Bugagatèra (la)    la gattaiola

 

Il perché della porta del gatto

 

Questo termine dialettale, ormai desueto, può soltanto far sorridere le nuove generazioni per il suono aspro, quasi farraginoso e, soprattutto, per la funzione che il congegno era chiamato a svolgere fino a cinquant’anni fa e forse meno.

Quasi tutte le abitazioni erano allora munite di un pertugio ampio poco più di dieci centimetri, sistemato nell'angolo basso del portone d'ingresso o nel muro attiguo. Una scelta a dir poco antiestetica, perfino scomoda per il penetrare del vento, di polvere e di insetti.  Però funzionale e ad esclusivo servizio del felino e della sua prole.

Ma non si deve pensare, con ciò, ad un trattamento privilegiato volto a fare del gatto l'amico di gioco dei bambini, l'ospite da coccolare sul vecchio sofà o da nutrire con il reclamizzato pesce fritto stuzzi-gatt.

Esso era sì aggregato a tutti gli effetti alla famiglia, tanto da avere il non comune privilegio di un accesso tutto per sé, ma nella sola prospettiva di rendere all'uomo un servizio ben preciso: quello di far fuori i topi. Aveva inizio così una partita a due, spietata e divertente nello stesso tempo, con attese di ore e di notti tra sacchi di grano, passi felpati e rapidi dietro-front tra le fessure del piancitt (pavimento) che spesso risparmiavano al topo il mortale pericolo di essere granfèt (preso tra le grinfie).

Il gatto si poneva quindi al centro dell'attenzione dell'uomo non per la sua bellezza o per una benevolenza da nessuno provata, ma per l'impegno e l'abilità che poneva nel compito che gli era affidato.  E ciò a differenza del cane, al quale il contadino si sentiva più legato, forse perché lo assecondava nella caccia e nella difesa della casa o perché coraggioso e pronto ad allontanare volpi e faine dal pollaio.

Il magazzeno, ben fornito di cereali, noci, legumi, lardo e formaggio (ovviamente appesi alla trave più alta) costituiva per il topo un richiamo allettante. Inoltre, c'erano balle di stoppa e nascondigli vari ove poter ben difendere la prole, tanto che non sempre il felino riusciva ad avere la meglio sui cocciuti avversari.

Veniva in aiuto a questo punto la catròppla.  Vale a dire un marchingegno vecchio quanto il mondo, ma tanto funzionale da rappresentare ancor oggi uno dei più semplici ed efficaci brevetti di ingegneria meccanica: una cassettina rettangolare di pochi centimetri di ampiezza, per lo più costruita in casa, con protezione di rete entro la quale venivano appese, ad una specie di amo, croste di formaggio, cotiche ed altro.

L'ingenuità era fatale al povero topo, tanto che al primo rosicchiare dell'esca, la saracinesca d'ingresso scattava intrappolandolo senza via di scampo.

Restando in tema di bugagatèra non si possono ignorare alcuni accostamenti di particolare significato.  Ricordo che ai tempi delle elementari una promozione ottenuta a fatica faceva dire a mia madre: se’ pasèt per la bugagatèra !, cioè con un voto ristretto come la porta del gatto.

Sedulio, vecchio contadino dei Petrangolini, invece, s'èra salvèt per la bugagatèra allorquando il cornicione di Palazzo Boghi, staccatosi dall'altezza di trenta metri, all'incrocio di Piazza Rinascimento con via San Domenico, non lo accoppò per un pél.  Era una giornata di vento memorabile e il poveraccio ignorava, evidentemente, che quel breve tratto di strada (non si sa per quale strano accavallarsi di correnti provenienti da via Santa Chiara e dal sottostante rione di San Bartolo, si direbbe miscelate e dirette da quel ... pizzardone di Palazzo Gherardi) era uno dei più rischiosi della città.

Per me, che abitavo lì a due passi, era addirittura una specie di bocca di Eolo, capace di convogliare aria fredda o calda con una violenza non riscontrabile in nessun'altra parte del globo terrestre.