Befèna (la)    la Befana

Quando si sapevano apprezzare le cose da niente

 

L'Epifania ha indubbiamente un significato liturgico così profondo e di difficile interpretazione che il popolo cristiano — specie quello meno colto delle campagne come della città — poco riusciva a capirvi, confuso tra date, stelle fulgenti, nascite e battesimi, miracoli e apparizioni, per non dire delle rivelazioni contenute nei Sermones di Leone Magno e nelle Meditationes di Bonaventura da Bagnoregio.

Ma diciamo che a contare per tutti, grandi e piccini, più che l'adorazione di Gesù, era la festa per l'arrivo della Befana; cioè l'aspetto profano che aveva preso a legarsi sempre più all'attesa dei doni, come nel caso dei Re Magi.

Soprattutto per questo l'Epifania diveniva, nelle campagne in special modo, una notte magica nel corso della quale tutti vegliavano e tutti parlavano sottovoce, estasiati: perfino nella stalla, l'asino, il bove e la cavalla, diceva il proverbio.

E il dialogo tra questi buoi — certamente di ceppo toscano — l'ho imparato a memoria quando ancora pisciavo nel letto:

- Biancone!

- Nerone!

- T'ha dato una ricca cena il tuo padrone?

- No, non me l'ha data!

- Tiragli una cornata!

Oggi si può anche non credere, ma la verità è che i vecchi del nostro entroterra appenninico, la sera della Befana, governavano le bestie senza risparmio, con il fieno migliore, inumidito e profumato da una gimna (manciata) di farina d'orzo.

A quei tempi neppure il più eretico ed impertinente dei bambini osava mettere in dubbio l'esistenza della Befana, anche se ci si arrabattava il cervello per capire come la vecchia potesse volare sul manico della scopa e poi scendere dalla cappa del camino, a volte poco più larga d'un budello.

Soltanto attorno ai dieci anni incominciava a serpeggiare qualche dubbio.  Ma guai a parlarne!

Si stava al gioco nel timore di scandalizzare la famiglia e in particolare i poveri nonni che s'erano dati da fare per renderci buoni e felici con la prospettiva di sorprese, mai disgiunte dai meriti acquisiti.

D'altra parte, è ciò che ho potuto verificare con la mia nipotina Alessandra, una peperina scaltra e riflessiva da non credere, con la sola differenza che questi interrogativi ella se li era posti, forse, a poco più di tre anni. Lo scorso Natale per metterla alla prova le chiesi da chi avesse ricevuto il moderno zainetto ad uso scolastico, segnato da una grande firma. Dalla Befana! rispose con mia sorpresa. Ma, a guardarla bene, era la faccia di colei che dice una bugia sapendo di essere perdonata.

In fondo non è che avesse tutti i torti trattandosi, tra l'altro, di una festività restituita al calendario a furor di popolo, ma diciamo pure per ragioni simboliche e di convenienza.

Infatti, è da tempo svanita (e giustamente) la speranza di ritornare indietro al tempo delle favole, anche perché con gli assurdi progressi compiuti, in questi tempi dall'ingegneria genetica, i bambini ormai nascono come e quando si vuole e, soprattutto, con gli occhi aperti.

Da piccolo sentivo dire nelle campagne del Metauro che cla vecchia dla Befèna fa suspirè i monei un ann men 'na stmèna. Presso a poco è come dire che, vinta l'emozione del momento, si cominciava subito a sognare le cose belle dell'anno a venire.

Se vi sono, del passato, valori da rimpiangere penso stiano proprio qui: nel venire meno dell'attesa, del saper apprezzare le cose da niente, del proposito di essere più buoni per meritare di meglio.

Non per nulla si gridava di gioia al solo vedere le calze rigonfie appese al camino con l'immancabile cartoccetto di cenere.  Arance, torroncini avvolti in carte da gioco e fichi secchi che divoravamo all'istante; orologi di latta, piffre, berrettini con visiera, zoccoli per l'inverno, pastelli colorati da sei, e tante altre cose, rimediate chissà dove, che poi ci portavamo dietro tutto l'anno o che finivano ammucchiate nella grande scatola dei batanai, nascosta nell'ultimo cassetto del comò.