Bruscatèlla (la), pizza salata

 

I segreti della crescia cotta al forno

 

Con il nome di bruscatèlla si indicava lo strato di neve soffice e sottile, come quello caduto ieri, 24 febbraio.  Quando, poi, questo strato saliva a venti centimetri era 'na bella nevichèta, sopra i cinquanta centimetri el nevón o un cul de nev come s'usava dire a Fano.

Qui però si vuoi parlare della bruscatèlla come specialità gastronomica delle campagne urbinati, antagonista, unitamente alla crescia sfogliata, della più indigesta piadina della vicina Romagna.

Ma, se la crescia sfogliata era un lusso che il contadino non sempre poteva permettersi, considerati i tempi di preparazione e di cottura, lo spreco di strutto e il lusso di una farina bianca e ben setacciata, per la bruscatèlla bastavano l'impasto del pane, due gocce d'olio, un po' di sale e rosmarino in abbondanza.

Si aspettava la sfornata del pane (dieci-quindici filette o filoni), il cui tempo di cottura la capoccia misurava non con l'orologio, ma dalla intensità del profumo che s'allargava d'attorno.  Dopo di che veniva il momento della bruscatèlla: rotonda, spessa poco più di un dito, rosolata e croccante, rendeva noi bambini euforici e impazienti per attese che sembravano non aver fine.  Presso a poco come nel Cinquecento, quando il naturalista Costanzo Felici scriveva che si vedono spesso spianate condite con olio sopra e rosmarino o altra herba odorante.

Io preferivo questa specialità alla crescia di impasto di pane cotta sotto la cenere, sicuramente più sostanziosa.

In quanto alla cenere mista a fuoco vivo (brègia) va detto che fino agli anni Cinquanta essa fungeva da forno, stufa o cucina economica nella maggior parte delle case contadine del nostro entroterra. Vi finivano sotto, per una lenta cottura, tocchi di merluzzo avvolti in carta-paglia bene inumidita e cipolle dolci da mettere assieme per un piatto speciale, condito in insalata, che vorrei consigliare a Benni per il nuovo ristorante di S. Andrea in Primicilio.  Ma, non basta.  Cuocevano, nella grande aiòla, uova alla coque sotto lo sguardo felice dei bambini, patate croccanti da assaporare con un pizzico di sale, mele e fichi acerbi ormai abbandonati dal fioco sole di ottobre, pagnottelle di polenta con fagioli e altre cose non meno preziose.

Riprendendo il discorso dopo la parentesi della cenere, è da dire che la bruscatèlla non era sola a dare un tocco di novità e di fragranza alla mensa contadina.

C'era il cròstolo, piada sottile tirata a cottura sulla pietra arenaria arrossata dai tizzi ardenti; la crescia con grascioletti di maiale, appetitosa quanto indigesta.

E che dire, infine, dei casción, pasticci inimitabili in bilico tra poesia e povertà ?  Questi non mancavano mai sotto la piana della grande mattra di ciliegio. E sempre meravigliosamente assortiti con erbe le più strane (dai rapastèi alle galin grass, dai scarpigni alle ginestrèlle, ai cacialépre, ai pisciachèn) che le donne andavano a racimolare, gironzolando per ore, nei ristoppi attorno a casa.