219-20.

[16]  C. Carrà, Esposizione di illustratori, «L'Ambrosiano», Milano, 5 gennaio 1924

[17]  L. Serra, La mostra d'Arte di Pesaro, «Emporium» n. 356, voi. LX, Bergamo, agosto 1924, pp. 522-23.

[18]  Op. cit. alla nota 2, p.  114.

[19]  P.B. (P. Bargellini), Le illustrazioni di F.C., «Libri per la scuola dell'ordine elementare» n. 2, Firenze, 5 febbraio 1942, p. 51.

[20]  G. Veronesi, Stile 1925, Firenze, Vallecchi, 1966, p. 59.

[21]  R. Bossaglia, // 'déco' italiano, Milano, Rizzoli, 1975, p. 5.

[22]  S. Cuppini Sassi, Risultati di una ricerca, in Cat. cit. alla nota 8, p.

[23]  Op. cit. alla nota 17, pp. 95,96.

[24]  C. Bo, Agli amici di Urbino, ivi, Istituto Statale d'Arte, 1974, p. 8.

[25]  R. Barilli, Dalla Metafisica agli Anni Venti, in cat. La Metafisica: gli Anni Venti, Bologna, 1980, p. 15. Non è un caso che quanto Barilli qui rileva a proposito di Giorgio De Chirico, sia singolarmente riferi bile all'opera di Carnevali intorno al '30.

[26]  Op. cit. alla nota 4, libro secondo, tomo II, p. 82.

[27]  Da una lettera di F. Carnevali all'A., del 2 agosto 1982.

[28]  Da una lettera di F. Carnevali all'A., del 28 gennaio 1981.

[29]  Op. dt. alla nota 4, libro primo, p. 250.

[30]  Dalla copia dattiloscritta della lettera inviata da F. Carnevali all'editore G. Macy di New York nel gennaio 1939 e parzialmente pubblicata con il titolo: On illustratine 'Twelfth Night', in un fascicolo di propaganda editoriale.

[53]  E. Fioravanti, Quando l'arte è vero stato di grazia, «II Polesine fascista», Rovigo, 3 dicembre 1939.

[54]  Op. cit. alla nota 52.

[55]  S. Cuppini Sassi, C. o della illustrazione, «II Leopardi» cit. alla nota 26, p. 11.

[56]  Op. cit. alla nota 37, p. 223.