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Bruscaglia

   Maestro    RENATO BRUSCAGLIA:
TESTO CRITICO di ANDREA EMILIANI

 

Sequenza immagini riportate nel libro "La vita e il segno"

     Capitoli:

Il Paese e il Palazzo

Gli inizi

Rivelarsi a tratti

Il decennio 1950-60

Il tavolo dell'incisore

L'acquaforte e la tecnica

Il segno dell'infinito

Il bosco e la mente

Il tempo, la misura

Verso la crisi, per la crisi

Vita d'autore dopo 1960

L'intimità dell'incisore

Oltre il '60-'65

Linea di luce, sbarra ...

Dal 1970 agli anni '80

Spoliazione della forma

1990 - 1999

 

 


LA VITA E IL SEGNO
 

 

Testo critico di Andrea Emiliani e antologia completa dell’artista sulla sua arte di fine incisore di scuola morandiana. Oltre 125 splendide riproduzioni delle incisioni su carta avorio di qualità.

 

Grafica: Alberto Bernini

Stampa: Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino - Febbraio 2000

295 pp.  con oltre 127 riproduzione di incisioni di Renato Bruscaglia

 

 

 

Il paese e il Palazzo

 

Ricordo bene, o così credo, il volto di Urbino negli anni della guerra e in quelli durissimi che seguirono. Le strade, le mura, quei vicoli oscuri che una protratta povertà stringeva ormai alla decadenza, rallegrati in qualche modo dagli schiamazzi della quotidiana vitalità infantile, dal consueto tramestio di un povero artigianato, dal lavoro domestico che i vecchi ripetevano sulla porta o nell'androne di casa. Cose minute, ma, sopra ogni altra, un'immagine di dignità storica abbracciata a portali di palazzi, a cortili e lesene e finestre. Il tempo sembrava arretrare, ritornare ai secoli che avevano visto l'erba crescere per le strade e queste, a loro volta, avvallarsi e gonfiare, scalzandosi e rovinando.

Nei vicoli di Urbino minore, alzare gli occhi non significa scorgere subito, e tra tetti così vicini, un grande azzurro, neppure quando è più intenso. Occorre scoprire uno spazio maggiore. Il paesaggio, orizzonte e rilievi, sfora improvviso all'affacciarsi che la viuzza, le scalette e, soprattutto, le finestre fanno sulla campagna che circonda il colle, il doppio gibbo cinto e ricinto che su antiche posizioni romane vide sorgere il modesto insediamento medioevale. Su questo, destino straordinario, Federico volle poggiare, in mezzo al grigio scoscendere delle case, la grande scatola prospettica del suo Palazzo. Succede allora che quasi intera la città si schieri verso la luce, protendendosi dove può e come può, a oriente verso la Cesana e a mezzogiorno sulla bella valle del Metauro, oppure ad occidente, dove il sole tramonta immergendosi nel Montefeltro e non come un velario ma piuttosto con innumerevoli siparietti viola e rosati d'estate e crestati di nebbie vaganti durante i lunghi inverni.

Nell'aprire questo quaderno, che nel tempo ho riservato a quel complesso incisore che è Renato Bruscaglia, è imprescindibile una pagina evocativa, un po' del genere di quelle che riepilogano le virtù del luogo prima di affrontarne la descrizione puntuale. Abbiamo tutti conosciuto un'altra città, ancorata alle forme del tempo. Essa è stata per molti decenni una specie di voliera dolcemente cara a chi aveva la sorte di viverci e, nello stesso tempo, stranamente densa di repulsioni intime e individuali, fino a ispirare l'istinto, riconoscibilmente storico, della fuga. Per alimentare di lontano, e ardentemente, il desiderio del ritorno.

In questo esordio - non solo un brano offerto per convenzione al rapporto tra persona e luogo, vecchia leggenda del determinismo positivo - appaiono fin d'ora due interpreti condizionanti la scena. Il primo è l'interazione fra città e campagna, un passo appena oltre le mura, un delirio di ginestre e papaveri, una situazione eguale e diversa per chi, uscendo da una porta civica, prendeva insensibilmente possesso di un nuovo naturale domicilio. E diveniva automaticamente un abitatore dei campi, senza soluzione di continuità. Familiare, intrinseco si presentava - e, nonostante tutto, ancora ti viene incontro - il paese che è dato vedere e intravedere ogni giorno senza in nulla mutare le consuetudini. Dopo tanti sguardi e comparse, forme agresti filtrate da prospezioni diverse e da camminamenti di mura, vien fatto di pensare come debba essere difficile per gli abitanti della pianura conoscere o almeno vedere il paese, cornice innata del loro esistere che influenza incisivamente il loro essere. Il rapporto culturale, e dunque sociale ed economico, fra città e campagna è profondamente mutato, in realtà forse annullato. Ma l'effigie che ne rimane, catturata dal secolare vincolo dell'immagine così forte in queste aggregazioni marchigiane, è tuttora vitale.

Il secondo interprete è in effetti il protagonista assoluto - ma non indiscreto - di questo borgo, di cui raccoglie l'essenza elettissima in forma di Palazzo. Non è un caso che il suo posizionamento simbolico sia in buona parte frutto d'una scelta prospettico-spaziale, la stessa che Laurana, unendo due strutture architettoniche, orientò verso la strada di Toscana, a quelle date la più importante, addirittura esclusiva. Proprio all'indirizzo di chi scende la collina da Montesoffio e avanza con la cadenza del cavallo, discoprendo e celando a volta a volta, curva dietro curva, la fibbia ornata delle due torri, le più gentili e forti del mondo, chiamate a dislocare e ad agganciare insieme due corpi di fabbrica attorno a quello snodo. Che, per contenuti, si svela appunto un simbolo e, per funzionalità, non cessa mai di stupire come una grandissima risoluzione strutturale; per forma, infine, chiamata quasi a presiedere a un commosso tramonto di età, quella medioevale, sormontata da punte aguzze e da banderuole, ricamata di barbacani e ornata di pietra bianca, lirica come un'arcaica storia del "coeur d'amour épris" e pure convocata al preludio vitale della nuova e organica struttura di un'architettura definitivamente moderna.

Le torri del Palazzo di Federico, mentre sulla strada di Castel Durante ci si avvicina al passo fino all'ultima, scoperta svolta dei Cappuccini, sono un nitido indice visuale che segna il tempo e, quindi, il modo di un accesso. È una concretezza fissata nell'immanenza della massa volumetrica, nel suo consistere. Ogni movimento è dettato dalla dimensione nascosta che fa dello spazio-tempo un messaggio capace di avvolgere coloro che entrano nella sua area di azione. Si cade in tal modo nel raggio dell'osservazione e del potere di chi, dalle logge delle torri, tenta altri confini per le opere dell'uomo.

Questo è il grande teatro della rinascenza, rispondiamo ora alle sue leggi come anche all'interno metro della cavea voluto dal progettista, sovrastata dalle torri e poi sfogata sulla valle del Metauro, sul Catria dai monti gemelli. L'improvvisa ampiezza di scena, fra le più affascinanti che sia dato annoverare, consiglia come ci si debba arrestare all'angolo opposto del Mercatale, per ammirare ma anche essere dominati dalla visione affermata da un ambito così vastamente progettato. Le torri, normali all'arresto sul bordo della platea del campo di Marte, hanno girato su se stesse di parecchi gradi, gettando le fondazioni nel fossato che da Valbona scendeva a Risciolo, proprio per effetto di questa rotazione pressoché inavvertita. La torre di sinistra, all'occhio dell'osservatore, cala fin dentro il cuore dell'originario scoscendimento, sorretta dal poderoso bastione, campo di Marte per l'industria guerriera di anni passati, e, più tardi, Foro Boario ovvero il Mercatale. La stessa terra, quell'ocra luminosa di cui son fatti i campi circostanti, riempiva fino agli anni 70 anche il bastione con una larga piattaforma tonale. La relazione tra ambiente e città si completa grazie alla tavolozza del primo architetto, invadendo con una sorta di palcoscenico prospettico il solo sito dove il Palazzo - lasciandosi alle spalle le costruzioni cittadine - colloquia solidale con il paese in modo volumetrico e cromatico dichiarato. Offrendosi tutt'intero, dalla base delle mura all'alto dei pinnacoli, alla estensione aerea della campagna più suggestiva. La veduta dell'uomo che aveva voluto questo Palazzo, per sé e per la nuova società, si stendeva su un largo paese contadino, nobilitato dalla bellezza delle colture e dalla corona di montagne che, dal Nerone al Petrano e, appunto, al Catria, si ponevano a fondale quotidiano della vita di corte. Alcune pagine di Bernardino Baldi, in proposito della costruzione del contrafforte del Mercatale (1591), potrebbero stare in un trattato di tecnica architettonica.

Ma, sopra tutte, riecheggiano insuperate le parole con le quali Baldesar Castiglione concludeva l'ultima notte del Cortegiano: "Aperte adunque le finestre da quella banda del palazzo che riguarda l'alta cima del monte di Catri, videro già esser nata in oriente una bella aurora di color di rose e tutte le stelle sparite, fuor che la dolce governatrice del ciel di Venere, che della notte e del giorno tiene i confini; dalla qual parea che spirasse un'aura soave, che di mordente fresco empiendo l'aria, cominciava tra le mormoranti selve de' colli vicini a risvegliar dolci concenti dei vaghi augelli.".

È appena il caso di ricordare che il paesaggio, e dunque la forma conoscibile che il segno traccia sotto l'impulso creativo, costituisce per Bruscaglia una forma primaria. La stessa ragione sensibile assunta dalla vita nel suo multiforme e scandito dispiegarsi. Numerosi artisti dell'acquaforte, come pure della litografia più moderna, hanno prediletto nella loro pratica grafica il paesaggio, sia per la rinnovata tradizione novecentesca sia per un lascito dapprima ottocentesco ma poi, ancora precedente, un relitto d'anima più antico che si porta dietro la funzionalità d'una acquaforte addetta a figurazione di paesi e di mura, di boscaglie e di fiumare. Dal Tempesta a Elsheimer, da Hercules Seghers ad Agostino Carracci, il paesaggio non ha nulla o quasi da attendersi dalla modernità, se non la secolarizzazione dei suoi intenti figurativi.

Bruscaglia si colloca tra gli interpreti del paesaggio nella produzione grafica del secondo Novecento. Anch'egli conosce all'inizio la sua forma ricorrente: all'irrompere del giorno, la luce si alza come un velario e scopre l'infinita qualità e bellezza del paese, le sue dolcezze e le sue malinconie. Torna a rinchiudersi la sera. Ma Bruscaglia non è tra quelli che indulgono alla consolazione naturalistica, all'estetica dell'ambiente così gradita a chi rifugge le deformità urbane. Egli è indotto, progressivamente e sempre più, a riconoscere nel paesaggio i sintomi autobiografici e risentiti di un rispecchiamento. Spesso è dolente, nell'incedere della figurazione e di quello che si circoscrive come il suo sentimento dominante; è già insito un giudizio etico nel lento modificarsi degli anni e dei fatti della vita.

Nella vasta luce che investe la forma-paesaggio, ne amplia i confini o, al contrario, ne condiziona i limiti, si può leggere la reazione aperta, quasi speculare, alle circostanze dell'anima. L'artista si àncora al luogo. Questo stesso continua ad avvolgerlo. È il sentimento del luogo che dirige una parte così consistente dei suoi pensieri.

Dal romanticismo a questa parte, per noi italiani che non ne abbiamo conosciuto la profonda rivoluzione, il paesaggio raccoglie quanto più è possibile d'una emozionante compenetrazione dell'uomo nella natura. Chi ha vissuto il sito italiano e marchigiano, il suo splendore, la sua povertà colma di umanità e intessuta dei segni più forti del passato, forma pre-formata dall'incomparabile civiltà d'ogni rinascenza, fino a eleggere l'uomo vertice dell'universo, come potrebbe consumare la sua vita d'artista al di fuori o in assenza di una così straordinaria occasione? Tra queste pietre, l'equazione tra arte e vita si complica e si arricchisce di continuo in virtù della storia. Sedimento e mormorio, retentissement e calpestio, tra questi campi e dall'alto di queste mura ogni artista sente dentro un coagularsi di valore antropologico. Non può evitarlo.

Si delinea un itinerario che conduce alle stigmate di una civiltà offesa. Non soltanto di quella urbinate, è una generalità dilagante di distruzioni sistematiche della magnificenza italiana, entro la quale Urbino, per essere un capolavoro dell'arte italica, immerso nella vita ineguagliabile di un paesaggio perfettamente consentaneo, è quotidianamente osservata e amata come un'identità assoluta. È la cartina al tornasole di un'amplissima e dolorosa crisi.

 

 

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Gli inizi di Renato Bruscaglia

 

Frequenta la Scuola d'Arte di Urbino, dove è nato - nel 1921 - e cresciuto. Come tanti, incontra sul suo cammino di ventenne l'esplosione della guerra, l'arruolamento, la fuga dell'otto settembre e un pericoloso periodo di macchia. Solo con la fine del conflitto, nel 1945 e a 24 anni, Bruscaglia può cominciare a praticare in modo professionale la calcografia.

Quell'età positiva della storia della Scuola d'Arte è stata ormai rievocata e illuminata criticamente (Cuppini). L'affiorare di Bruscaglia alla dimensione artistica più impegnata passa attraverso i gradi della riconoscibile educazione urbinate, mediata dall'ottima cultura tecnico-espressiva di Leonardo Castellani, aggiornato intorno ai modelli che presiedono in quegli anni alla formazione dell'incisore italiano e, in primo luogo, all'arte di Giorgio Morandi. E singolare come, in generale, le colline di Grizzana e della valle del Reno, nella montagna bolognese, gettino una loro diretta influenza sulle montagne circostanti Urbino e il Montefeltro; e come anche i cultori dell'opera di Morandi siano, per lo più, urbinati.

I primi tempi di Bruscaglia, fino all'inizio degli anni '50, sono improntati dalla cautela più verificabile. Poche acqueforti, qualche bozzetto pittorico sperimentale, un elaborazione significativa di 'figure in posa, con qualche accentuato carattere di prospezione psicologica e di realismo narrativo. Tuttavia, già nel 1945, un'acquaforte impostata come le Querce alla Cesana avvia un carattere deciso a una meditazione sulla forma-paesaggio che si avverte destinata a durare, sia per l'autorevolezza dell'impianto compositivo sia per la robusta concentrazione incisoria e l'ammirevole resa espressiva. Ritorna sul foglio, che può vantare antenati illustri ed emozionanti come Rembrandt, anche la conoscenza della calcografia ottocentesca. Ma l'atteggiamento prevalente è quello dell'après nature, un mettersi davanti al paesaggio con il quale Bruscaglia inaugura il suo individuale rapporto. Cui si manterrà fedele per tutta la sua vita d'artista, vale a dire per sempre.

La forma, peraltro, esibisce un dubbio insito nella sua stessa personalità. Se prevalente, quasi esclusiva, appare essere quella del paesaggio, la misura interna si scuote e diviene inquieta, si allontana dalla pienezza per alludere infine a un luogo interno alla coscienza. È un modello di riduzione volumetrica e di scomposizione che giunge diretto dagli archetipi del cubismo. Anche in questo caso, un po' come per Arnaldo Ciarrocchi, la necessità è di incidere per segni e definizioni significative ma non poggiate sul reticolo di fondo, come è norma avvenga nell'impostazione tradizionale, abituata a far crescere la forma dalla lastra piuttosto che calarvela.

La comparsa delle ultime opere di così struggente solarità che compongono il diario marino di Nicolas de Staèl, quasi all'intersezione tra continente e Mediterraneo, è di notevole peso per il paesaggio di Bruscaglia. La risoluzione di finestra aperta sulla vastità, di parapetto e di murata che sfonda sul mare, incisa sulla tela come seguendo i contorni di una sepolta sinopia dell'accezione spaziale di Morandi. Per ragioni che avrebbero potuto evolvere analoghe, un altro artista, Sergio Romiti, che negli anni '50 siglò di un suo energico ingresso l'arte italiana e non provinciale dei giovani, mostra un cammino parallelo a quello di Bruscaglia, almeno per quanto attiene alla generale strategia della delimitazione dello spazio.

Una condizione che già si rileva nella Casa di Marisa, del 1952, dove il segno è scosso da vibrazioni trasverse, fino ad avvertire di quale febbricitante tensione sia investito quel brano, per nulla arcadico, della prima maturità di Bruscaglia. Due anni più tardi, 1954, le Tre case assolate conoscono un crudo assetto formale, destinato a rivelarsi in gruppi marcati da un'incisione profonda fino a divenire blocchi tonali espressivamente risentiti. Tanto vale per una serie intera destinata a durare, come Quiete fluviale del '55 oppure Pensione Giannina del '57. 

 

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Rivelarsi a tratti

 

Saprei bene cosa dire dell'acquaforte di Renato Bruscaglia - e di lui, persona e artista la stessa cosa, identità rara e, qui, senza proiezioni romantiche - se non mi bloccassero amicizia e ammirazione. Su noi sono passate tante stagioni. Lo scorrere del tempo smussa soltanto, rende, forse, più blanda questa scansione che sigla e conta i giorni che si inseguono. Gli affetti spostano la realtà oggettiva nella dimensione del ricordo e, soprattutto, in quella dell'interpretazione, del giudizio critico indispensabile per la ricostruzione del lavoro di artista incisore che Bruscaglia persegue da ormai cinquant'anni. Nella memoria si rianimano molte cose da leggere rimuovendo polveri sedimentate. Il sentimento, occorre temperarlo riducendo al silenzio carattere e impulsi davanti a Renato, persona razionale al suo apparire. Credo sia la ragione che lo ha sempre guidato nella comprensione della vita, amministrando con riconoscenza le gioie, piegando i dolori, combinandoli e serrandoli nel più segreto e pudico rifugio, dove non cessano un solitario pulsare.

Il Palazzo era, una volta, affidato in parte all'Istituto d'Arte, scuola di insolita qualità pilotata da un artista come Francesco Carnevali. Nelle grandi stanze che ammiravo di nascosto, illuminate dal riflesso della neve in quegli inverni aspri e lunghissimi, nella scuola di acquaforte di Leonardo Castellani, conobbi di lontano, più maturo di me, Renato Bruscaglia. Tutto ciò che di diretto, sperimentale e deduttivo, nel senso della creazione, io ho primitivamente vissuto - il parlar d'arte, il suo farsi e mostrarsi - potrebbe essere rimandato a quelle visite. Fui anche modello in posa su una sedia impagliata e conobbi, con la sopravvenuta rigidità muscolare, la fatica della fissità del rispecchiamento. Fuori, scendeva il buio precoce della sera invernale, che era stato prima oscuramento di guerra e si perpetuava con l'uso delle poche lampade e dell'ispessirsi della nebbia. Là dentro, un grumo di luce si diffondeva fievole, schermata da una visiera di cartone. I volti giovanili intenti avevano una grazia fuori del tempo.

Bruscaglia assegna alle cose del mondo, ai problemi grandi ma anche agli eventi della quotidianità, una sua severa partecipe presenza. In questa continuità si capisce il tratto originario dell'insegnante. Prezioso e, ormai, non frequente in un Paese che ha disconnesso moralità vere a vantaggio di presunzioni volgari. La scuola era un diuturno controllo e una scuola d'arte, se funzionante, è quasi esclusivamente questo, la sorveglianza costante del formarsi di un carattere creativo.
Il rapporto di Bruscaglia insegnante con i giovani allievi - scambio che impronta l'intera vita dell'artista - era una contiguità umana e civile, che gli consentiva di dare alla formazione un significato positivo e un'educazione tecnica e insieme poetica, inventiva, di lungo corso. L'assistere sorridente e rigoroso alle prove adolescenti, una certa riservatezza che induceva qualche timidezza ed era in realtà l'implicita richiesta di corrispondere con lui al giusto livello, quello di una attività culturale che non scendesse mai sotto la coscienza dell'arte.

Coscienza dell'arte, misura della vita e senso forte di civismo si intrecciano fin dagli anni giovani nella sua educazione all'esistere. Disponibile per gli altri, ironico verso se stesso, abbastanza da restare in disparte nelle occasioni celebrative o chiassose. Lo ricordo bene nella compagnia di quelli che uscivano dalla maledizione della guerra e che, in definitiva, furono per intuibili ragioni i nostri modelli - come Paolo Volponi - e anche i nostri immediati educatori. Renato stava, infatti, in un gruppo cui in effetti toccò di ammaestrarci - noi, che seguivamo nell'età - sui banchi e fuori di essi, con Enzo Gualazzi e con Enzo Marcucci, appena più anziani di noi e già coinvolti in quella necessità di insegnamento e di lavoro. Frequentammo così una scuola molto particolare, Giorgio Baiardi e io, amici da sempre, insieme a tanti altri.

La città, sospesa ancora tra urbanesimo e agricoltura, in una condizione di superstite e quasi miracolosa sopravvivenza, ripeteva i suoi giorni come se nulla potesse più mutare. Dalla Scuola del Libro uscivano gli allievi e gli insegnanti, da Francesco Carnevali a Carlo Ceci, Piero Sanchini e Umberto Franci, tra gli altri. La lunga fila dei seminaristi, figli di operai e di contadini, attraversava la piazza, gli ultimi ancora in abiti borghesi. Dentro quelle mura e in quelle giornate, che aspettavano con noi che la vita dispiegasse infine il suo splendore, maturava un senso forte dell'esistenza. Credo che sia questo il tempo in cui Bruscaglia ha dato inizio al suo rapporto con l'arte e col vivere, una sola cosa mai intermessa.

Mi è successo tante volte di far passare alcune acqueforti tra le mani e di cercare di cogliervi con naturalezza la qualità, la novità affiorata, il segno. Per primo il segno, la sua capacità di essere tutt'insieme struttura e contenuto. Così, ho ora sotto gli occhi molte cose di Bruscaglia e incomincio a riflettere sul suo lavoro complessivo, tutto o quasi costruito di acqueforti che, a differenza di molti frutti di questa disciplina, non illustrano e non decorano, piuttosto esigono di essere individualmente esaminate. La gran parte delle incisioni moderne possiede, infatti, una finalità che si definisce facilmente illustrativa. La nascita stessa dell'acquaforte non ha mai celato la prevalente funzionalità del disegno che delinea un soggetto da spiegare. L'incisione è stata a lungo un veicolo primario di divulgazione, fino al secolo scorso, quando ha validamente contrastato la sostituzione fotografica, consolidando una sua vocazione specialistica e raffinata. Anche se la stampa d'arte dei primi anni del Novecento si è confermata come un vettore di contenuti, gli stessi che gradualmente si sono raggruppati attorno a tematiche omogenee, il ritratto, la natura morta, e, in capo a ogni altro, il paesaggio.

L'acquaforte di Bruscaglia, al contrario, si configura quale immagine che non ha finalità di contenuto, se non ridotte a una così breve, acuta essenza da farla apparire come il risultato di una esperta opera in togliere. Questo intero scritto, a ben pensarci, sarà anche dedicato a leggere l'uscita dell'acquaforte dalla sollecitazione contingente dell'occasione tematica ma senza ricorrere ai classici meccanismi, per esempio, di pulitura dell'immagine attraverso un processo di astrazione o sul filo del dibattito dell'astratto-concreto di malinconica memoria postbellica. Un esito di questo genere emerge esclusivamente in quanto affidato con forza a una rappresentazione intellettuale. La vita stessa di Bruscaglia è passata (al di là della lentissima acquisizione dei valori tenici ed esecutivi, meditata e severa) in questo cauto abbandono della riva, dell'approdo costituito dal naturalismo e dal contenuto descrittivo. Ci si rende presto conto che su questa contrazione a un modello espressivo incentrato sulla misuratissima combinazione tra razionalità e ambiente, gioca progressivamente il suo ruolo una decisa volontà morale.

L'identità tra arte e vita è un vecchio motivo del romanticismo, si è già detto, unità spesso crudele nella quale la prima schiaccia la seconda. Le ragioni della vita hanno avuto tuttavia un loro ritorno, anche se numerosi sono coloro che ritengono in genere estranei allo spirito più casto dell'arte questi contenuti eteronomici. Si tratta però di opinioni dettate da un giudizio sulla nostra condizione, sull'attualità non solo della cultura ma, si direbbe soprattutto, dei modelli dell'esistere. Il paesaggio è di fatto il paese, uno specchio nel quale si riflettono le molteplici sinergie che, tra arte e vita, organizzano la realtà. Come non ammettere che la crisi del paesaggio non sia essa stessa eco di una più larga e cruda crisi del paese? La sostanza della volontà espressiva dell'arte di Bruscaglia si definisce come una scelta che nasce dalla cultura chiamata a un appuntamento fatale con la vita. L'acquaforte, per di più, chiede di costituire un momento impegnativo, mai occasionale, del tramando storico cui siamo per natura chiamati.

 

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Il decennio 1950-1960

 

Si riconosce bene, nell'attività crescente di Bruscaglia, come l'ingresso agli anni '50 registri subito un infittirsi delle esperienze e, insieme, una progressione evidentemente problematica. Le voci espressive, le radici tematiche, i modelli di lavoro si alternano fra loro con un certo margine di affollamento. Appaiono, per esempio, due magistrali composizioni di fiori, Il ciclamino di Rina, del '53, e i Fiori chiari, del '55, destinate a rimanere sull'orizzonte dell'osservatore come due tensioni, due exploits non casuali e, tuttavia, neppure sofferti, dai quali non sarà più possibile estrarre materia per il futuro. Bruscaglia vive, in effetti, una fase sperimentale che gli era stata sottratta dalla guerra e dai disagi della successiva disoccupazione.

Proprio in questi anni si consumano faticosamente reazioni complesse giocate attorno e dentro al concetto tutto urbinate della città e della campagna, del perdurare possibile di forme esemplari come quelle del mondo storico rinascimentale, del conflitto cui si assoggetta chi decide di uscire da tale perfezione per affrontare nelle capitali del Paese (Milano o Roma) il dubbio di una vita da inventare. Si deve riflettere che nella molteplicità di queste esperienze degli anni '50 si avvertono influssi identificabili così come si mettono a regime caratteri e peculiarità di stile anche duramente reattivi.

Già intorno al 1952-'53 sembra che Bruscaglia intervenga sulla tessitura medesima del segno. La maglia tracciata e intrecciata dal bulino, che dalla quota tonale appartenuta a Morandi transita a una sorta di disfacimento luministica, nel quale la punta metallica illumina piuttosto che strutturare lo spazio a disposizione. Vale per tutti la veduta di Piansevero, del 1954, che ritengo una prova di vera e adeguata sperimentazione sul piano dell'acquaforte di ampio respiro naturalistico. Il ricordo delle Querce alla Cesana, di neanche dieci anni prima, diventa solo un brogliaccio visivo, un canovaccio colto che la vastità dell'impianto di questa grande esecuzione moltiplica con abilità. La campagna è sonante, quasi colta all'imbrunire, alberi e siepi non gettano più ombra sui campi di stoppia dopo il grano tagliato. Si agita, insomma, un forte affanno, il paese ha una dimensione che coinvolge, la sua forma una pienezza che si conferma naturale.

E singolare che proprio da questa conquistata statura espressiva si dirami una serie di nuove sperimentali tentazioni. Sono impostate, e si vede, sull'impronta della stagione dell'"ultimo naturalismo", che Francesco Arcangeli aveva saldato come un aggancio gettato tra il naturalismo di tradizione settentrionale, ottocentesca, e il moderno atteggiamento dell'action painting di Jackson Pollock. Il segno abbandona il reticolo trasverso e incrociato, disponendosi di preferenza su tracciati ortogonali, ha massa vegetale - paesaggi per lo più - si compatta in misure strutturali, quasi nell'intento di scolpire, di dare consistenza plastica all'entità boschiva. Quinte fluviali è del 1955, ma fin dall'anno prima altre incisioni di paesaggio avevano profittato di questo intaglio profondo e sfrangiato, ^avventura, poiché di una diversione vigorosa si tratta, affronta anche la costruzione della figura. Un'acquaforte insolita come La mamma di Pino (1954) regge all'impulso del bozzettismo realistico e si libera in un breve, intenso capolavoro di acido naturalismo espressivo.

La metà degli anni '50 è dominata da questa nervosa ricerca, accompagnata da qualche piccolo cartone a olio di analisi costruttiva e di forza della luminosità. Dentro l'instabilità discorde del segno incisorio è ora dato leggere quel prender forma di profili paesistici, di dimensioni consuete e stagionali, che viene assumendo una conclamata fisionomia morale. E ciò assai più che concedersi alla letteratura di paesaggio che, in fondo, traeva le sue origini non lontanissime dal famoso libro di Vincenzo Cardarelli, Il sole a picco, che Morandi aveva illustrato per Longanesi nel 1930.

Prossimo l'inverno, un'aspra raffigurazione del '55, ha già trasformato il senso amabilmente contadino e ordinato del paesaggio appenninico in un rapido sistema segnico di luci livide e di scomposta natura. In questi mesi emerge di fatto la più sollecita e quasi inevitabile repulsione dalla concessività, perfino dalla cordialità della tradizione paesaggistica italiana. Ha inizio un drammatico percorso dove un ethos difficile, intenso e umanissimo, guida l'intenzione quotidiana dell'incisore Bruscaglia.

Il tema centrale del messaggio espressivo è avviato dunque a sostanziarsi prevalentemente nel segno e, da questo, nel tessuto fermo, deciso, in cui si rafforza l'immagine. E ineludibile rendersi conto che l'intero decennio è stato consumato nell'esasperare e nel distruggere la trama tonale storica e morandiana, per proiettarsi nella costruzione di un reticolo che si regge ormai per interna prospettiva e senza altra struttura grafica che non sia quella trasversale o direttamente verticale. Muro e verde, del 1957, Albero d'una estate, dello stesso anno. E la Casa torre, del 1960. Proprio con quest'ultima acquaforte, come anche con la vicina Casa della bassa, la prospettiva ha alzato il profilo del paesaggio fino a comprendere i due terzi almeno dell'orizzonte. Si eleva il supporto della concreta bellezza e sotto la casa si viene descrivendo qualcosa che si schianta, come un argine incurvato o la scorza d'una visione naturale. A simili concetti, a queste date non facilmente spiegabili, come a un evento non più fisico e probabile e piuttosto come un nodo semiologico, un segnale inconscio, compete di vincere l'ultima resistenza del paese inteso come manifestazione di natura.

 

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Il tavolo dell'incisore

 

Luce costante del nostro rapporto d'una vita, l'incisione di Bruscaglia, insieme alla maturazione dell'uomo e al suo innato istinto d'arte, diviene ragione generale, che rileva e spesso solleva l'amicizia, la sodale fraternità, gli affetti e, soprattutto, li spiega con limpida profondità. Certo, ne scaturisce anche un ritratto autobiografico. Ci accomodiamo in silenzio e subito la lente del passato lavora perentoria rispetto a quella del presente. Il passato, peraltro, ha già fatto le sue scelte e può dunque permettersi di definire, di puntualizzare; il presente, che alimenta intero il seme del futuro, sta tutto davanti a noi, oggi oscuro e davvero senza idea di progresso, di utilità. Tanto meno di felicità.

La letteratura a riguardo di Renato Bruscaglia è ampia, continua, ne sostiene la reputazione assai forte presso chi fa professione di critica. Non mi sembra che affiorino, nella memoria che ne conservo, certi strapazzi critici in libera uscita che spesso annacquano il settore e che dell'incisione fanno volentieri, nel migliore dei casi, il giardinetto fiorito delle testimonianze letterarie. Una forma d'arte minore, ancillare.

La conoscenza dell'acquaforte pretende un esercizio che, almeno una volta nella vita, abbia cercato di penetrare i territori incerti e affascinanti di un'ermeneutica più di ogni altra sospesa tra materia, manualità e deliberata volontà di espressione. Da Cesare Gnudi a Valerio Volpini e a Roberto Tassi, da Carlo Volpe a Silvia Cuppini, a Duilio Courir a Gian Carlo Cavalli e a Paolo Volponi; a uno scritto davvero intenso di Italo Mancini che spinge sui margini dell'intelligenza assoluta, immerso com'è dentro l'animo dell'artista a individuare i germi mentali di un ethos che la maturità ha portato a una incandescenza ancora più ossessiva. Per l'incisore, la compagnia di un amico letterato ha probabilmente un valore maggiore che non per il pittore o per lo scultore. Li unisce, infatti, un'antica complicità che si condensa nella penna e nel foglio disteso su un tavolo un poco grezzo, i rari strumenti in evidenza, il raschiatoio e la matita, l'inchiostro di china, la lente. E l'avventura del bianco e nero, da lavorare la sera, la notte, mentre i rumori si attenuano e, infine, domina il più atteso silenzio. Il cammino dell'incisore si avvale in questo modo di testimonianze utili, vicine, amiche.

Abbiamo passato parte della nostra vita di lavoro con un occhio alla stampa e abbiamo ascoltato il racconto delle domande rivolte da Giuseppe Raimondi all'amico Morandi, in visita serale alla bottega da fumista di piazza Santo Stefano (non ancora adulterata in quell'incredibile catino gotico contraffatto negli anni Novanta). L'acquaforte è stata per noi l'esperienza artistica più immediata, spontanea. In una cultura qual era quella degli ultimi anni '40 non era facile incontrare l'acquaforte come soggetto d'arte e di attualità. Seguì un cospicuo lavoro per rimettere la grafica al suo giusto livello. Fra gli studiosi più attenti ad accendere il fuoco critico di una necessità artistica fu Paolo Fossati, che incontrai in qualcuno tra i tanti premi municipali o locali di buona memoria. Credo fosse a Sant'Ilario d'Enza; e spero davvero che la sua lunghissima lettera provocatoria prima o poi si ritrovi fra la confusione delle carte. Era uno scritto pieno d'urti e di spigoli, proprio come Paolo, ma la sua via verso l'incisione era tracciata con una sorta di razionalità appassionata e sempre al limite di quella rottura che intero lo possedeva. Alla sporadicità delle occasioni di incontro doveva in seguito supplire la crescente quantità di iniziative di diffusione, che erano momenti di aggiornamento e di confronto, di conoscenza e di relazione.

Gli anni '50 e '60, anche per la frequenza di queste manifestazioni molto seguite seppure non di primo piano, finirono per promuovere una divulgazione del tema che, da allora, non è stata raccolta da alcuna istituzione. La carenza di appoggio e di tutela della specie tecnico-espressiva - si direbbe - è stata da anni rimarcata da professionisti di elevato grado di coscienza dell'arte e del mestiere e non solo sotto il consueto profilo cronistico-storico universitario, ma en artiste e con opportune sperimentazioni, come tra tutti ha tentato Guido Strazza. E la diffusione di prontuari specifici, come lo stesso Bruscaglia ha fatto nel 1988, ha cercato di rispondere alla deficitaria informazione. Così come Paolo Bellini dedica un'opportuna rivista alla "Grafica d'Arte".

Vorrei soffermarmi proprio sul libro di Bruscaglia, L'incisione calcografica e la stampa originale d'arte. Il sottotitolo chiarisce ulteriormente il contenuto: materiali, procedimenti, segni grafici. È un prolungato, sensibile trattato di mestiere, laboratorio per una disciplina sulla quale incombono, allo stesso tempo, una fine tristissima e un'altrettanto malinconica sopravvivenza edulcorata ed elitaria. Ogni segmento dell'operatività è vissuto dall'artista prima di essere dettagliato quasi visivamente, come disteso sul tavolo autoptico per la diretta osservazione ravvicinata e fatto rivivere con le parole. Si creano subito immagini attive, dinamiche, a formare una lingua di lavoro, un ponte rapido fra noi e l'incisione, che risponde con la verità immediata delle sue origini alle sollecitazioni dell'ispezione. Bulino e raschietto, brunitoio e carbon dolce sono termini esatti e potenti, che già delineano la strada per le favolose evocazioni della pietra di Arkansas e della tarlatana.

Alla primaria attitudine didattica di Bruscaglia si legano le sue modalità espositive, che richiamano quella vitalità trattatistica di lavoro tecnico e manuale che la cultura pratica non ha saputo difendere, in Italia, ricacciando ogni volta il valore, la bellezza empirica e pragmatica di interi ambiti operativi - come, appunto, l'incisione e in specie l'acquaforte - tra i ferrivecchi delle arti 'meccaniche'. Quasi a rimedio, Bruscaglia continuava ad annotare convinzioni più attuali e le iscriveva a seguito dell'affermazione di Joan Mirò, che, da buon catalano, si rifiutava di uscire dall'atelier dicendo: "Le goùt de la matière est primordial" e, ancora, quasi brutalmente: "la matière commande tout". Dalle letture di Bachelard giungono ulteriori conferme, come attestano queste poche righe d'apertura: "materiali e procedimenti sono medium: in essi risiedono potenzialità primarie ed elementari dell'espressione; intravedere queste deve e può essere incentivo ad accostarsi alla pratica.".

La prova, in fondo, di come si potesse parlare di un'opera d'arte con un coinvolgimento maggiore che non sulla pelle più cerimoniosa e pubblica di un quadro, rimane sempre quella di tenere in mano un foglio di carta, il cui spessore è sensibile al tatto, da osservare bene, da chiudere in una cartella e da richiamare in vita dopo qualche giorno. E leggere allora in quella profondità il cammino del pensiero creativo, scoprirne di nuovo il movente intellettuale, l'artificio. Piacere confessabile, che domina il nostro pensiero nell'età della conoscenza critica, è intuire quale sia l'istante e il modo nel quale la forma assume in sé, sopra ogni altra ragione o ingerenza, il filo d'Arianna della creatività che sceglie e intraprende il cammino. Fino a liberare l'immagine.

Questo scenario, di contorni vagamente alchemici, non manca mai di destare un suo fascino prometeico e insieme di eccitare l'attesa ermeneutica che si deve riservare alla nascita dell'arte. Quanto dura, dunque, il transito che l'"idea", barlume appena oppure immagine di indefinito profilo, percorre per salire alla vita delle forme? E cosa incontra lungo la via solitamente erta, quali varianti e differenze in corso d'opera, quali contiguità di rinnovata ispirazione e a quali altezze collocate: e perché questa via continua a sembrarci inesorabilmente notturna? Che cosa ci induce a figurare la creazione dell'arte come una nascita e l'esordio alla vita fuori della matrice?

Per questo, e per altri motivi che risiedono anche tra gli affetti, è quasi inevitabile tornare a varcare quel grande portale, ritrovare quelle lampade abbassate e un po' segrete. Rivedo l'incisore che, dentro il basso cono della luce, piega il capo sul lavoro. Tra la sua posizione e quella dell'artigiano è netta una vicinanza che viene da tramandi lontani. Uniti dalla manualità, entrambi stanno chini sull'opera come il ciabattino sul deschetto, con un solo colpo d'occhio afferrano totale e particolare. Tutti, d'altronde, riteniamo nella memoria una nozione artigiana e insieme intellettuale della vita attiva che designa l'incisore. Una favola moderna, una laica, rivoluzionaria Ultima Cena dove, sotto la luce pallida, insieme all'inquieto Felice Giani siedono gli accoliti della nuova libertà intellettuale. Salutano l'inesorabile processo di secolarizzazione che ha trasformato l'idea metafisica in astrazione politica.

Questo processo, in nulla diverso da quello che ha investito la filosofia come storia del pensiero, non ha potuto cambiare la forma dell'idea ma ne ha, tuttavia, modificato il proscenio. Di solito è la politica che veste i panni dell'antica idea neoplatonica e diviene inedita religione. Le spade che il vecchio Orazio consegna, o meglio, quasi sospese come una minaccia mostra ai propri figli nel terribile Serment des Horaces di Jean Louis David, quel giorno dell'anno 1784 in via del Babbuino, a Roma, possiedono una sorta di magnetismo, come fossero aghi d'una bilancia. Ricordano la punta aguzza del pugnale nella Strage degli Innocenti di Guido Reni. Il braccio di Marat che pende dal bordo della tinozza, nella sua crudezza da morgue, trattiene ancora il "profumo dell'ideale" che emanava dal Cristo morto disteso sul sudario nella Pala detta dei Mendicanti.

Il lavoro è questo, tavolo di legno fibroso e graffiato, lastra addossata a quel dorso macchiato di nero e di trementina, vecchio pianale di messa a punto, per raspa e spinta. Il paese-paesaggio nascerà da quelle poche linee, saldandosi entro la reticolatura minuta e forte. Il polso sorregge e indirizza il palmo che regola la forza e la guida. La lastra è un varco geometrico aperto e negativo, sul quale le linee argentate - nell'alba un poco negromantica della stampa - diverranno nere e grigie, invaderanno l'oscura superficie della notte per illuminarla di luce vitale. Nessuno assomiglia allo scrittore più dell'incisore, molte pagine si sono spese (almeno fino all'avvento dei computer) su questa affinità: i materiali in comune, la carta, l'inchiostro, l'invenzione che si concretizza e prende corpo sul foglio tramite la penna, il bulino. La fondamentale diversità si cristallizza nel fatto che la liberazione risiede tutta nella trasformazione.

 

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L'acquaforte e la tecnica

  

L'acquaforte non nasce vergine, nel senso dettato dallo spiritualismo. Oscilla tra un minimo di adulterazione artigiana e un massimo di sofisticazione intellettuale. La sua natura è dubitosa e decide di sé soltanto davanti al risultato. Una certa alchimia connette tra loro alterazioni di chimica provvida e talvolta distruttiva. Tra i liquidi fumiganti qualcuno ha visto nella giornata di Parmigianino la dissoluzione della ragione. È possibile, del resto, che un atto creativo tanto singolare, come quello che chiede di riconoscere l'impronta e insieme il suo rovesciamento; che si realizza per negativo, affidando poi alla morsura - alla qualità, alla miscela, ai tempi indovinati degli acidi - una così grande parte del suo essere, possa sfuggire alla potenza del rischio e alla seduzione del calcolo?

Basta osservare il volto di colui che stampa, tipografo o calcografo che sia, per coglierne l'intensa concentrazione nel momento in cui stringe il foglio impresso e può, infine, lentamente, minuziosamente controllarlo. Un atto di questa natura, posto in capo a una sequenza premeditata ma tutta sensoriale, è rimasto volutamente affondato, celato ai più, entro il cavo genetico, la calda matrice dell'intelligenza che sola lo possiede completo, almeno fino a quando la stampa lo porta alla luce con un gesto decisivo.

La stampa non si libera mai, peraltro, dell'intera materia espressiva che si è accumulata nel buio della riflessione sull'arte. Qualcosa rimane a nutrire altri pensieri, altre giornate e il sapore esclusivo di infinite variazioni. Come una musica latente che continua a tentare gli strumenti, lucidi per l'uso paziente dell'artista-artigiano. "Oh gioia di incidere una pietra dura!", esclama il poeta che scruta e pretende di accompagnare il passo della fabbrilità dell'artista in un'età di raggiunto predominio industriale. L'acquaforte è la sola espressione che tuttora ha bisogno di una vocazione capace di prender forma nella materia e dalla materia nascere. Non ci sono possibili sostituzioni, nessuna iterazione è consentita al di là del grado di resistenza della lastra e del suo trattamento. Non infiltrazione di modelli industriali. L'acquaforte continua a splendere, lei sola, nella luce che si è conquistata grazie a un procedimento contesto di atti originali, personali, immediati. Il suo cammino alla creazione è ancora tutto nelle mani dell'artista.

Dopo l'atto della stampa, un rito, un'attesa trepida, inizia un altro percorso, in genere pigro, quello della posterità. Non c'è più spazio per una creatività attiva ma ogni buon artista conosce bene il futuro delle sue opere e ne sa contenere, almeno entro certi termini, la probabilità di linguaggio e di estensione, salvaguardandone anche la durata materiale. L'inchiostro che lambisce e aggredisce la carta, la cui duttilità organica si piega docile al tempo; il colore che da quel nero deriva per interiore riflesso; la vita del segno sull'avorio del fondo; perfino l'azione della luce, la lenta usura sulla parete della stanza, fanno parte di una posterità avida come quella stessa che, presto o tardi, ritorna a corrodere le parole, a smangiare legature e a dissolvere libri. La pittura, che ha talora il carattere di una costruzione per accostamenti e rimaneggiamenti, gode d'una nascita per approssimazioni e, alla fine, rifiuta di morire nel bel mezzo di un silenzio complice. Gli specialisti hanno ormai appreso a calcolare le ore di sopravvivenza delle stampe e ognuna di esse possiede la sua carta d'identità, che include la cronologia legata alle sue possibilità di diffusione e cioè di esposizione. Sono peculiarità insite nella originalità del mestiere e della materia, proprie della nobiltà di un pensiero che trapassa in immagine mediante un individuale e insostituibile procedimento, atto a percorrere l'idea fino a liberarne l'esito con il più raffinato degli sforzi. Solo le opere di perfetta intellettualità muoiono senza un lamento, appunto come la stampa.

Giambattista Vico, nel riflettere quasi ad alta voce sulle pagine della sua Autobiografia (1725-28), ricorda come egli stesso venisse un giorno afferrato dal desiderio di rintracciare nei miti della Grecia antica le tracce di un sistema di pensiero. Era quello rappresentato dalla forma del mito classico e ne figurava la trasformazione, la rappresentazione fantastica. Successivamente, come apparve necessario a Platone nel suo Cratilo, Vico volle indagare soprattutto circa l'affiorare del primo lume del pensiero, balenato, come una pietra preziosa, dentro le origini della lingua latina. La sua pagina non pertiene esplicitamente all'acquaforte ma quest'ultima sembra entrare con tutto il suo carico intellettuale in questa gigantesca allegoria dedicata all'origine dell'idea.

È sufficiente seguire l'ordito delle parole immaginose: "E dalla voce coelum che significa egualmente il bolino e i1 gran corpo dell'aria, [egli] congetturava non forse gli Egizi, da cui Pitagora aveva appreso, avessero opinato che l'istromento, con cui la natura lavora tutto, sia egli il cuneo, e che ciò vollero significare gli egizi con le loro piramidi.". Quanto ai latini, essi chiamarono ingenium la "natura", che ha la proprietà dell'acutezza: "... sì che la natura formi e sformi ogni forma col bolino dell'aria; e che formi, leggermente incavando, la materia; la sformi, profondandovi il suo bolino col quale l'aria depreda tutto; e la mano che muova questo istromento sia l'etere, la cui mente fu creduta da tutti Giove".

Richiamare queste grandiose intuizioni della critique des fables, la potenza dell'evocazione fantastica e il paragone colmo della densità quasi fisica del pensiero originario non ha qui altro scopo se non di inseguire l'improvvisa adozione della parola - e dell'immagine - del bulino: il cuneo con il quale "la natura formi e sformi ogni forma"'. Grazie a lui, condotto dall'etere come da enorme mano, l'aria tutto depreda. Fino a concludere che "il principio operante di tutte le cose in natura dovrebbero essere corpicelli di figura piramidale". L'apice del climax è raggiunto quando si ricordi che l'etere è il fuoco.

 

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Il segno dell'infinito

 

La linea dei monti individua il discrimine oltre il quale si proietta la nostra immaginazione. Avverte che al di là c'è l'infinito, più vasto e sereno talvolta, oppure turbato e in tensione, quella riga che delimita l'orizzonte e il cielo e si dilata in un sentimento più forte, in una definizione meno sensibile, rimarcata idealmente. L'infinito attende al limitare estremo del mare, presenza vicina che le Marche lasciano sempre indovinare appena valicato il colle. A preannunciarlo sono nuvole levate alte, come possono fare solo su un grande spazio ventoso.

E in questo paesaggio, immutabile nonostante tutto, che Renato Bruscaglia ha condotto per tanti anni la sua poesia e la sua critica osservazione, un luogo dove il senso del confine si ripete senza drammaticità ma con una densità di modulazione altrove sconosciuta. Il sentimento che si insegue sulla lastra toccata da Renato, di greppo in greppo, di fosso in fosso, si denuncia schiettamente come urbinate - e dunque montefeltresco -, senza volere peraltro sciogliere un ennesimo elzeviro intorno alle qualità del paesaggio, come pure consentirebbe l'acquaforte italiana.

Se un tratto accomunante e distintivo dell'incisione di Bruscaglia si vuole annotare, quello è insito nella sua struttura, anzi, in ciò che di essa riemerge sotto il prosciugamento cui è stata assoggettata, e ci appare inquieta, con un senso del confine che non si pacifica. Tanto più che l'area territoriale dei suoi paesaggi si distende - in effetti si inerpica - da Urbino verso la Carpegna e il Sasso Simone. Si tratta della regione alta che vede Urbino sua moderna capitale tremare per la lontananza sul fondo, verso oriente, e, come carezzata da un pennello rosato, sorgere a mano a mano che la si scopre, il mattino, vecchia città adagiata e abbracciata al Palazzo di Federico. Un ineguale insediamento gotico e povero, annerito per i fumi che dai comignoli il vento libera sui tetti, sul dorso del quale intelligenza, umanità e fortuna hanno costruito il più bel palazzo del mondo, poggiato senza iattanza a traguardare il paesaggio che scende fino ai colli per declinare infine verso il mare.

Il Montefeltro è un groviglio di cime frastagliate che si alza e si abbassa come un'onda, flutti d'acque mosse. I crinali si doppiano e si triplicano come agitati dal vento e, tra loro, l'invaso di vallate e di fossi, di torrenti e di boscaglie si avvolge d'una nebbia sfumata che sale quando il sole, calando, tinge di grigio e azzurro questo arazzo di colline riottose, infila un sentiero che stringe la sera con uno svariare di colori, segni di amicizia, note armoniose che vanno a misurarsi, appena più a nord, con la mutevole visione di San Marino. Giovanni Pascoli non era poeta da perdere neppure uno tra gli affioramenti cromatici e melodici del paesaggio feltresco e l'immagine di San Marino è quasi il punto d'avvio di una così esaltante marea di dolcezze naturali.

Tra tutte le regioni italiane, le Marche conoscono davvero la forza generatrice della tradizione, del ripetersi e del riflettersi di una forma formata, di una parola che s'è stabilita tra terra e cielo come già mirabilmente composta e non più modificabile. Così, il tramando di perfezione classica che da Raffaello porta al Barocci per poi investire lo stesso Simone da Pesaro, è carico di una storia inalienabile e intangibile. La neoclassica Repubblica Rubiconia è stata la difesa dei pastori d'Arcadia contro il naturalismo ottocentesco e si è opposta al dissolvimento della forma classica più pura.

E forse facile dire che Bruscaglia visse subito tra le tessiture di un segno che poteva stringersi al punto di divenire macchia e trama, fervore di natura e di ombra, e quelle di un altro, analogo ma opposto, che si smagliava fino a perdersi nella gran luce della carta liberata e assolta da ogni traccia. Il segno è tutto ciò che un incisore può possedere. Il segno fonda l'immagine e con la stessa forza la distrugge. Proprio come un pezzo di tarlatana, il cencio che Bartolini aveva una volta immerso nello spessore stesso dell'acquaforte traendone un tremore fisico. Quei pochi centimetri quadrati di straccio suggerivano la possibilità di passare a una diversa, e splendente, struttura del segno. Si potrebbe dire che il caso più intraprendente ed efficace delle pulsazioni di Luigi Bartolini segua di necessità un ritmo che non è obbligatoriamente lineare. La sua grafica è di narrazione, rende espliciti soggetti e cadenze. La matassa arruffata e carboniosa di alcune giornate si presenta come finissima e speziata in altre. Le Viole per Anita Montesi, ad esempio, sono per me un capolavoro dell'acquaforte italiana d'ogni tempo, con quell'aria incerta tra antico e moderno, con quel doppio passo incisorio tra la morsura e il bulino sfiorato, accarezzato come un filo di seta.

La scelta di Bruscaglia fu presto quella di un segno portante, significativo, capace cioè di condurre il disegno a un risultato completo. Il reticolo non invase con la sua ombra l'immagine, la dilatazione del segno non divenne allusione impressionistica. Tra le due possibili varianti, era l'espressione che tentava Bruscaglia, non costretta ai termini intellettuali di una maniera del segno ma piuttosto frenata da un tratto forte e autonomo. In bianco e nero. Renato è un incisore e cioè un artista del bianco e nero. Ha adottato questa versione di immagine per nulla riduttiva, e invece fortemente potenziale, dove tutti i sali della vita visiva si condensano in assolutezze vibranti per la loro avversa unicità e solitudine, prima di intraprendere la strada infinita delle relazioni. Nessuno potrà mai descrivere compiutamente la fulgente bellezza del foglio bianco sempre in bilico sul lucido abisso del nero, se non ha praticato il cammino dell'acquaforte, selezione estrema condotta alla forza della risoluzione ottica, potenza dell'imprimitura indelebile come quella di un pollice sulla pece oppure canto disteso della scrittura che induce le sue lettere a cavillare sul fondo della carta.

Rileggo Focillon: "E tuttavia, in un campo come quello del bianco e nero, in cui regna una sorta di libertà rigorosa, può capitarci di carpire nel segno un segreto essenziale, simile al tipo di rivelazione che il grafologo riesce ad ottenere da una scrittura, di toccare insomma l'immediato. [...] In tal modo non abbiamo soltanto uno strumento di analisi, ma penetriamo in un singolare universo ricco di suggestioni, in cui la luce, privata di ogni iridescenza prismatica, fa scorrere con delicata purezza la nota schietta, ferma, concisa eppure sfumata di un nuovo spettro solare. C'è nell'economia del bello una virtù ascetica che non va trascurata.".

Lo scrittore dei grandi paesaggi europei, del romanico affascinante e del gotico universale, il solo che abbia saputo vigorosamente affrontare la nascita e l'adolescenza del mondo occidentale, ci avvince attorno a un tema - il segno, una linea, la luce - su cui si avvolgono interpretazioni figurative dalle quali geme, stillando tratto su tratto, il segreto intellettuale dell'artista; oppure si distacca proprio per essere l'espressione, l'unica, capace di toccare l'assoluto. Bruscaglia ne conosceva l'avventura tecnica più inflessibile e, nello stesso tempo, prediligeva con il passare degli anni la virtù ascetica del bello.

 

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Il bosco e la mente

 

Nella sua giovinezza Bruscaglia ha eseguito alcuni dipinti. È già eloquente che queste tele, non grandi e quasi tutte di paesaggio, abbiano avuto in sorte una generale cromìa improntata all'acidità brillante di verdi smeraldo e di azzurri di Prussia. Colori che nella loro fredda e un po' chiusa qualità non si offrono alla fisiologia delle forme naturali con quell'ottimismo che vien sempre generato, si direbbe, dalla luce solare, dal rosso e dal giallo e dalle ossidazioni delle terre e dell'ocra. C'è nella tavolozza di Renato, a quelle date, una luminosità bella e amara, qualcosa che sta tra una lettura protratta degli accordi cromatici di Casorati e, per la forma ponderata, di buona solidità, una mediazione romana degli anni '30, vicina a Mafai.

Le sue piccole tele, che mirano con evidenza all'analisi della struttura della forma più che a studiare il modo di un suo trasferimento in un modello di espressione, dichiarano un rifiuto del naturalismo che pure pareva fondamentale in certi paesaggi di fiume e di valle. Il fatto è che il viaggio interiore del dato oggettivo, e quindi di natura, viene sempre sottoposto a una agguerrita revisione per filtrare poi attraverso quella sorta di diaframma dove la qualità stessa dell'acquaforte si decanta e raggiunge - come chiamarlo? - lo stato di grazia dell'assolutezza grafica. Della solitaria azione del segno. Qual è allora il valore dell 'après nature? È come domandarsi quale sia il ruolo della natura circostante, del paesaggio.

Parrebbe che già sul tavolo sia poggiata la lastra di rame, in ferma attesa della mano che si porta più presto che tardi a incidere col bulino o la sgorbia il primo duro destino del disegno, quello che esce lucente dal vigore della punta là dove sarà nero profondo, imprigionato in quella escavazione rovesciata. L'impegnativa presenza di una forma predisposta attraverso il colore, servile rispetto alla costruzione definitiva dell'isolamento del bianconero: un magnifico silenzio, un tacito accordo con la natura contratto allo scopo di sottrarle ogni potere. Non esiste infatti la possibilità di concedere alla natura la sua antica seduzione di luce e di colore, il suo avvolgersi intorno alle cose per dominarle e per sviarne talora la stessa fisica entità. Il naturalismo avvalora ben grandi stravolgimenti, l'acquaforte è in grado di spezzare inesorabilmente quest'eventualità e afferma senza ritorno la supremazia intellettuale dell'espressione. Allo stesso modo non si può chiedere a Hercules Seghers di essere vicino, accostabile. Distogliendo lo sguardo dal suo territorio lunare, respingente, mortale.

L'affermazione della natura sembra rivestire, e celare, la personalità di chi l'affronta. I sensi vincono, colori e luci si riconducono al ritmo blando del giorno e delle stagioni. Si tratta di questione ottocentesca, a lungo dibattuta, che risorse per qualche tempo in quest'ultimo dopoguerra, a cavaliere del dissenso tra la sorte del realismo e quella rinascente del naturalismo. Nel corso di una specie di tavolata promossa da Attilio Bertolucci presso l'editore Livio Garzanti, circa nei tardi anni '50, Moravia affrontava appunto in questi termini l'emergenza naturalistica che stava allora molto a cuore ai padani, da Bertolucci stesso a Roberto Tassi, a Giorgio Cusatelli e, infine, a Francesco Arcangeli, che proprio dell'indole naturale avrebbe nuovamente investito il problema di un'arte contemporanea meno astraente o colma di circospezioni intellettuali.

In termini ancora storici, si sarebbe potuta ricordare l'antica discrasìa tra forma chiusa e forma aperta, l'antinomia che Wòlfflin aveva fatto venir fuori come un cartomante dalla conoscenza della pittura di tutti i tempi, consegnandoci, insieme ad altre coppie di concetti antitetici, uno smagliante modello didattico. La forma chiusa era ovviamente quella del realismo, potenzialmente carico di significato e, dunque, di illustrazione, piegato spesso dalle finalità anche politiche che lo alimentavano.

Al contrario, la risorgenza del naturalismo rispondeva più agevolmente alla tradizione, finendo spesso per riassorbire anche i succhi del bozzettismo di provincia della pittura italiana; per recuperarli poi nella gran luce del cammino degli impressionisti e, soprattutto, di Claude Monet. L'artista che, in effetti, era rimasto in quel momento fuori della contemporaneità conoscitiva in virtù di un 'ritardo' che la stessa critica francese pativa. Una condizione inimmaginabile, oggi, dall'osservatorio della nostra attualità. Non è certo ignoto ad alcuno che l'arte di Monet, il massimo dunque della forma aperta, è tornata nella vecchia Europa dagli Stati Uniti grazie all'informale di Jackson Pollock.

L'incisione è negata, per certi versi, all'amplesso materia-luce che genera l'informale. La linea strutturale è un investimento severo e la visione intellettuale imposta di lontano la sua equivalenza. La linea è ciò che lo stile può ribattere, gettare sul bianco del foglio. Non esiste un dripping grafico. Il significato che la linea esprime è tutt'uno con la sua esistenza. Anche il metro dell'uomo non è più assorbito da quel concetto di natura che, in fondo, dal romanticismo a questa parte, ha permesso accensioni di fantasia o di copertura sentimentale. Qui, il percorso è condotto dalla mente, dove ogni gesto ha una costruzione premeditata e incorrotta.

E già delineata una griglia di pensiero e di fattività entro le cui coordinate, talora faticosamente obbliganti, si cala intero il modo col quale Bruscaglia respinge la lusinga dell'immediato e del presente. Dopo aver identificato nella sua misura un tratto che pertiene sia al temperamento sia alla regola espressiva, che, anzi, s'è fatto perno della sua osservazione creativa. L'ambito segnato dagli anni iniziali ('45-'50) della sua attività grafica mostra di avere ben chiare le ragioni che altrove, specie per il tramite di Arcangeli sovrapposte a quelle di Giorgio Morandi, pilotavano una scuola pittorica e figurativa che forse può designarsi come superstite della provincia italiana. Era il naturalismo "ultimo", come lo definiva specificamente Arcangeli, che ne era stato l'innovatore critico e il teorizzatore. L'acquaforte di Bruscaglia si spingeva allora verso la poetica naturalistica del fiume, del borro, del fosso, pur con la percezione grave di un precipitare rallentato di alberature compatte nel silenzio dell'ora e nel lontano d'una solitudine (la tradizione di Elsheimer, di Claude e, soprattutto, di Dughet). Ma pare del tutto assente la corrosione della forma e l'assimilazione del tempo nella gran stretta della natura.

Secondo una conoide ottica di tipo fenomenologico, sarebbe facile asserire che se il massimo livello della coincidenza naturale di Bruscaglia concerneva l'esplorazione di campagne attestate sul fondo, riviere alle quali solo di lontano potrebbero rispondere le rive morlottiane della Brianza e di Imbersago, l'identità figurativa finora abbozzata si consolidava con risolutezza attorno alla definizione d'una luce d'orizzonte traguardata da una sella montana. Questo è, dopo gli anni '80 e salvo qualche prova, qualche residua emozione, il destino visivo, il modello tematico non più sostituibile di Bruscaglia.

 

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Il tempo, la misura

 

Nella dimensione scenica del paesaggio di Urbino il tempo appare immobile. Limitato appena alla sequenza delle stagioni e'talora neppure troppo scosso da quella scansione.

La ricognizione di Bruscaglia avviene oggi ancora sul motivo riconosciuto e analizzato. Una prassi affine a quella che fu di Morandi: individuare un punto lontano e gradualmente avvicinarlo e distinguerne i particolari, fino alla perfetta messa a fuoco. Ci sono delle viti timide e scarne come rami buttati a terra e perduti nel campo, su a Grizzana, che l'occhio del bolognese ha retrocesso a traccia nel momento stesso in cui le sceglieva a soggetto o, meglio, le collocava a personaggio di certe sue tele di guerra fra il 1938 e il 1943.

Il tempo si blocca quando la misura mentale individuale si sovrappone a quella convenzionale. Ciò non significa che il ritmo dell'esistenza non prevalga, ora, esattamente come chiede ogni figuratività moderna, qualsiasi capacità espressiva seguita alla realtà romantica. Bruscaglia va a scavare oltre la certa presenza prospettica, per quanto imponente o suggestiva. Una emulsione d'arte e di memoria artistica sostiene e intride la forma fisica del paesaggio urbinate, una originaria e indefinibile essenza che circoscrive una sacralità del luogo, un sistema già costituito nei suoi infiniti momenti molecolari. "Pittura di luce" sottende una comprensione altrove sconcertante, illusoria. Qui, essa è penetrata nelle cose. Occhi antichi hanno lungamente scandagliato il bagliore che scintilla appena tra prati, campi e alberi e la mano ha catturato il filo miracoloso che unisce il riflesso all'impasto pittorico, lo incorpora alla materia. "Petit pan de mur jaune". Luce imperturbabile che discende da questo incontro come una sottile filiera perlacea. "Brugensis-Burgensis" era la figura retorica, una fulminea translitterazione, un blasone araldico, che Roberto Longhi dedicava alla "pittura di luce", sospesa tra le Fiandre e l'alta valle del Tevere. L'immobilità del tempo nell'incisione di Bruscaglia è calata con eguale quiete in quella secolare forma formata.

L'altro termine condizionante è il tempo continuo. E sembra essere anche un luogo cui Bruscaglia non rinuncia, che conserva l'aspetto stabilito da Barocci nell'inserzione delle torri lauranesche nell'Annunciazione, già a Loreto e ora in Vaticano. Come pure nella stupenda acquaforte che ne deriva, degli anni 1584-'85.

Attirando a sé l'emergenza, lo sguardo riesce a cogliere una visione durevole delle cose quali sono, il muro delle Stallacce, l'abside del Duomo, le case di San Giovanni arrampicate su per la costa assolata. È lo spazio prospettico trovato e ricostruito da Piero, dal Perugino e, più di tutti, da Raffaello. Montefeltro profondo colmo di luce e d'ombra, di scrimoli montani e di profili sui quali si taglia la luce dell'alba e s'arrossa quella del tramonto. Camera ottica dove ogni labbro di greppi e fruscio d'alberi, sfilatura di vento e di nebbia scavalca la sua statura e solleva un'altra cortina. Da queste mura si accerta che le misure dello spazio e del tempo coincidono. La perfezione dell'arte antica può intimidire come capita soltanto in Italia. L'eco sussurra parole già dette, passioni già vissute. Fanno parte del tempo che ritorna, della forma che ripete la forma.

La misura del tempo non è un gorgo che afferra e mulina fino a divorare il presente, per Bruscaglia. E quella manifesta, seppure sopita e discretissima nella formulazione dell'immagine di paese, che appartiene ai registri tonali, al valore, alle mediazioni tra forma-colore e luce-tempo, che vengono a Bruscaglia da un ambiente precostituito, e cioè dalla storia.

Un singolare atteggiamento, metà comportamento e metà cultura, ci segue su quei monti da quando abbiamo fatto del paesaggio di Urbino la somma dell'educazione giovanile, il luogo ineluttabile dal quale decorrono nella mente impulso e azione. Una volta c'erano molte più allodole, ora, perfino il gabbiano si infila nel maestrale e, come smarrito, tira diritto. Si spinge in alto, lontano ormai dall'acqua. Scendendo nuovamente, arriva il momento dello stupore, nello scoprire il mare che fa spuma bianca nella risacca sotto lo scannafosso degli ultimi greppi.

Bisogna riacquistare quota. Ecco un colloquio oggi possibile con Bruscaglia. Occorre collocarsi di nuovo nell'ampiezza di orizzonte che si stacca dai tetti e dalle mura della città e li sovrasta con nuvole e aria mossa. Lassù il cielo è come a diecimila metri, si sfila di fianco all'aereo, si colora di trame allungate gialle o violette. La misura sembra l'espressione dominante che scaturisce dall'acquaforte e si dovrà decidere se sia materiale o mentale, fisica o metafisica. Prendendosi da quella luce e da quel filo d'orizzonte, si finisce per chiedere all'osservatore se di misura d'arte si tratti o se il paesaggio non imponga le condizioni del vedere, dell'incidere, del raffigurare. La misura di Bruscaglia promana dall'aria intorno, dalla linea che sfrigola e trema contro il cielo. Non si disserta del 'bello di natura', è la forza educativa del paesaggio che resiste tuttora contro il vituperio dei nostri giorni. Non solo una misura mentale ma una lente che si imposta tra l'occhio che osserva e i campi gli alberi le case che si adagiano nella scena di una giornata, di un'ora come altre e, pure, irrepetibile.

L'intellettualità della misura di Bruscaglia, l'estensione del suo raggio visivo rivolto all'orlo del colle, quel fremito che si rivela solo nell'incessante incidere della luminosità contro il profilo dell'Appennino, guadagna immanenza nel salire. Allora sembra davvero che notte e giorno la luce consumi la nozione del tempo spalancando il cielo - di fissità rilucente, di inalterabile durata notturna - sul battito stesso della vita. La visione di Camille Corot nel periodo italiano è impregnata di questa consapevolezza.

Corot è l'artista della misura. La sua contenutezza elementare, una sorta di peso specifico della forma raccolta dal grandissimo paesaggio neoclassico, a cominciare dagli acquerelli di Ingres, ha affascinato, di fatto, il Novecento italiano. Ricorrere a Corot è, ormai, un'operazione di cultura e di frequentazione museografica tipica del nostro secolo. Una veduta intorno alla metà degli anni '30, come quella di Volterra, da mezzo delle crete assolate e delle macchie di pruno e di ginestra, oppure l'altra, più che nota, del Ponte romano di Narni, sono, nel cuore del romanticismo moderno, il diaframma che distacca dalla sensualità avvolgente di Courbet e dal suo senso della storia come presente, ciò che impedisce alla natura di isolarsi nel silenzio della costante neoclassica.

Ricordo quando Morandi parlava del 'suo' Corot, sfogliando il libriccino del Braun e segnando, con il dito brunito dalla nicotina dell'eterna sigaretta, toni e valori. Conoscevo alcune di quelle tele perché il primo libro d'arte moderna che avevo letto - un prestito di Renato Bruscaglia - era stato i Pittori moderni di Lionello Venturi, delle Edizioni U. Credo fosse il 1949; il vicolo risuonava di stridi di rondini sotto l'enorme platano che cresceva nel cortile del vicino asilo infantile. Lo studio di Renato si apriva a quella luce verde, liquida e trasparente, proprio come sarebbe piaciuta a Corot. In quegli anni - i suoi trent'anni e nemmeno - dentro Bruscaglia stava prendendo corpo il senso della misura. C'entrava naturalmente anche Morandi, specie dopo la pubblicazione del saggio di Peppino Raimondi su "Proporzioni" (il primo numero edito nel 1943 ma diffuso dopo il '46). Era esattamente lo stesso, omogeneo e per l'ultima volta 'bolognese', senso degli affetti e dell'indipendenza dalla versione che poi diverrà tipica (e per certi versi anche affliggente) di un picassismo post-bellico tradotto spesso dall'espressionismo guttusiano. Tramite per questa autonomia conclusiva degli anni '30 divenne subito lo scritto più famoso di Francesco Arcangeli, ha radice malata della giovane pittura italiana. Vale a dire quanto aveva preso consistenza nel premio Bergamo 1942 attraverso la 'rivelazione' della Crocifissione di Guttuso.

Quelli furono per il paesismo di acquaforte anni fondamentali, con la presenza esperta di Castellani che, in Urbino, traduceva dichiaratamente il messaggio morandiano in termini vasti, sonanti e, talora, di un'epica contadina della collina appenninica; anche se l'occhio dell'incisore faentino mostrò di puntare a una pluralità georgica e di godibile osservazione di luoghi fisici e di strutture formali. Più tardi fu Arnoldo Ciarrocchi, artista che non ha mai cessato di portare avanti, fin dentro l'educazione urbinate, una ventilatissima spazialità romana, idonea a condurlo a una felice matissiana luminosità.

Questa può dirsi, all'inarca, scavalcando la tradizione anche inerte attraverso il mormorio folto di modi differenti, la stagione pudica dell'incontro con l'arte e con la deliberazione del fare arte. L'universo dell'acquaforte aveva, ovviamente, una serie di modelli istituiti, una specie di selezione ricorrente che nel dopoguerra si sfibrava un poco, con l'ammissione di nuove esperienze. Inevitabile almeno la citazione, al di sopra dei confini, dei fogli bellissimi e perfino Vuoti di Villon e del suo cubismo articolato da dissoluzioni piuttosto che da costruttivismi. Come pure del suo opposto e decidere così di abitare l'irsuta e adirata magia marchigiana dell'interprete più libero e insieme difficile, il ritroso Bartolini negli anni di Ladri di biciclette. Non fu mai di Bruscaglia l'acquaforte di irrealtà e di surreale invenzione, campo di battaglia di molto neoralismo alquanto affatturato.

 

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Verso la crisi, per la crisi (1957-1964)

 

Nei primi anni '50 si apre nella consuetudine espressiva un varco i cui prodromi andavano addensandosi da tempo. E interessante, peraltro, constatare come il meccanismo di disgregazione della solida tradizione figurativa, tentata nel pieno del naturalismo ultimo di marca visibilmente settentrionale e padana, richiederà sforzi di anni ulteriori per accentuare il dissenso che Bruscaglia accumula nella sua maturità. Che registra una doppia responsabilità, sia artistica sia critica. Quest'ultima dimensione si dilata in rapida progressione fino a una presenza d'impegno, una misura di volontà che riconosce se stessa nell'attitudine schietta alla difesa della città e del paesaggio storico. È una condizione di homme revoke più che di iscritto e organizzato nel vario quadro dell'associazionismo costituito.

Bruscaglia diceva di aver ritenuto questo senso del dovere civico e intellettuale dall' insegnamento di Pasquale Rotondi ed è vero. Un periodo incisivo nella personalità del Bruscaglia giovane, disoccupato, nei giorni del dopoguerra più insofferente e instabile, fu determinato dalla richiesta che Rotondi gli rivolse per l'esecuzione del rilevamento assonometrico della struttura del Palazzo Ducale, finalizzato al bel libro dedicato, nel '50 appunto, alla "città in forma di palazzo", edito dalla stessa Scuola del Libro. Che rappresenta forse la realizzazione di maggior efficacia a segnare il confine tra la vecchia stagione delle favole e delle figurazioni illustrative, che Carnevali aveva fatto discendere direttamente da Nicholson e dalla "Revue Blanche", e la possibilità di costruire un'editoria diversa e sperimentale che comprendesse anche la tutela. Il lavoro di Bruscaglia si connotò come un'avventura oscillante tra la razionalità geometrica e il sapore intellettuale dell'antica ichnoscenografia, e cioè della veduta 'a volo d'uccello', che rimandava in linea retta all'elaborazione del domenicano Egnazio Danti, all'epoca di Gregorio XIII Boncompagni e alla rifondazione della gromatica.

Esistono acqueforti che continuano a sottolineare questa specie di demarcazione e procedono verso un futuro ormai intravisto abbastanza nitidamente. Profilo settentrionale, del '57, Verso il mare, del '58, oppure Luce crescente, che è del '59, si allineano con costanza sulla via, sempre quella, dove è il segno e dunque il carisma stesso dell'incisore che nasce e respira nella vitalità di quell'atto creativo, che scarica la sua capacità figurativa tradizionale per diventare portatore reattivo, espressivo di attitudini differenti. Vino al rischio dell' eversione, nell'intenzione di raggiungere i livelli dichiarati dei contenuti morali.

Si affacciano a questo punto quesiti che sollecitano a spiegare come giunge, per esempio, a configurare una situazione etica quel gruppo di segni che compone il campo quasi magnetico, il boccascena dell'acquaforte figurata. Dove si denuncia la sua deliberazione e quale contenuto può esprimerla. Sono forse le ragioni dello stile, quelle che guidano la mano del pittore verso un'aperta dichiarazione, come filtrano attraverso il gesto dell'incidere? Il ritmo stesso di questa rete tessuta concede così poco all'osservatore che essa deve proclamarsi muta? In realtà il segno traduce il dettato del sentimento e del proposito di espressione quasi il bulino fosse l'esito estremo di un'apparecchiatura sensibile alle variabili interiori; e la morsura o, di fatto, il processo moltiplicatore che percepisce anche i più sottili desideri, li conduce a un rilevamento tangibile, ha stampa è una zona di reattività in essere, quando l'opera centra il risultato, dove i contenuti fuoriescono con la potenza dell'intellettualità formata in immagine.

Proprio nella citata Luce crescente questa ragione trasmutata in segno è particolarmente afferrabile e suggerisce, anzi, che questa energia di stigmate naturalistiche, di suggestione nettamente nordica e lombarda ("Corrente" e Ultimo Naturalismo), abbia raggiunto un suo vertice di grande versatilità e stia ormai ripiegando alla ricerca di vigorose variazioni proprio sul segno. Vi si incrociano, infatti, brani di tessitura come quelli degli ultimi anni, che possono essere ricondotti anche ad auscultazioni della cadenza plastica di certi scultori (Cherchi, fra gli altri), e altri che tendono a far scivolare l'immagine su una struttura nuovamente orizzontale, come per conquistare uno stato di originale, sfogata apertura alla luce.

Inaccesso agli anni Sessanta è contrassegnato, con la maturità di Bruscaglia e l'impegno delle esperienze che si accelerano, da quella che si deve definire come la sua più fertile condizione poetica. Nasce in lui una forma evidente che spezza o sostituisce le ultime "cose". Resiste, infatti, in queste immagini, una distribuzione generale che gradualmente si riduce a uno schema vissuto, una specie di sindone dove le qualità si decantano fino alla loro spoglia segreta, ha forma, montagna, varco, orizzonte che sia, si profila con rinnovata lucidità etica.

Difficile e limitativo sarebbe qualificare soltanto come astraente questo processo che Bruscaglia conduce, d'ora in poi, con la sicurezza della meditazione.

Si osservino i fogli di Confine alto, del 1961, oppure la sua palmare conseguenza, /'Orizzonte alto di un anno dopo. La barriera delle montagne, ribalta prospettica che si protende sino all'estremo margine del concreto, crea una sosta obbligata davanti all'ultimo cielo. La natura non illude più, non concede riconoscenza, sta di fronte all'osservatore come un'improvvisa cesura. Un'ostruzione che non ha nulla di metafisico. L'essenziale potenza del teatro appenninico deriva anche dall'umanizzazione che ha disegnato la frastagliata dorsale, luogo di bellezza vissuta e non un dramma naturale trasferito nella rarefazione aerea, come rappresentano perentoriamente le Alpi. Morandi confidava come fosse impossibile, a suo vedere, far crescere l'arte al di sopra dei settecento metri di altitudine. Non so chi avesse stabilito con tanta esattezza una tale entità fisica: la paternità dell' argomento si divideva tra Longanesi e Maccari. Credo piuttosto che egli rifiutasse di ammettere entro la sua visione quell'eroismo dell'intangibile gelido e scintillante che era stato così penetrato, nel corso di tutta la sua giovinezza, dall' avventura di Segantini aggrappato alle nevi del Maloja o dello Julierpass. Allo stesso modo, non penso che Bruscaglia abbia mai veramente amato Friedrich, proprio per quel suo vivere a così alta quota e oltre il parallelo mediterraneo.

Alto, salito com'era sulla proda dietro il cimitero di Grizzana che scoscende sulla valle del Reno, Morandi, estatico, scopriva "Sono tutti calanchi!" e annotava, letteralmente rapito, come quel venticello che sfrascava ginestre e rovi non potesse che spirare direttamente dal monte Cimone. Forse è così anche per Bruscaglia, un tremare più vicino delle stelle e una favola umana che narra eventi del tempo e fatti dell'uomo e della comunità. Un racconto dove il luogo occupa una dimensione affettiva prevalente e, ora, la durezza delle vicende costringe l'immagine a uno stridore, a un arrotamento che converte la quiete in apprensione. In questi anni '60, sempre più camminando verso i nostri giorni, nel tattile riscontro d'una domesticità violata dalla grossolana manomissione, dal furto progettuale e dallo sprezzo verso la terra e la storia, in Bruscaglia il lavoro e il desiderio d'opera sono venuti stringendosi a una difesa insopprimibile, come è quella della poesia. Alta e risentita, giudizio di valore etico.

Con Terre perdute, un'acquaforte e puntasecca su lastra quasi quadrata del 1962, Bruscaglia sembra avere un improvviso trasalimento e scorgere con chiarezza davanti a sé una strada possibile. Per la prima volta si stagliano personaggi e forme, rovi raggomitolati e cardi combusti, che, finora, la misura fermissima dell'incisore aveva allontanato. Sul fondo, la montagna cala il suo spessore notturno o vespertino, senza alberature. Da quella distanza, avanzano o rotolano verso di noi sterpi e idee non ancora concepite, simulacri del vento e della sera o della polvere.

Segnali di sviluppi in questa direzione si potevano cogliere nel preavviso della lastra Le cave, fin dal 1960. Per dichiararsi compiuta intenzione espressiva nel 1965, nella lastra di media grandezza Montale e cioè Monte Nerone. Su questo percorso, quasi posta di traverso, è l'acquatinta e puntasecca Autunno, datata del '63. In questi anni di problematiche aspettative, tra la crisi dell'astrattismo e il ritorno un po' stentato della figurazione, la stampa doveva riacquistare quel peso e quella presenza che nella valutazione critica non possedeva, se di arte minore ancora oggi qualcuno volesse parlare. Un pur piccolo nucleo come quello citato, dopo il varco difficile degli anni '60, esprime un potere e un'immanenza che possono ricordare certi esiti narrativi di Franco Francese e altri di Fiero Ruggeri.

Si riguardi Il roveto del 1964 e, prima e nuovamente, La cava grande del 1960. Il germinare del tema figurativo si comprende come una sonata. La montagna sbarra con la sua mole il passaggio verso l'orizzonte, avviato alla cecità della sera imminente. Il fosso che discende dalla intersezione delle due dorsali incrociate punta diritto verso di noi e marchia di una inconsueta agitazione formale la parte bassa della stampa, dove si rapprende e si esalta la violenza dell' apparizione. Questa ruga centrale, il fossato riottoso, indizi di un disagio destinato nel futuro a culminare nella realtà gravosa dell' abbandono delle campagne, della trasmigrazione, di un'ecologia in mortale difficoltà.

Da questo momento, e sempre più di frequente, l'incisione offrirà un'immagine quasi monotematica. Una barriera montana oppone la sua forma massiva, talora controluce, talvolta scabramente illuminata, ho spazio che conduce alla sua base è di solito un campo, una serie di campi che assorbono la luce per descrivere una confusa e nervosa prospettiva di cammino. Un palcoscenico di rovi, una natura perduta dalla quale il profilo montano che si leva incombente sembra sollevarci come a una possibile ancorché oscura salvezza e, insieme e per questo, condannare all'accettazione di un'immagine ignota. È il primo segnale, credo, che Bruscaglia ci consegna per la restituzione via via più animosa di una natura ferita a morte. Dentro il paradigma della montagna che si nega e della distesa campestre che porta alla sua cima soltanto rovina, si svilupperanno altri pensieri. Fino a quello dell'innalzamento del ciglio frastagliato, forse presago di un riscatto al di là di quella linea d'orizzonte, che è, di fatto, il ritratto non fantasioso delle Marche.

 

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Vita d'autore dopo gli anni '90

 

Le colline, i campi arati e chiusi dalla siepe, i fossi segnati dai pennacchi dei pioppi, i varchi montani, vedute lunghe che vanno verso il mare e si fanno largo tra i rami degli alberi, scoprendo l'azzurro tracciato dal freddo invernale, sono protagonisti di lunghi decenni di lavoro e di meditazione sulla forma. Il paesaggio è teso come un volo, un'ala di vento, una nota musicale. Il passo di Renato Bruscaglia e la sua metrica si sono adeguati a questa forma nativa, mentre l'occhio trascorre da un cammino all'altro, da uno squarcio improvviso, da un'apertura che si intravede in paese, procedendo nel vicolo alto e sospeso come un camminamento di ronda. La forma marchigiana ripete l'archetipo difensivo del castello e affida dunque allo sguardo la sua stessa sopravvivenza. Si coglie un'istantanea rapida come lo spiffero che da quelle spaccature subitanee investe il passante.

Dall'accettazione giovanile, nonostante tutto colma di attese, Bruscaglia è arrivato alla veduta della maturità, intorno al '60, intesa come un'aspra diffidente condizione critica dell'universo. Avanzata ancora un poco l'età, il paesaggio una volta di più imposta la sua figura, metà fisica e metà ottica -una sequenza musicale fitta di dissonanze -, dove il 'quadro di natura' che la didascalia deve esprimere talora oscilla, si piega al vento e minaccia calamità oppure sembra levarsi e volar via, come un foglio di carta. Non fosse per quell'incisione forte e ferma che "il bolino dell'aria" di Giambattista Vico ha l'occasione di formare e di sformare.

L'inquadratura della finestra, l'improvvisa visione prospettica al termine del vicolo, si schiudono su un dialogo appena percepibile ma sicuro. Lo spartito delle parti non è troppo mutato da quello della giovinezza e, tuttavia, si avverte che dentro la grande misura di questa ultima scena drammatica terra e cielo sono coinvolti in una tensione giunta al limite dell'impegno. La volontà espressiva è grave di stringente necessità, impressa nella forma, consapevole di mettere in gioco altri contenuti. La mano sensibilissima sfiora la lastra e traccia un solco incisorio appena lievitato. Quel réseau di linee accompagnate verso il cielo dilegua come un fruscio. Magìa della forma apparente che, sotto i nostri occhi, saprebbe ancora e ancora trasformarsi senza fine.

Esiste dunque un'evoluzione interna insita nello stile apparentemente 'fermo' di Bruscaglia. Le tematiche formali, quelle che nell'opera di ogni incisore sono per lo più destinate a raggrumarsi intorno ad alcuni registri, per lui si sono presto rinserrate soprattutto attorno al paesaggio. Non è una figurazione esclusiva ma la presenza frequentissima del rispecchiamento paesistico ha di certo un ruolo assai marcato e significante. Esso è stato elevato a proscenio di ogni immaginata figurazione. E la chiave fantastica e nondimeno oggettiva che governa i modelli dell'artista, il quale adotta, con una scelta elementare, un'acquaforte di impostazione naturalistica ottocentesca (Fontanesi, Fattori).

Il processo della costituzione di immagine di Renato Bruscaglia si recupera sfogliando l'album delle sue cose predilette, che lascia comprendere attraverso quali passaggi è arrivato ai movimenti brevi e stringenti che contrassegnano indelebilmente la sua attività creativa. All'interno della già ricordata produzione giovanile d'après nature va citato quel Paesaggio con le querce di tessuto olandese, che discende schietto dall'ammirazione per i Tre alberi di Rembrandt. Conseguentemente, l'osservazione della natura invoca folte alberature, di verde struttura e di ombre ben pronunciate. Un sito dissezionato in queste innumerevoli 'pose' non può che rimandare, si è detto, a "Corrente" e, in particolare, a Morlotti. Lo stormire di pioppi e di frassini sul profilo di tempi solari chiede un assetto grafico di più offerta massa vegetale e, quindi, un fraseggio pressoché cromatico della tavolozza essenziale dell'acquaforte.

Dai primi mesi degli anni '60 decorre una sorta di abbandono della magnificenza del paesaggio e dell'ora e di quel riposo dei sensi a cui la prima, godibile messa in posa aveva dato un consistente spazio sensoriale. Sempre più spesso il livello, la posizione dell'artista - inteso come osservatore - si rapportano a un territorio dalle linee semplificate. La percezione si volge a brani di paese che, dal fondo del fiume o del fossato, si sono arrampicati verso un'altezza dove il profilo montano si staglia profondamente sulla linea dell'orizzonte.

Un paesaggio per la gran parte inameno si è venuto organizzando con pochi tratti. I luoghi sono lontani, sempre più misteriosamente rimossi e remoti, con un forte effetto di dépaysement. In realtà, la loro ispezione incomincia da quelli che si distendono tutto intorno alla città, circondandola di visioni, orizzonti, albori e cortine dietro le quali a lungo si intrattiene la luce. Se si prova a inserire il vecchio nucleo urbinate in una sorta di fenomenologia connessa ai topoi ricorrenti della vita e della meteorologia, le mura, le aperture di vento e di colore, scaturisce evidente la necessità che l'occhio tenti un'altra messa a fuoco, per un possesso visivo ulteriore e diverso. E allarghi la prospettiva, spalanchi quel proscenio che la città possiede nel suo codice genetico, entro il quale le forme si fanno protagoniste.

Un visibile, oggettivo cambiamento è stato messo quasi cautamente in atto dall'artista. Articolato secondo modelli progressivi e cioè protèsi, senza scarti o ritorni, aderisce alla sua ultima forma poetica, che si circoscrive come una definizione silenziosa di alta libertà fantastica, dove il gesto dell'incidere assume intera la sua funzionalità grafica. Un insieme di elegante e nervosa misura - sempre quella, la solidità di una nota destinata a segnare le altre - che consente al percorso del bulino gesti interrotti, taglienti e veloci. Brevi e discontinui, uncinati ed ellittici piuttosto che costruiti secondo l'ordito preordinato della trama di Morandi. Lo stesso moto che scalfisce è dunque divenuto più direttamente espressivo. La tessitura del fraseggio morandiano, connessa a tono e valore, è piuttosto un supporto che non espressione compiuta. Un basso continuo. Al contrario, il segno di Bruscaglia possiede una valenza immediata, difficilmente descrivibile, non mediazione ma forma viva, volo e ferita, stridore e musica. Colore che appena traspare, voce dell'aria. Un segno che ha liberato senza clamori tutta la concessività accumulata nel corso della vita, dapprima dedicata - durante la giovinezza - alla consolazione del paesaggio e, più tardi e con coerenza, a quanto profondamente in esso si riflette.

Il segno, già scarnificato da Bruscaglia, apparirà di lì a poco tanto prosciugato, o rauco, da evocare una dimensione più morale che non memore dell'antica mimèsi naturalistica. La condizione umana ha ristretto e approfondito il solco espressivo, non si può credere ancora a quella pacificata allusione alla grandezza della natura che a lungo ci ha illuso dall'alto delle mura, all'abbraccio e allo sguardo commossi che per secoli ci hanno nutrito. L'amarezza s'è fatta greve e continua, la punta d'acciaio non tollera altri indugi. La vita, insieme di corpo e di pensiero che parve dover accettare la bellezza come un ancestrale dono, stringe piuttosto attorno alle proprie giornate il cerchio della meditazione, lieve e irrevocabile, dura e sinuosa, senza arretrare mai dinanzi alla resistenza dell'essere e sapendo che quella nota assidua, appena sopportabile, sarà il segnale della misura che diviene d'un colpo unico messaggio.

Questa è l'altezza possibile all'acquaforte, la sua meraviglia finissima e accesa, il suo contenuto ineluttabile. Ultima nata fra le arti, subito condotta a una necessità di espressione oscillante tra l'imitazione e l'assoluto, nella seconda metà del Cinquecento, ebbe occasione di ingaggiare un confronto costante con la pittura, dunque con l'espressività per eccellenza fluente e fisiologicamente inarrestabile della sua capacità di dominio delle forme.

 

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L'intimità dell'incisore

 

Riemerge, ormai purificato da strutturalismi una volta assai di moda, un catechismo laico rivolto alla Vie des Formes, elaborato da Henri Focillon nel 1931, la più intensa fra le tante pagine comprese tra il razionalismo spiritualista, il Système des Beaux-Arts di Alain e il dettato estetico di Paul Valéry. Focillon ha obbligato per anni a riflettere sulla potenza creativa dell'acquaforte, messa a confronto quanto nessun'altra disciplina con una determinazione all'espressione mediata da un ambito tecnico e materiale di straordinaria duttilità.

Si torna subito all'interpretazione difficile dell'opera di Renato Bruscaglia, un artista che ha aderito per tutta la vita a una scelta impervia, sia estetica sia morale. Ripenso ai lunghi anni di lavoro, di serenità consapevole e d'affanno, durante i quali ho potuto osservare la sua complessa personalità affrontare spesso il disagio del vivere, mosso o confortato e, qualche volta, un poco medicato da una misura intellettuale che è soltanto sua. Salita, dall'arte, al ruolo che urgeva nella crudeltà della vita.

La sorte mi ha dato la possibilità di vivere l'acquaforte accanto ai due maggiori protagonisti dell'espressione in Italia e fra i grandi dell'Europa dell'ultimo dopoguerra, Bruscaglia e Luciano De Vita. Ambedue marchigiani, opposti per carattere, temperamento e condizione culturale, questi artisti hanno goduto e patito la gravezza emotiva dell'acquaforte fino a rifiutarla, il secondo, e certo a respingerne la voracità, il primo. Intendo la fecondità imparagonabile del transito materiale dell'incisione, la sua complessa mediazione, la collocazione tra i magisteri dell'intellettualità più drammatica. Da Barocci a Seghers, da Rembrandt a Piranesi a Meryon a Morandi, i giovani artisti hanno conosciuto una selezione ristrettissima di autori moderni cui ricondursi ma hanno praticato l'incisione nella sua più intensa attualità formale e storica.

La forma dell'incisore è destinata a nascere dal ribaltamento delle parti. Fino a qualche anno addietro, il bulino e la sgorbia, la mano e il polso agivano davanti a uno specchio che consentiva all'artista di 'vedere' la realtà fisica. A lungo andare, gli occhi fissi e le mani rovesciate li rendevano simili ai vecchi tipografi al bancone, allenati a comporre le righe dei caratteri di piombo in senso eternamente palindromico. Anche la stampa era inversa e nell'incidere emergeva con chiarezza, per lo zinco graffiato - bianco su nero - e per il sentiero delle morsure, che diviene segno e cioè nero inchiostro nel solco corroso, struttura significante. Tutto attorno, dove si spandeva lenta la pece, regna ora il biancore della carta.

In questo capovolgimento delle parti è latente una frazione, forse appena un effetto di un processo attraversato da un mistero irrisolto, un'attesa che ognuno accende di valori diversi, con quote differenti di fiducia tecnica e altre di emozionalità. Il rovesciamento è guidato proprio dall'agente esoterico della morsura, alla quale viene confidata la massima possibilità del risultato. Analoga per la ceramica è la funzione del fuoco, elemento risolutore sia per forma sia per difformazione. Il maggiore, e più semplice, dei raggiungimenti espressivi della libertà dell'acquaforte fu quello - ben poco noto agli studiosi e agli stessi collezionisti - della replicazione della morsura. E la moltiplicazione delle versioni, la diversificazione delle varianti significative in più stati, l'iterazione degli originali.

Fu forse sufficiente a Federico Barocci, nell'alto studio domestico in via San Giovanni, davanti alla mole del Palazzo e dell'abside martiniana della vecchia cattedrale, pennellare un'esigua quantità di cera calda per impedire l'ulteriore scavo dell'acidazione, attenuare o far sparire il solco precedente, per riparare poi da una nuova erosione la delineazione segnica. Per dare prospettiva alla forma creata, assodarne il volume, secondo un più e un meno fino allora affidati alla punta del bulino, alla forza del polso, alla resistenza del ferro. Non è così azzardato credere che una scoperta per certi versi elementare, empirica e pratica, si verificasse nell'officina di un pittore più di ogni altro impegnato nella funzionalità del colore inteso come reazione del mondo fisico alla luce. Aggiornato intorno all'opera di Leonardo da Vinci, che più volte ricorre nei suoi studi grafici, Barocci dovette tentare di vincere la barriera della luce e quella delle conseguenti induzioni cromatiche - come un impressionista dopo il 1875 -, piegando in ogni modo possibile la bidimensionalità dell'incisione a bulino.

La mano, da sola, non poteva conoscere se non alcuni brividi, sollecitati dal ritmo esteriore del disegno. Il piano e il forte, il vicino e il lontano, il forte e il flebile sono invece frutto di un intenerimento o d'una recrudescenza che coinvolge la materia. Questa tocca la sua estrema duttilità trasformandosi e adattandosi, grazie a una progressione morbida, al valore della carta, al suo assorbimento controllato, a quella misura vitale che fa della stampa all'acquaforte il diagramma più sensibile tra i mezzi di espressione.

Nell'arco segnato dalla moderna vita delle forme, ogni tecnica determina un suo universo manifesto. Henri Focillon, figlio di incisore abituato all'arte sul tavolo paterno, a Lione, decise di studiare il grande Piranesi e ne trasse l'esemplare monografia del 1918. La recensione perfetta che l'anno stesso ne diede Roberto Longhi (allora redattore de "L'Arte" di Adolfo Venturi) fu il segnale più conscio di una comprensione partecipe, che già allora si snodava lungo il percorso della possibile teoria dei mezzi espressivi. Tuttavia il libro, uno dei capolavori della storiografia critica del secolo, ebbe una diffusione assai limitata in Italia, almeno fino a quando Maurizio Calvesi non provvide all'edizione critica del 1967, realizzata a Bologna.

Avevo chiesto a Bruscaglia cosa pensasse di quelle irrepetibili pagine; più direttamente, quale fosse la sua opinione al riguardo della teoria della genesi dell'atto tecnico, che conquista il suo diritto alla vita delle forme senza quasi ricorrere alla mediazione mentale. L'argomento rievocava sia l'attenzione della singolare intelligenza pratica che aveva nutrito l'opera di Focillon, senza diventare ideologia, sia il sorgere di un processo ermeneutico pressoché estraneo alla cultura italiana. Da quei discorsi nacque anche la magistrale traduzione di Giuseppe Guglielmi, per l'Alfa di Elio Castagnetti, dei Maitres de l'estampe, scritti che Focillon aveva raccolto nel volume intitolato Technique et Sentiment, edito nel 1931. La prefazione di André Chastel (era il 1966) tendeva nitidamente a riproporre anche in Italia la qualità critica e letteraria - dunque, di storico e di inventore - di colui che era stato il suo maestro. "L'arte - aveva scritto Chastel in apertura del suo grande libro su Lorenzo dei Medici, nel 1959 - è la storia dello spirito [inteso con tutte le valenze semantiche del francese esprit] umano attraverso le forme".

Ogni incisore percorre con la sua punta una storia vasta e totale, sonda la ricchezza di enormi sedimenti, simili a quelli dell'archeologia. Sotto il suo "bolino" - come indagava Vico - si "forma e si sforma la forma" e cioè il mondo della natura e degli uomini, con una sorta di sciabordio che cela e insieme rivela la sabbia sotto il riflusso dell'onda.

 

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Oltre il '60-'65

 

Un dramma così esplicito già si era annunciato, nel lavoro di Bruscaglia, fin dal 1960. In un'acquaforte impegnativa come La cava grande, di quell'anno, e, per certi versi anche nell'altra che certo la precede, L'estuario, si imposta con nitidezza la bipartizione dello spazio e la chiara determinazione che unisce le due possibilità: alto, ossia oscura speranza, basso, ovvero confusa agra realtà. Occorre giungere al '65 per verificare una nuova e più avanzata icona simbolica. Mattino conduce i nostri passi sul terreno incerto, fino a ridosso della montagna che si oppone fosca; che, tuttavia, può illuminarsi appena, di un freddo aurorale, sconosciuto. E, come tale, attendere ancora.

Un itinerario di complessa fenomenologia come questo deve lasciare il tempo a uno sviluppo di sentimenti e di più scoperte volontà espressive. Appartengono, del resto, a questa antinomia alcune incisioni amarissime, prima tra tutte quell'Autunno che, nel 1963, si precisa come un omaggio a Seghers e, insieme, a un Burri ritrovato. L'impianto esistenziale è arduo, la materia si è fatta 'altra' - come invocava l'informale - ma insegue ancora un ricordo che non si spegne, anzi, resiste e dispiega la sua forma ben nota sotto quel cupo velame di disperazione.

Intorno agli anni '65 sembrerebbe potersi attenuare la potenzialità di varianti intervenute intorno al nucleo più sopra individuato. In realtà, l'attitudine espressiva di tutto il decennio, e oltre, si rivela pulsante di straordinari fermenti, ha tematica è bloccata tra intenzione di contenuti e risoluzione di forme. Tra tensioni del vivere e cultura incisoria, tramando e ripercussione di esperienze progressivamente condotte fino al limite. Da questo momento l'osservatore deve saper leggere adeguatamente la silenziosa evoluzione perseguita con temperanza da Bruscaglia.

Secondo l'analisi fenomenologica, il muro della montagna più scura sembra abbassarsi, dilatare il primo piano e cioè il paesaggio di inoltro, talora rovesciare il ritmo binato illuminando i volumi petrosi e portando una problematica caligine sul palcoscenico di questa muta e alta rappresentazione. Il cielo grigio, del '64, Grecale, del 1965, La strada delle colline, del '68, evidenziano complicazione ma anche liberazione nell'alzarsi della nebbia serale, nella chiarità che invade il campo visivo. Ci saranno altri ambiti di barrage, come Monte Strega nel 1965 e, soprattutto, monolitica, Impossibile difesa, del '68. Poi, il paradigma del mondo prima negato e infine sperato al di là del confine dello sguardo, si spalanca in un'epica libertà. Un'acquaforte come Primo mattino, alla soglia del 1970, è rivolta al paesaggio, all'avventura della luce su di esso, con la domestica quotidianità di un Bonnard destinato a uscire di casa e ad affacciarsi sul cielo. Nasce perfino una serie squisita di 'eliogrammi', che induce la luminosità del paesaggio a una figurazione fluttuante, ventilata, musicale.

 

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Linea di luce, sbarra d'ombra

 

In termini di mera lettura formale e stilistica, tutta l'opera grafica di Renato Bruscaglia si sposta dalla accettabile bellezza del paesaggio conosciuto o riconoscibile, luogo di antica riflessione trasferita nell'apparizione di un'armoniosa sintesi, verso l'istituirsi di una forma-paesaggio che rinuncia all'estensione descrittiva come pure alle superstiti ragioni del naturale. Per deviare, con agile misura musicale, verso un'organizzazione espressiva dove l'armonia si dissolve in una melodia timbrica e dissonante.

Guardo le acqueforti di Bruscaglia, anche quelle meno note che la sua discrezione ha sempre trattenuto come fogli di diario, pensieri per sé. Occorre tempo per decidere se questo chiarore trasparente e talora estenuato sia luce d'alba o di tramonto, se quella stella sia Vespero oppure Venere, annuncio del mattino. Comprenderlo con certezza lascerebbe leggere in questo fragile bagliore la speranza di un nuovo giorno oppure la chiusura malinconica di una conoscenza giunta fino a noi dalle giornate infinite di un millennio nel corso del quale, in un momento asseverato dai mattoni e dai colori, hanno lavorato Piero della Francesca e Raffaello. Ogni segno ravvisabile, celato con translucida energia nella valle dove s'è annidata l'ultima ombra o una congettura di nebbia, sorge e insieme affonda, chiede nome, strada, campo o rovina che sia, conducendo il nostro sguardo verso quella barriera oscura.

Si è visto che fin dal '62 l'incisione di Bruscaglia, come si stava incamminando, non poteva più concedere nulla all'arcadia dell'acquaforte di paese e di memoria. Una sbarra d'ombra si ferma sull'orizzonte e, dal nostro osservatorio, si muove una gramigna macchiata che rapida si aggrappa e morde calanchi e canali, corrodendoli con la violenza del bulino che sforma. Il cielo che accoglie la sera, oltre il limite dello sguardo, si inscrive nella memoria assoluta.

Bruscaglia sente la necessità della demarcazione, quella che la vista e la mente impongono alle sue forze per riscattare in un luogo conoscibile tutto ciò che precede e affondare il lontano, il futuro, in una coerente dimensione insondabile. L'acquaforte, ibridata talvolta nel più tagliente dei contrasti possibili, da una tumefazione di acqua tinta a una rara scheggiatura di puntasecca, si connota tra tutti i mezzi di espressione come il veicolo esemplare per segnare il punto, definire il livello. E il turbamento di un ethos che non si comprime né reprime la volontà di giudizio più personale, più interiore sull'orizzonte della quotidianità.

Non metafisica o ideale e tanto meno antropologica, la linea convessa che disegna l'attrattiva dell'estremo spazio ipotizzabile, nel quale si versa la proiezione della coscienza, è in realtà un segno appena, un passaggio proposto alla nostra capacità di essere. Che sia l'arte a esprimere con tanta pienezza un vettore di moralità, lo afferma proprio l'acquaforte, la più limpida e vibrante tra tutte le possibili riduzioni 'ad unum' del comunicare e del significare.

L'assolutezza dell'acquaforte, della sua doppia e inequivocabile proporzione, impedisce di usare le parole consuete all'ecfrasi, che giacciono nel vocabolario dell'immaginario critico e provengono quasi tutte dal mondo della mimèsi naturalistica. Per l'organizzazione di una trasmissione che, procedendo per equivalenze, continua a chiedere un alimento che fiorisce senza fine dal paesaggio e dalle emozioni, dalle evocazioni, dai sensi che a quel destino abbiamo da tanti anni riservato. Ma è altrettanto noto che queste parole presto o tardi si esauriscono, specie se cresce l'altezza del paragone e il regime ardito delle correspondances. Soccorre allora la musica, al cui stato tutte le arti tendono e che tutte le ha frequentate e fecondate, poiché il lessico della critica d'arte, anche sensoriale, sembra edificato sull'estetica dei suoni.

 

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Dal 1970 agli anni Ottanta

 

Il saccheggio finora operato nel linguaggio musicale può aumentare fino a introdurlo, in quanto voce, fra gli strumenti della critica, ha dichiarata selezione assoluta dell'acquaforte, d'altronde, ha già incontrato dagli inizi il grande chimico della sua trasformazione, da Marcantonio a Parmigianino e, soprattutto, da Barocci a Tiranesi. L'acquaforte è incaricata di sciogliere l'assillo degli abbracci del 'naturale' e quello degli afflati sentimentali, di uscire quindi dalla Natura universale spezzando la diade romantica modello-arte.

Bruscaglia non vuole frequentare i modelli, ricalcare passi consueti. Il acquaforte porta con sé l'urgere di passioni appena estinte oppure - come il rovello di Rembrandt - nemmeno affrontate. Non è accertato se dentro la sua storia accorciata l'espressione antica è immanente o imminente. Rivedere Parmigianino a ridosso di Goya, e la minaccia di questi sulla nostra ragione, vuol dire aver annullato la dimensione del tempo ma non quella della storia. Insieme si leggono l'edificio formidabile di Piranesi e l'emotività della macchia di Goya. E un esercizio che può condurre molto avanti e vale, in particolare, per comprendere come la storia, ridotta nei suoi confini di temporalità fisica, non lo è altrettanto per necessità di significazione. Rembrandt è vicino a noi almeno quanto l'arsura della sua drammatica vita.

L'opera di Bruscaglia, specie quella che muove imperiosamente dai cruciali anni '60-65, verso la riduzione di tutti gli impianti sensuali e descrittivi della partitura paesaggistica, comincia questo processo con il fine calcolato di portare a raffinatissima efficacia soltanto ciò che dalla forma affiora come una distillata e modulata verità. Non una fuga assurda dal naturale, piuttosto il riconoscimento che l'arte è prodotta dall'uomo perseguendo il sentiero di una natura più rappresentativa che fisica.

Rarefazioni estenuate e graffanti si contrappongono a una subitanea intensità di espressione, un suono introflesso e melodioso, scarti di misura impegnano l'ultima sinopia dell'autenticità circostante. Tutto è divenuto più breve, più incisivo. Fluttuante e insieme ancorato, ha forma punta all'isolamento, accompagnato dall'ormai lontano esplodere di qualche percussione. Sul centro del foglio, intanto, si è collocata come un diapason la forcola montana. Tutto si predispone, nella rapidità che potrebbe fratturarsi, sincoparsi per una vicina musicalità timbrica,le immagini di questa stagione di Bruscaglia sono liberate da ogni fatto che ricade sotto i sensi, paesaggio come vento, voce del cielo, riflesso del sole. E rivolta, contro lo scempio cui è stata assoggettata la terra.

Si è aperta di colpo, manifestata come una levitazione, una fase immaginativa del paesaggio che è ricorso alla semplificazione dei tracciati segnici e a un generale alleggerimento della forma, ha stampa Grecale, del '67, mirabile per lo scatto di eleganza, Punta di terra ovvero La palude, del '69, sembrano concludere le fasi precedenti e procedere già verso Riva famigliare (o Approdo domestico), una lastra eseguita nel 1971, esemplare per il rifrangere della luce ormai del tutto libera sull'ampiezza del dettato figurativo. Importante è ora traspirare nel segno, profittare del lucore eccitato dal vento che spazza la bruma e pettina le messi, una translucida piattaforma di sicura raffinatezza. E ridurre il carico della calcografia, portarlo a un brillio del mattino, quando sole e brina argentano il verde di coste e greppi. In questa temperie si inscrive Luce del vento, del 1978. ho studio è consapevole se, nel '79, in una mattina di sole, Bruscaglia titola un'acquaforte Eliogramma mattinale.

Schiarita è dello stesso anno, A filo dei solchi di due anni dopo e, nel 1987, ritornerà la ricerca di II vento nel grano. Alle stesse stagioni si registrano le variazioni di Folate di luce, distinguendosi al Mattino oppure, la seconda, sotto il soffio del Maestrale, ha versione chiarista dell'acquaforte di impressione, più lucida, di un classicismo valériano, si mescola e alterna con una serie preannunciata dalla fine degli anni Settanta. Del '78 era infatti la repentina Notte di primavera, ribadita da Prima di sera nel 1984, che evidenzia i tratti sentimentali assai decisi dell'immersione entro il corpo compatto della notte, voluta e realizzata da una condizione di "nero su nero". L'artificio esecutivo, la grazia artigiana, L'operatività senza incertezza fanno qui il loro esordio, schivando sempre il lezio grafico che, spesso, diviene finalità tra numerosi cultori dell'incisione. Il nero su nero assume il valore della sfida. Per una volta, l'acquaforte di Bruscaglia dichiara il contenuto come un'illustrazione, ha solarità fredda si muta in scurità colma e translucida, modificato il registro ottico e chiaroscurale, immerso nella più versatile dimensione notturna. In una notte come questa, ha scritto nel 1984 l'artista sotto la volta celeste, dove soltanto Vespero brilla con veemenza, e allude a Shakespeare. Torse va cercando con la sua luce l'eco delle leggende narrate in Palazzo Ducale da lente voci vicine e perdute.

 

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La spoliazione della forma

 

Ragioni più interne all'uomo e al suo mestiere complicato, l'impegno del lavoro e il senso di attesa che sosta in ogni ora e stagione della sua vita, si stendono come una rete invisibile e solida dietro l'opera di Bruscaglia. E assai raro che un incisore, un calcografo, si rallegri o almeno si rassereni alla vista del risultato. Subito si ricomincia, preme l'esigenza di riafferrare il discorso. Sono predominanti il soggetto, la sua dimensione, i suoi caratteri, la tentazione irresistibile come un'ossessione.

Il teatro dell'esistenza - il paesaggio di casa, brano di campagna ritagliato dalla finestra - ha fatto salire la soglia dell'attenzione ma anche quella del dubbio in Bruscaglia. Dal romanticismo a questa parte l'artista si è rifugiato nelle città, concentrazioni di eventi culturali e di drammi sociali, di difformità e di angosce. Basti rileggere le pagine di Victor Hugo sulla Parigi che precede Haussmann, guardare i suoi disegni macchiati di caffè. La sorte dell'artista che vive la provincia, e ne percorre l'imperturbabile e punitivo vissuto, è di altro genere. Si deve ricorrere ad altri strumenti e il dissenso con il mondo, della cultura, dei costumi, della politica, dell'amministrazione, filtra allora come un veleno, si insinua sottile nel tempo che scorre.

La luce di un orizzonte infinito, segnata come limite della vita, piano di appoggio e di pausa, estremo punto di affacciamento, offre il taglio opportuno per sezionare il boccascena. Camminare in questi luoghi alti senza mai riuscire a scrollarsi dal fianco la sequenza verde e gialla di campi, azzurra di monti o di cieli annuvolati e ventosi; l'impossibilità di ripararsi e di disinteressarsi di quanto accade tra il rosso degli ippocastani e il bruno delle querele. Lo scompenso del paese-paesaggio deve aver conquistato il ruolo morale dell'incisione di Bruscaglia. Ogni cedimento prende corpo nello specchio della lastra di zinco, riduce il compiacimento storico della forma, ne accentua la possibile nevrosi. Non si può odiare, in queste condizioni, non c'è che attossicare la realtà. Sublimarla. Ma non chiederle conforto, come si fa dal secolo dei sentimenti.

Tutta la vita degli adriatici fu salita e discesa, andare verso l'alto dei boschi e dei sentieri scoscesi che si inerpicano fino all'aria più forte di crinale, in cima all'erta che mette in Toscana o nell'Umbria oppure, di qua, sul Montefeltro che raccoglie Marche e Romagna. Bruscaglia vede e rifonda nella forza del bulino che incide e della morsura che colora, tinge e afferma di chiaroscuro. Il paesaggio che sale è tutt'altra forma di quello che scende. Il primo è a vicinanza di sguardo, le querce e gli olmi stanno in cima, sul discrimine dove l'albero si disfa nella luce del pomeriggio. Il secondo è aereo, gode le cose dall'alto, più grandi e scoperte. La luminosità lo bagna per lungo, con ombre che vanno e sfilano quando è sera.

L'incisore non somiglia al pittore di un tempo, non può piantare un cavalletto in giro, il suo 'lontano' non ha altra forza che non sia quella del piano e del forte del bulino. Con la stesura di un filo appena di cera di copertura in aiuto e senza il soccorso del tono aggiunto dal colore. Senza lo spessore fisico, riconosciuto come da un cieco col polpastrello. L'incisore stringe in mano poca materia, talvolta - se è bravo - la lastrina annerita dal fumo denso e il bulino come una penna, uno specillo che lacera la coltre, la imprime di orme.

La visione dell'artista - quando di artista si tratti - condensa innumerevoli cose. L'osservazione del bello non è mai complice di trascuratezze circa la realtà. Esplora, registra, giudica. Intorno al vettore così limpido del segno di Bruscaglia si aggregano fin dall'apertura degli anni Settanta significati preoccupanti, pronostici cupi. Il paese di Urbino cede a un vento che non si placa, una mutazione drammatica è già in corso di divenire uno stato oggettivo ma pochi lo avvertono. Il bulino ora sforma ciò che un tempo illuminava la quotidianità della bellezza. Non è facile descrivere le immagini che Bruscaglia consegna, pervase dalla comparsa della paura, forse non imprevista, forse inevitabile.

In questa stagione recente l'insegnamento di Bruscaglia sembra un invito a considerarla e poi a eluderla, seguendo la via squadernata dalla bianca leggerezza del foglio, che, del resto, accetta l'esistenza di un itinerario grafico e supporta un segno potente ma piacevole, come suono su corda di violino, da netto a tremulo, da fermo a vibratile. Un segno nuovo per una diversa qualità di partecipazione dell'autore, che oggi sospende la profonda intelligenza della forma nello spazio al filo precario di un aquilone smarrito per l'aria, alle quote di isobare tracciate nel sole e nel freddo di montagne deserte, sui litorali battuti da un'onda sommessa. Inediti disegni di sabbia si raccolgono sulla carta, come per l'attrazione di un magnete mosso dalla mano sapiente che sottrae peso e forza vitali.

E come se il paese si venisse prosciugando, un'esilità lieve scalfisce e sostituisce la sua forma piena, ne toglie il sangue verde, incrina la sua maturazione. Gli arbusti scompaiono, gli alberi cadono con un tonfo grave. Un sussulto, qualcosa come un muto singhiozzo passa nell'aria e dilegua. Un'ora rigida si avventa sulle greppaie e su campi inariditi, stoppie e paglie. Non c'è voce ed egualmente non si dilata colore alcuno. L'aria diafana dimette il senso fisico delle cose, le dissecca svaporando in breve. Solo poco fa era ricca di umori. La natura sottomessa mette a nudo la schiena della terra, ossa e cenere, come già fu quell'antica città che Raffaello intravedeva tra le rovine di Roma.

Non ci sono più borghi o case, ormai da tempo assenti nell'immagine di Bruscaglia; forse un segno, come un faro sulla riva dove la fiumana ha depositato stecchi e relitti, un segnale che barcolla sotto l'incalzare del fango che schiuma e della frana che minaccia. Non v'è timore, tuttavia, tra queste sassaie che scivolano ma una sorta di iconismo veggente, il riconoscimento di una maledizione che colpisce la terra, la bella terra delle querce e delle ginestre. La descrizione di Bruscaglia è tutta incentrata nella restituzione corrosa di un paese che si sfalda e si desquama.

Le forme della terra, le distanze e i volumi veri dell'Appennino, dei suoi colli anche arditi e inaccessibili, sono primi attori nell'invenzione incisoria di Bruscaglia. Con il passare degli anni, proprio queste forme familiari hanno cominciato a spogliarsi. In alcune, forse, l'eleganza ha rimpiazzato la forma, l'armonia prevale sulla fisicità. In questo denudarsi, l'occhio ha preteso un arretramento del punto di osservazione e una presa di possesso più vasta. Un greppo scosceso, un campo che sale, e, subito dietro, la forcella che unisce i due colli, reggendo al suo centro il saliente della luce vespertina. La rappresentazione è ormai immobile, solo la luce concede vita agli interpreti. Il fianco della collina che ascende è un sito dell'aria, forse un accordo, un immoto scintillare che ne deriva. Come in natura, l'assenza di voce è tangibile a patto che se ne moduli il soffio che crea l'estensione sotterranea. E il grande, terribile nulla delle grotte, delle immensità geologiche sprofondate nelle viscere, dove il silenzio sommuove masse gigantesche d'aria ferma. Pietro Giordani lo percepiva nelle cave di Serravezza, dominate dall'eco. Drammaticamente, Giacomo Leopardi sui versanti aspri del Vesuvio.

 

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1990-1999

 

Abbiamo verificato i tempi del lavoro di Bruscaglia, scalato nell'arco di oltre mezzo secolo, e più volte sottolineato come la sua evoluzione abbia i caratteri di una così accresciuta esperienza da sembrare, almeno nelle linee generali, un viaggio assai rapido, quasi contratto. L'esame del cospicuo corpus incisorio (alcune centinaia di opere, qui illustrate in poco più che cento fogli) lascia constatare che l'immobilità è soltanto una delle impronte della sua arte, probabilmente generata da quel senso della misura che tiene sotto controllatissima tensione l'intero percorso. È sufficiente portarsi al livello del sorprendente fluire della produzione calcografica per imbattersi in punti e snodi, momenti e incidenze che attendono una interpretazione. Bruscaglia detiene una conoscenza dell'arte di natura squisitamente critica, da cui ricava una tutela articolata. Compone come un musicista le sue 'variazioni sul tema, adotta tempi e modulazioni espressive per ridurre il peso specifico e liberare le caratteristiche dell'opera.

Uno scritto di analisi che, dall' esterno dell' eteronomia fino alla profonda pulsione della creatività, sappia investire anche il processo complesso del "fare arte", non può che avvalersi d'una consueta lettura critico-storica, di un esame partitamente messo a fuoco sui momenti dello stile, lavoro dopo lavoro, età dopo età. Anche se Bruscaglia distende fra sé e l'esterno un diaframma tacito e coprente, a difendere l'uomo - e l'artista - dalle irruzioni. Egli è protetto da una quantità di anticorpi di origine non soltanto genetica ma consapevolmente prodotti e accumulati per fronteggiare eventi e situazioni. La sua reattività rispetto alle continue sollecitazioni del mondo delle comunicazioni utilizza un metodo temperante ma non gelido, di media e pensosa distanza ma non lontanissimo, ho schermo pudico di una zona privatissima e impraticabile. Che delega al segno e al foglio compiuto ogni comprensione. E pur vero, del resto, che la sua resistenza alle infiltrazioni deriva da una vecchia divisa che soprattutto il microcosmo della provincia possedeva e indossava.

La rappresentazione di aspetti naturali, Inaridita natura (1994) e, un anno prima, Entroterra adriatico, sembra concedere ancora qualche speranza a quell'atto di fede autobiografica che il paesaggio continua a configurare. Quasi precipitando, segue la serie eccezionale degli anni 1994 e 1995: pianure distese, campi corrosi e sconvolti, come agghiacciati, una laguna essiccata. immagine riprende per l'ultima volta l'assetto orizzontale, un possibile, fatale senso di narrazione riannoda il filo dell'essere. Si è levato il vento, precisa un foglio del '94, come l'appunto sommesso di una sceneggiatura per Campagna impoverita, acquaforte conseguente che appare nel '95. Un diverso timbro sigla Ipotesi di congedo, come annebbiato e nondimeno percosso nella forma, la vicinanza ormai minima tra la terra e quella fascia di grigio, sgranato espandersi di acque e di foschia.

Sarebbe necessario, ora, saper interpretare in quale modo la forma, ridotta ormai a una rauca apparizione, sappia interpretare l'atroce sensazione d'una natura smarrita già nel segno sfaldato che la riporta alla nostra vista. Il ricordo dell'indicibile ordine del male, che è nelle incisioni di Hercules Seghers, domina certo questo momento del lavoro di Bruscaglia, pur senza attingere a una imitazione né possibile né cercata. Nulla si scorge in Bruscaglia, che pure amava Seghers oltre ogni immaginazione, di quel segno attorto e di quelle ombre frantumate, di quella forma umana derisa e rigettata ben al di là del limite della carne. Ma quando il segno si spezza e prende a tremare, come avviene nel grande Cranio umano, dove è quasi un'impronta lacrimosa a costruire la forma, l'attenzione di Bruscaglia sembra essersi fatta - pur mediatamente - di drammatica presenza, con l'impatto di un sentimento di abbandono, di solitudine.

I due anni di lavoro tra il '97 e il '99 piegano in modo che appare definitivo verso un'immagine senza ritorno. Stampe come Accumulo d'ombre verso levante oppure Indugio o Esitazione, conservano del paesaggio la forma elementare, tengono il livello d'una morfologia riconoscibile ostentata, più che descritta, nello sgranarsi di una non tanto lenta corruzione. Ciò che rimane, nel tramando di quelle ossidazioni, di quel macerato risentimento del segno, è il senso della misura, la dimensione indimenticabile del paesaggio aggredito e tuttavia ancora percepibile nell'eterno equilibrio della bellezza, che inconsciamente si continua a cercare, senza rassegnazione.

La Congiunzione quotidiana, ancora nel '98, vede colline dai fianchi amaramente rinsecchiti inseguirsi sul piano sfalsato d'una natura precipitata nel mare, che torna ad ascendere verso il primitivo orizzonte dove fremono e rabbrividiscono l'alba e il tramonto. Verso una sorta di chiusura sequenziale si avvia il primo stato di Tracce, grafologia di un abbandono al quale conduce un muto calpestare di neve o di sabbia. Ponente è l'ultima incisione cui Bruscaglia si è dedicato, perfetta come ci sembra e armoniosa, ancora una vita morale discesa dalla ragione che non abbandona la costituzione dell'immagine, ne domina lo spazio come un suono, mentre il diagramma si incide di stridori, di segni trasversi che affollano di ricordi la carta. Senza soluzione di continuità con la precedente Torna il giorno, come recita la didascalia in un continuo rimando lacerato tra istintivo e razionale, il chiarore che svela il greppo franante verso il fondo, che si aggrinzisce come un corpo assetato, con addosso tutta la sua sparuta e casta povertà. Un incanto e un terrore destinati a connotarsi con il salire dell'ora, un grido ininterrotto. Un sentimento di bellezza che torna a vivere, un accento musicale che ne celebra presenza e precarietà, ^importante, nonostante tutto e in qualche modo, è la speranza che il giorno ritorni.

Mentre si concludevano queste pagine, Renato Bruscaglia è mancato. Non le rileggeremo insieme, non commenteremo insieme i fogli esposti nelle mostre di Urbino e di Pesaro. Debbo a Renato la gratitudine non misurabile per un insegnamento di vita alto e insostituibile. Ben al di là della riconoscenza - e già non era cosa di poco conto - per avermi condotto con i suoi libri, con la sua condizione esemplare di giovane e severo artista, a pensare allo studio dell'arte come a una vocazione possibile. Egli per me, e per tanti amici e allievi, ha dato contorni palpabili alla figura dell'artista, che, proprio perché davvero tale, porta con sé la più grande dignità umana.

Quando Bruscaglia ha selezionato le centosei opere che compongono questo libro, che aveva molto desiderato, ha disposto anche la sequenza che l'autore e l'editore hanno rispettato in ogni sua parte. E agevole verificare alcune lucide intenzioni, specialmente alcune precedenze e accostamenti significativi ,le ultime illustrazioni si riferiscono tutte al decennio che ha concluso, con il secolo, il lavoro e la vita di Renato. Volutamente, con una cautela che sottende una misuratissima attenzione a questi anni e al riflesso che di necessità ne discese nel cuore delle acqueforti, la scelta si attiene a un'immagine pura, leggera e tuttavia incisiva, un'acquaforte che potrebbe raccogliersi intera attorno alla condizione di 'stato d'animo e che invece conferma e prosegue l'icona morale degli anni della prima maturità, quando l'incisione lottava in solitudine contro il degrado della bellezza e ne figurava in forme simboliche e insieme reali l'opposizione a ogni decadenza. Basti vedere, fra le altre, la tavola 41: Controvento è del 1969. Un largo sito, quasi un enorme palcoscenico che si appiattisce contro la calcolata elevazione della linea d'ombra, in verticale. Spazio e chiarore, fredda ansietà e attesa di un nulla ritmico e timbrico, uno stridere appunto o un volo.

Credo che dopo il '91 Renato non abbia più desiderato lavorare. Ogni ripresa è stata un moto istintivo, un'ancestrale impulso alla sopravvivenza, al recupero di se stesso. D'ora in avanti l'opposizione tra cielo e terra si cristallizzerà definitivamente nell'energia di una drammatica dissoluzione formale, venendo meno nel contempo il bisogno, o la volontà, di descrivere ogni impeto e anche l'angoscia della sconfitta.

 

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Andrea Emiliani

La vita e il segno

Accademia Raffaello Urbino

AGE Srl Urbino 2000