Grandezza e Dignità delle Figurine di Francesco Carnevali

Paola  Pallottino  (Catalogo Mostra 1982 - Accademia Raffaello)

 

I.   INFANZIA DELLE FIGURINE

      (L'immagine è un autoritratto del 1920) 

O pudore d'una infanzia uccisa,

perdonami questa indecenza di sopravvivere.

Elsa Morante

 

Naufrago saggio e volontario di quella nobile isola che nella nostra penisola è il Montefeltro, da più di sessantanni Francesco Carnevali piega la sua alta figura a ingentilire carte fiorite e silenziose, che, come altrettanti messaggi affida all'incorruttibilità del tempo.

A ottantacinque anni, nell'alludere a sé stesso come ad un "Vecchio ragazzo inguaribilmente romantico" [1]  , Carnevali esibisce solo la parte visibile e trasparente dell'iceberg, ma non svela quali sommovimenti e battaglie nasconda la conquista dell'intatta purezza di una linea, o la fatica sottesa alla limpidità architettonica delle sue pagine. E anche nell'affermare "nella mia vita tutto è stato quieto sempre e, se in qualche momento qualche avvenimento grave pareva prendere un tono drammatico, si è subito smorzato in grigio" [2], usa parole che vanno riferite solo all'esteriorità del sereno andamento di una esistenza divisa tra casa e scuola nella tranquillità urbinate, perché il muro di pudore e di riservatezza con il quale egli ha gelosamente custodito il suo io più profondo, le rendono inadeguate a rispecchiare le tempeste, i travagli e le ambiguità che scuotono le anime dei poeti.  Appare quindi parzialmente plausibile che l'insieme della critica sia stata indotta a valutazioni di carattere prevalentemente non problematico e complessivamente unilaterale, privilegiando tutti gli aspetti che potevano suffragare i prediletti stereotipi sulla insistita francescanità, angelicità e celestialità di Francesco Carnevali.

Scambiando sovente i contenuti espliciti con quelli metaforici e utilizzando una chiave di lettura rassicurante e positiva, essa ha finito per ufficializzare solo un aspetto della sua opera, al punto da indurre perfino gli editori ad accettarlo, escludendo Carnevali dalla commistione profana con tematiche che non fossero caratterizzate da espliciti riferimenti alla sfera mistico-religiosa, e finendo a loro volta per confermare, con la connotazione delle loro richieste, il tradizionale e abusato cliché dell'illustratore algidamente mistico, flebile e soave cantore del miracolo della natura e dell'infanzia, in una catartica sospensione di tempo e di luogo.

Quanto, questo possa avere inciso sull'esperienza artistica complessiva di Carnevali, e quanta parte, consciamente o inconsciamente, egli stesso abbia avuto nell'edificazione di questa sua immagine, è arduo dire soprattutto in presenza di documenti figurativi di completa pienezza e maturità espressiva, nei quali la pacificazione appare totalmente raggiunta e nessuna contraddizione sembra poterne incrinare le smaglianti superfici.

Di qui l'urgenza di ricomporre un codice interpretativo che si faccia carico in primo luogo dell'esame dei peculiari 'contenuti' tecnici, verificandone la specificità soprattutto a fronte di opere la cui destinazione è finalizzata alle tecniche di riproduzione e di stampa e in rapporto ai modi e ai mezzi parallelamente impiegati dagli illustratori coevi; rilevandone eventuali differenze o analogie con le opere non strettamente ispirate a testi letterari, ma che per epos narrativo ed elaborazione fantastica, si configurano comunque sempre come 'illustrazioni' della storia, della leggenda o della fiaba che Carnevali 'ha letto' nell'avvenimento che racconta, individuando, infine, nella sostanziale diffidenza che il suo tipo di manualità esprimeva nei confronti del 'mezzo tecnico' — dei cui progressi era per altro perfettamente aggiornato — la chiave per spiegare la contraddizione di quella inconfessata aspirazione a 'l'esemplare unico' anche nell'opera destinata alla stampa, così che per singolare nemesi la maggioranza delle sue illustrazioni sarebbero state condannate a una disperante mediocrità di riproduzione.

"Sempre così incurante del fattore tecnico per una riproducibilità dei miei disegni. Così insoddisfatto quando li vedevo resi così duri dalla carta patinata"  [3].

Il complesso della sua vicenda artistica è caratterizzato da uno sviluppo e una ascesa solida e sicura in tempi canonici, la quale, più che essere segnata da particolari precocità, si distingue proprio per la lenta, progressiva e tenace conquista di originali strumenti tecnici e culturali, attraverso la scrupolosa onestà programmatica, l'amorosa attenzione al vero: "raccogliere immagini di alberi e di fiori, osservarli come di giorno in giorno si mutino, o quali appaiano al variare delle luci, o come si pieghino al vento"  [4] e l'altera, ambivalente rivendicazione delle origini etniche e culturali, testimoniata dal motivo ricorrente e continuamente intrecciantesi del culto per la natura e l'arte della sua regione.

Questo spingere il rispetto per la natura e con essa quello per il tempo al punto di mai forzarlo, anche in presenza di una inequivocabile urgenza vocazionale, in una sorta di pudore quasi fisico, sembra da un lato alludere a desuete moralità medioevali e dall'altro a modi culturali più orientali che occidentali, come se Carnevali volesse fare proprie le parole del grande artista zen Hokusai, quando confidava maliziosamente: "Ad ottant'anni avrò fatto molti progressi; a novantanni arriverò al fondo delle cose; a cento avrò certamente raggiunto uno stadio superiore, indefinibile, ed all'età di cento e dieci anni tutto ciò che uscirà dal mio pennello, sia un punto sia una linea sarà vivente. . ."  [5].

Non altrimenti il senso della misura del tempo, in Carnevali si comporta ribaltando e dilatando le sue composizioni minime, scandite da una peculiare "visione orizzontale ampia e simultanea"  [6], a respiro d'affresco.

A manifesto compiuto ed emblematico della sua presenza nell'ambito socio-culturale della provincia pesarese nei primi anni della grande guerra, si può senz'altro assumere il famoso acquarello Lo sconosciuto, esposto su segnalazione di Francesco Sapori, che così lo descrive, alla ottantasettesima Esposizione romana dagli Amatori e Cultori di Belle Arti del 1918: "Una figura di gentiluomo stravagante, elegantissimo, appare su una spiaggia semideserta durante l'inverno. Degli uomini incappottati e delle giovanette gli si affollano attorno, tra incuriosite e ammirate. Dietro a questo gruppo musicale benché monotono, passeggiano pel mare le multicolori vele adriatiche care alla nostra infanzia. I nomi di Wilde e di Laermans tornano alla penna mentre si loda quest'opera primaticcia di Francesco Carnevali, la quale non perde il fascino d'una nascente individualità di decoratore" [7].

In realtà la descrizione appare tanto più riduttiva quando si analizzi come ai 420 x 453 millimetri di sapiente acquarello, l'artista abbia affidato, in un memorabile autoritratto, quelli che saranno i motivi centrali intorno ai quali si articolerà tutta la sua indagine artistica, ossia: l'affabulazione, attraverso inesauste narrazioni e racconti, e l'attesa, come epifanica sospensione che prelude ad eventi ignoti, nei quali miracolo e scandalo assumono valenze dello stesso segno.

In uno stile che coniuga i liquidi cromatismi verde-arancio delle antiche ceramiche pesaresi alle nordiche rapinosità grafiche di Ugo Valeri, Lo sconosciuto si erge in tutto il suo aristocratico peso dominando il centro della scena, quasi araldicamente connotato dalle ampie tese del cappello che incoronano il volto pallido e severo sotto i capelli ricciuti, volgendo le spalle con orgogliosa indifferenza all'ondata di folla che gli fa ala imprigionandolo in un cono d'ombra, e della quale sembra sdegnosamente ignorare il filo comune del chiacchiericcio e della curiosità. Avvolto nello scurissimo, morbido loden; la lunga capricciosa sciarpa intorno al collo; i guanti di pelle chiara che si intravedono sporgere da una tasca, le mani affusolate e sensibili che poggiano in controllato abbandono sul pomo di un'elegante canna da passeggio decorata, l'anello: un'antica vera nuziale d'argento lavorato, evidentissimo status-symbol all'anulare della sinistra, i pantaloni che spiombano impeccabilmente sulle ghette, tutto concorre a delineare minuziosamente la figura di un gentiluomo dandy e cosmopolita, dalla sensibilità al limite dell'ambiguo, che, dai remoti lidi ai quali allude l'impossibile mare invernale punteggiato di vele sullo sfondo, è appena piombato in una provincia dichiaratamente estranea, a costituire appunto l'evento miracoloso e scandaloso insieme.

Un wildiano Dorian Gray, bello e dannato, che ha appena letto Huy-smans e già prelude a Fitzgerald.

Suggestivo capriccio alla cui genesi potrebbe non essere estraneo l'evento di una memorabile discesa dell'aviatore triestino Gianni Widmar con il suo monoplano Bleriot, sulla spiaggia di Pesaro nel 1913.

L'autobiografismo di questa opera; che trascende di gran lunga le mere verosimiglianze formali e che rappresenta, in sintesi, il ritorno di Carnevali a Pesaro dopo la guerra, costituisce dunque un eloquentissimo documento del contraddittorio rapporto che egli ebbe con la sua terra, della quale, accanto a una tradizione culturale e classica amorosamente indagata, doveva amaramente rilevare come nella realtà 'la nostra provincia e la regione marchigiana non siano troppo gelose delle proprie energie artistiche e come, ma il discorso mi porterebbe troppo lontano, mai quivi potranno svilupparsi e vivere, accolte in un fascio, comuni tendenze del carattere della patria improntate.

(E sì che la regione non sarebbe da meno delle altre, e sì che alcuno l'ama e la sente, bellezza aspra e dolce, come rinserrata, che vuoi essere scoperta quasi a fatica, e goduta nell'intimo, in silenzio)[8].

In effetti, come rileva Pietro Zampetti nel saggio che introduce il catalogo Arte e immagine tra Ottocento e Novecento / Pesaro e provincia, 'qualsiasi vocazione pittorica è costretta dunque a fiorire altrove: Napoleone Parisani, Adolfo De Carolis vanno a Roma, Giuseppe Bartolucci a Firenze: più tardi così faranno tutti, da Scipione a Bucci, da Cagli a Licini. Quello che appare grave di questa diaspora è la perdita di identità della regione: priva dei suoi figli più partecipi alle problematiche del tempo, essa ha rischiato di essere una terra senza volto, in mano agli imprenditori e ai burocrati [. . .] Si tratta insomma di individuare se il valore dell'arte si debba decidere a Parigi o New-York, oppure nella coscienza dei singoli, se possa ancora nascere da una 'diversa' esigenza di espressione e di comunicazione degli uomini: insomma se è possibile un fenomeno 'Gattopardo' nell'arte (dunque una 'cultura' locale che non ignori le altre, anzi con quelle si confronti) [. . .] Credo che alla fine la conclusione dovrebbe essere positiva: non soltanto per il riesame di alcune personalità isolate, dimenticate o appartate (si pensi al Bartolucci, al Bucci, al Carnevali); il cui valore assoluto potrà apparire ben più alto di quanto non sia nella indicazione della critica più influente, ma anche per comprendere la qualità della loro partecipazione al continuo dilemma di essere, insieme, espressione di una propria identità irrinuncia-bile (la 'provincia' dunque come fatto creativo) e partecipi delle vicende che accadono, in un modo sempre più vasto [9].

Francesco Carnevali nasce dunque a Pesaro l'8 ottobre 1892 da una famiglia, legata da antiche tradizioni alla storia e alla cultura locale, che egli oggi così descrive.

"La storia della mia famiglia è quella dì agiati borghesi imparentati con altre di nobiltà. Io in tutta la mia adolescenza ricordo di aver assistito (e qui forse una parte del mio carattere si è formata) allo scadere graduale, nell'ossessivo dissolversi della proprietà familiare, e in piccoli ripieghi e coperture perché il decadere meno apparisse.

Dei Carnevali, Francesco rivestì in Pesaro cariche pubbliche ed era molto stimato, Remigio medico veterinario fu costretto alla fuga per motivi politici imbarcandosi su pescherecci, in Asia Minore a Konia svolse per qualche tempo funzione di medico alla corte di un sultanello. Rientrato in patria all'amnistia di Pio IX, divenne guida al Generale Cialdini per il suo ingresso nella regione Marchigiana. Morì di colera ad Ancona dove era andato per assistere gli ammalati; il terzo il più giovane Andrea, universitario, era morto sotto Vicenza combattendo contro gli austriaci.

Mio padre Raniero era perito agrimensore si occupava di piantagioni, di giardinaggio aveva impiantato un vivaio in prossimità delle mura di Pesaro' suo il disegno dei giardini pubblici di Terni 'per alcun tempo era stato lontano da casa amministratore d'una clinica convalescenziario, negli ultimi anni si era occupato di rintracciare documenti nella Biblioteca Oliveriana. Era un affettuoso genitore d'animo fin troppo generoso per nulla affatto guardingo.

La gentile mia madre Virginia nata in Albenga, da Costanza vedova Porta, soffriva continuamente per asma bronchiale, ad ogni mutamento di stagione si ammalava di bronchite spesso di polmoniti assai gravi (così o press'a poco io la ricordo quando ero ragazzo)'. Si aggiunga che prima della nascita di Francesco essa aveva perduto due figli maschi in tenerissima età. 'Un anno in cui frequentavo la quarta classe elementare passammo tutt'un inverno e una primavera a casa della Nonna in Liguria. Le mie sorelle: la prima Luisa era la mammina si sposò ch'ero ancora bambino, aveva 14 anni di più di me, la seconda, Ada, 12. In casa con noi viveva una zia nata dei Conti Spada vedova di Francesco Carnevali, donna di nobilissimo animo e di vivace intelletto alla quale devo tanto per la mia formazione.

La nonna paterna Giulia Antaldi vedova di Remigio Carnevali' sorella del marchese Ciro Antaldi Santinelli, ordinatore della famosa collezione di maioliche del Cavalier Mazza e Sovrintendente del Museo Oliveriano di Pesaro che diventerà meta delle precoci e appassionate peregrinazioni del giovane Carnevali, 'viveva nella stessa casa ma in diverso appartamento e soltanto nella tardissima età (morì a 94 anni) venne a vivere con noi" [10].

È verosimile ritenere che la formazione del giovane 'Checchi' Carnevali, nell'austero ambiente matriarcale chiuso e rigido della famiglia, abbia influito sulla sua natura esasperandone la sensibilità e la riservatezza del carattere, che, già incline alla fantasticheria, cercava evasione nei giuochi interminabili, nell'abbandono incantato e stupefatto agli spettacoli di burattini e nelle prime esperienze figurative.

Egli stesso rievoca in una folgorante 'istantanea', il suo primo incontro con le 'immagini' che risale al remoto 1896, quando, appena quattrenne ricorda se stesso in sottanelle 'in un momento che i grandi parlavano fra di loro, di fronte a uno scaffale basso una cameretta con i muri imbiancati, una finestra sopra un cortile il ricordo è quanto mai preciso, mi rivedo trarre un libretto da uno scaffale, aprirlo e rimanere incantato ad una pagina tutta fiorita.

Ma ben ricordo come subito il vecchio signore accorresse a trarmelo dalle mani, ed io rimanessi mortificato e piangente. L'apertura all'inattesa pagina, come un favoloso mondo rivelato, mi rimase fissa nella memoria e sembra avere condizionato e diretto la vita mia.

Era un codice miniato. Divenuto giovane lo riebbi tra mano e lo riconobbi: 'un calendario con le rappresentazioni dei mesi dell'anno' [11].

I volumi di letteratura italiana e francese della biblioteca paterna, dei quali Carnevali ricorda vividamente le illustrazioni romantiche, le litografie di Eugène Delacroix per il Faust, i libri di viaggi, i dieci volumi della Storia d'Italia illustrati da Edoardo Matania, I promessi sposi illustrati da Francesco Gonin, una edizione delle Mille e una notte, con favolose incisioni xilografiche e i lunghi pomeriggi trascorsi in seguito alla Biblioteca del Museo Oliveriano, dove finalmente poteva sfogliare le edizioni illustrate con 'le figure di Gustavo Dorè o anche quelle tavole del Vinelli così acutamente disegnate nel gusto neoclassico, per la storia greca e romana; e inoltre al Museo, altra fonte di godimento per me, erano le splendide ceramiche della preziosa collezione, gli 'historiati' urbinati e durantini con episodi di storie bibliche e mitologiche' dovevano rappresentare per la fantasia avida di storie e di figure del giovane 'attrazioni che vennero sempre più rafforzandosi quando durante gli anni del liceo, frequentando la casa del più caro compagno-amico avevo veduto ora nelle squisite riproduzioni fotomeccaniche gli acquarelli di Arthur Rachkam per il Sogno di una notte di mezza estate, per Alice, per Ondina; e dalle pagine di «Emporium» seguivo gli articoli di Vittorio Pica sugli illustratori italiani e stranieri'.  E' del marzo 1913 l'articolo sul 'fiammingo' Eugène Laermans le cui riproduzioni tanto colpirono Carnevali, che ne potrà ammirare l'opera Inverno, (1905-06) alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma nel 1917. 'Rimanevo incantato dai funebri disegni di Alberto Martini e da quelli perfidi di Aubrey Beard-sley . . . Devo dire poi come le mie primissime prove illustrate furono influenzate proprio dallo stile degli inglesi, ma di più mi è piaciuto e mi piace riaccostarmi, ai miniatori di codici' [12].

Sempre più intensa si palesa infatti 'la curiosa attenzione che il ragazzo rivolge ad aspetti delle cose che a prima vista ad altri possono sfuggire e si rivelano essenziali elementi del carattere' .[13] Sin da bambino aveva cominciato a disegnare e 'per tutto il periodo scolastico riempì quaderni e quaderni di figure, di processioni, di presepi, di storie dei Santi, di Via Crucis' [14].

Ma altri temi e altre suggestioni sono destinati a coincidere con il periodo scolastico, più appartato durante gli studi liceali seguiti di mala voglia, e più fecondo per incontri e amicizie negli ultimi anni del Liceo Classico, quando, la frequentazione della Scuola serale d'Arte e Mestieri per Operai, darà un senso alle sue prove giovanili impartendogli i primi rudimenti del disegno e dell'acquarello, 'La dirigeva e vi insegnava un fine, sensibile, di mente aperta pittore bolognese un acquarellista, il prof. Luciano Castaldini —' [15], e dove Carnevali conoscerà il pesarese Fernando Mariotti, pittore teso e appartato, di un anno maggiore di lui, con il quale proseguirà gli studi all'Accademia di Belle Arti di Urbino e al quale a due anni dalla scomparsa, nel 1971 dedicherà una importante monografia, e Gian Carlo Polidori, ceramista e storico della ceramica, anche lui compagno d'Accademia nella quale tornerà come insegnante nel 1931.

Ma l'amicizia da considerare determinante nella formazione artistico-culturale, oltre che umana di Carnevali, è sicuramente quella che lo lega a Gino e al di lui fratello Vittorio, figli di Giuseppe Picciòla già allievo e segretario del Carducci, che aveva sposato la figlia del pittore paesaggista Senatore Giuseppe Vaccaj e alla cui ricca e accogliente biblioteca di famiglia, dovrà le molteplici suggestioni alle quali allude nel brano citato.

Sempre legato alla famiglia Picciòla, è un avvenimento culturale di rilievo venuto ad animare la Pesaro anteguerra: l'arrivo della pittrice fanese Cesarina Gerunzi, allieva di Fattori e Rossaro a Firenze e di Achille Formis a Milano, andata sposa all'amico Gino, la cui presenza provoca una salutare scossa nella cultura locale: "Fu essa come una guida o un incitamento a rompere alcuni vincoli, a suggerire moti dell'intimo', ricorda Carnevali, che, insieme a Mariotti confessa di essere stato artisticamente suggestionato dalla sua personalità dominatrice, e prosegue:  V'era, in quanto allora vedevamo della giovane Signora, il riflesso d'una atmosfera quale poteva offrire la città di Firenze guida intellettuale d'Italia in cui convergevano elementi diversi della cultura europea del momento, l'aristocratica eleganza di marca anglosassone (vedi Lovery e Sargent, magari attraverso una ritardata eco preraffaellita), così come certe correnti sovversive ed audaci quali potevano contenersi nelle ribellioni di Ardengo Soffici, o le prese di posizione revisionistiche e mordaci di Giovanni Papini dalle pagine di Lacerba e de La Voce, e magari i clamori futuristi" [16] Notazione, che come si vede, conferma quanto già riportato nel giudizio di Zampetti in merito all'attenzione con la quale almeno una certa 'provincia' si misurava comunque con la cultura di 'fuori'.

Conclusi gli studi liceali, durante i quali era stato per la prima volta colpito da quella forma tubercolare destinata a riacutizzarsi in maniera grave per i disagi della prima guerra, a diciannove anni ottiene il permesso di iscriversi all'Istituto di Belle Arti di Urbino, diretto allora da Luigi Scorrano, che frequenterà dal 1912 al '15, e i cui ricordi più vivi resteranno 'non già i velleitari propositi della pittura ad olio ricca d'impasti, ma la lezione incomparabilmente chiara impartita da Lionello Venturi di fronte agli affreschi dei Salimbeni nell'oratorio di San Giovanni e i fiabeschi racconti della Predella di Paolo Uccello o di certi scomparti di un polittico di Scuola Marchigiana' [17].

Dichiarazione utile anche a introdurre la tesi che Carnevali si formò essenzialmente da solo attraverso l'osservazione e uno studio più letterario che scolastico, così da non potersi indicare (o non volersi riconoscere) veri e propri 'maestri' nella pratica delle arti figurative, come ci confermano anche le parole di Gian Carlo Polidori, che fra i compagni, avendolo avuto 'gomito a gomito nelle lunghe esercitazioni di copie dal vero di gessi col panno dietro e la statuetta in primo piano, lo ricordiamo freddo e stanco, non raramente assente e qualche volta sfiduciato e afflitto! Fin d'allora egli preferiva inseguire i fantasmi che gli suggerivano i Sommi Poeti, letti sempre con maggiore avidità' [18].

Non sorprende quindi che Carnevali dichiarasse nel maggio 1915 di avere 'lasciato la scuola in attesa della chiamata alle armi, impaziente come tutti i ragazzi di allora [19].

Nel gennaio era appena avvenuto in casa Picciòla l'incontro con Francesco Sapori di passaggio a Pesaro per una conferenza, che giudicati i suoi acquarelli di 'grazia infantile e caustica' e di una 'immaturità piena di originali promesse' [20], inaugura una collaborazione destinata a dare eccellenti frutti, invitandolo a illustrare una sua novella.

Ma intanto gli eventi precipitano. Il Carnevali che scriveva: 'Sono rimasto bambino fino a pochi anni fa, e forse sono ancora bambino' [21], viene brutalmente strappato dalla sua 'fanciullezza che ha durato tanto tanto' e dalla sua 'adolescenza che ha durato tanto tanto' [22], dalla violenza della guerra. Nel luglio del 1915 è a Venezia, nel settembre allievo ufficiale a Modena, nel novembre comanda con il grado di sottotenente una compagnia di linea a Cima Quattro sul San Michele con il 19° di fanteria, ma il mese dopo si riammala in forma acuta, e dopo una inutile permanenza all'ospedale militare di Palmanova, nell'aprile del 1916 viene messo definitivamente in congedo

 

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[1] Cfr. F. Simongini, L'ottuagenario fanciullo che non ama parlare di sé, «II Tempo», Roma, 22 aprile 1978.

[2] M. Tinti, F.C. illustratore, «II Risorgimento Grafico», n. 3, Anno XXI, Milano, 31 marzo 1924, p. 111.

[3] Da una lettera di F. Carnevali ali'A., dell' 11 luglio 1980.

[4] F. Carnevali, Favola di un luogo della terra, libro secondo, tomo III, Urbino, Argalìa, 1972, p. 120.

[5] Cfr. V. Pica, Attraverso gli albi e le cartelle, II Gli albi giapponesi, «Emporium» n. 15, voi. III. Bergamo, marzo 1896, p. 222.

[6] Op. àt. alla nota 2, p. 115.

[7] F. Sapori, All'insegna della bautta, in L'amico degli artisti, Roma, Sapientia, 1931, p. 133.

[8] F. Carnevali, «Rassegna Marchigiana», 1930, p. 364, cit. in cat. Arte e immagine tra Ottocento e Novecento I Pesaro e provincia, Pesaro, 1980, p.  105.

[9] P. Zampetti, Catalogo della Mostra, in Cat. cit. alla nota 8, pp. 95-96.

 

[10] Da una lettera di F. Carnevali all' A., del 24 luglio 1982.

[11] F. Carnevali, Per una educazione alle arti figurative in 'provincia', Pesaro, 1962, p. 5. A proposito del volume in questione, dobbiamo alla cortesia dell'Avvocato Nino Baldeschi di Urbino, la segnalazione del Direttore della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Professor Antonio Brancati, il quale è in grado di precisare che si tratta di un Psalterium del 1476, preceduto da un calendario con miniature a colori per ciascun mese, ivi conservato e citato nel catalogo del Viterbo al n.  1.

[12] Cfr. Op. cit. alla nota 1, p. 7.

[13] Op. cit. alla nota 4, libro primo, p. 348.

[14] Calandrino (I. Marchetti), F.C., «II Giornalino della Domenica» n. 6, Anno Vili, Firenze, 8 febbraio 1920, p. 16.

[15] Op. cit. alla nota 11, p. 4.

[16] F. Carnevali, cit. in G. Calegari Franca, Cesarina Cerumi, in Cat. cit. alla nota 8, p. 206.

[17] F. Carnevali, Cento anni ài vita dell'Istituto d'Arte di Urbino, ivi, 1961, p. 94

[18] G.C. Polidori, F.C., «Corriere Adriatico», Ancona, 27 febbraio 1932.

[19] Op. cit. alla nota 17, p. 76.

[20] Op. cit. alla nota   6, p. 130, 131.

[21] Op. cit. alla nota   7, p. 131.

[22] Op. cit. alla nota 14, p.  17.