Ben de Dio (el)    l'abbondanza

 

Mio padre si illudeva di goderne un po' con il ranco del Mancino

 

È da dire che al tempo dei nostri nonni el ben de Dio si collocava in una scala di valori ben diversa, rispetto al significato che oggi siamo portati ad attribuirgli.  Ma la differenza, più che nella qualità delle cose (che allora pochi possedevano), va ricercata in una diversa concezione del vivere sociale e civile e perfino del lavoro che in agricoltura ubbidiva ad una logica tutta particolare.

In questo settore, infatti, raramente ci si soffermava a calcolare quanto potesse uscire di profitto dalle fatiche di un mese o di un anno. Diversamente mio padre non avrebbe messo mano al ranco del Mancino, ben sapendo che occorrevano due anni per completarlo, uno per sfinarlo e ripulirlo dai residui di rami e radici [arpasàll) e almeno altri due anni per ingrassare il terreno nella prospettiva di una résa accettabile, attorno al cinque per quintale di seme.

Al di là di questa personale considerazione si deve concludere che il concetto di lavoro non era solitamente associato a quello del guadagno, del ricavo immediato. A prevalere era piuttosto la salvaguardia, nel tempo, del bene terra; così che il ranco, se da un lato esaltava la funzione del lavoro, dall'altro portava a ristabilire una più equa proporzione tra aree boschive e aree poste a coltura.

È un discorso, questo del profitto (visto come fine non immediato e non sempre prioritario) che non deve indurci a pensare a limiti di imprevidenza o di superficialità. Tutt'altro.

Gli studiosi Di Rocco e Giudicini, nel saggio Italia rurale rilevano addirittura un ethos familistico; cioè un sistema di valori integrativi, maturato dalla famiglia rurale marchigiana nel corso dei secoli, nel quale, oltre al lavoro, c'è chiaramente il risparmio.  A proposito del quale un antico proverbio urbinate sentenzia: El risparagn è 'l prìm guadagn.

E non c'era rischio che esso, se pure modesto, finisse col perdersi all'osteria o nelle cianfrusaglie del mercato.  Quasi sempre i sacrifici erano volti alla realizzazione di quello che restava per i più il grande sogno: l'acquisto del podere o, quanto meno, la messa in società del bestiame.  C'erano poi esigenze pratiche, inderogabili e doverose per una famiglia colonica degna di rispetto, quali una sufficiente dotazione di attrezzi; la disponibilità piena delle provviste alimentari (chi finiva l'anno con qualche sacco di grano nel magazzeno aveva buone ragioni per vantarsene); la capacità a seguire, nel migliore dei modi, il ritmo dei lavori agricoli; una casa decorosa e pulita; una buona dote per le figlie da maritare.

E ovvio che, presupposto di tutto ciò, era l'efficiente organizzazione della famiglia.

Il vergaro (detto anche capòccia) era il responsabile della riuscita economica dell'azienda, il titolare dei rapporti giuridici con l'esterno, colui che stabiliva perfino le modalità di lavoro nei campi.  L'assecondava il figlio maggiore, il tabaccolo (nell'urbinate el magiór) cui era affidata la custodia del bestiame.