Biròcc (el)    il biroccio

 

Negli anni Trenta era ancora una fortuna possederne uno

 

Se, ricordando i miei trascorsi di insegnante, dovessi illustrare ad uno scolaro curioso, gli attrezzi che più si legano all'origine dell'economia agricola, non avrei dubbi nell'elencare, in ordine di importanza: la treggia, la zappa, l'aratro e il biroccio. In fondo sono anche le macchine più antiche, quelle che seguono un filo logico, relativamente ai tempi e alle modalità di impiego.

Risalire alle origini del biroccio non è facile; si può soltanto dire che, già nell'epoca romana e durante l'alto Medio Evo, il carro agricolo a due ruote era largamente diffuso in tutta Europa per il trasporto del raccolto, del concime e dei beni misti e che, presumibilmente, proprio in quel periodo consolidò la propria forma.  Ma è bene aprire subito una parentesi per dire che, anche in questo caso, pesano in maniera determinante la carenza e il costo di un elemento basilare quale il ferro.  Ne soffrì, specie in zone agricole povere come quelle marchigiane, l'intero processo tecnologico che maturò con gravi ritardi, costringendo l'agricoltore a far tesoro del legno per dare forma ad attrezzi semplici, ma irrinunciabili come le forche, i rastrelli, le pale, le carriole, le sessole, i mastelli e cento altri.

Agli inizi del Novecento questi accessori erano ancora costruiti nel chiuso delle logge durante le soste invernali, tanto che ogni membro maggiorenne della famiglia sembrava possedere una propria specializzazione. La forca, ad esempio, voleva un ramo d'ornello biforcuto, ancora giovane, da curvare con maestria sotto il peso; il rastrello {el rastèll) era un pettine vero e proprio, non facile da mettere a punto per i suoi denti ben solidi e torniti. Perfino l'erpice (prezioso per sminuzzare le zolle, per la semina e per sradicare le piante parassite) affondava le sue seppe di olivo e di corniolo in pesanti travetti, somiglianti al telaio di una treggia.

Ebbene, il biroccio soffrì, non meno degli attrezzi cui ho accennato, delle penurie di ferro.  Per secoli, infatti, si continuò ad applicarvi ruote a tutto legno, segate in trochi di quercia o rimediate con robusti pezzi di tavola (i tavlón). In genere anche l'assale (la sèla), il mozzo e il letto, nei carri adibiti a trasporti leggeri e a breve raggio, non presentavano materiali ferrosi di alcun tipo.

Negli anni che precedono il secondo conflitto mondiale il biroccio era ancora lo specchio delle condizioni di vita delle famiglie mezzadrili del nostro entroterra, tanto che non tutte ne possedevano uno, uscito per intero dalle mani dell'artigiano-birocciaio. Quello con sponde dipinte di fregi, animali, scene (historiae) era addirittura un lusso da provocare invidia, un privilegio da benestanti per viaggi in città, al mulino o a casa del padrone con carichi di particolare prestigio.

Ricordo che quello a quattro ruote {el carr), usato nelle zone pianeggianti e trainato, a pieno carico, da due paia di buoi con tanto di drappe colorate, costituiva per noi bambini una attrazione straordinaria.  Nell'urbinate, negli anni Trenta, saranno stati sì e no in dieci a possederlo.

Quando, nel 1929, l'incendio della loggia dei Carboni ridusse in cenere il biroccio nuovo, montato in casa come una macchina preziosa, sognata per anni, fu poco meno di un dramma con le donne che piangevano e il capoccia che minacciava di gettarsi tla fónt dl’acqua da béva.

In verità, non si trattava di cosa di poco conto.  I due cerchioni in ferro battuto erano costati 108 lire; il modello di pioppo stagionato, drìt com un fus per farne il timone, mezzo quintale di grano al vicino di casa; le corde, indispensabili per il carico dei covoni, 10 lire e 50 centesimi; la tichètta (etichetta, bollo) 28 lire e 75 centesimi.

Si tenga conto, per un utile raffronto, che lo stipendio mensile di un salariato agricolo era di 300 lire e che un quintale di patate ne dava poco più di 50.

Sempre a proposito del biroccio debbo aggiungere, per la verità, che Cìrino di Cal Cossa non si era mai trovato in sintonia con la fortuna.  Fra l'altro, la sera della Madonna del Giro del '27 l'imbacuchìtt (l'invecchiato, il bacucco), un introverso mulo di razza abruzzese, l'aveva colpito con un calcio al collo del piede destro causandogli, diceva lui, un fastidioso supròss (frattura ossea, mal calcificata) che lo costringeva ad accorciare il passo. Ma a far soffrire il poveraccio, più che il dolore materiale, era lo sfottò dei compagni al tempo della falciatura delle secce: se' sempre l'ultme con el rugle del biròcc !, gli dicevano sghignazzando.  Che, per chi non lo sapesse, era una specie di argano sistemato nella parte posteriore del carro che, arrotolando un robustissimo canapo, riusciva a mettere in funzione il dispositivo di frenaggio delle ruote, incentrato sulle classiche zeppe di legno duro.