Batùsc (el)    batuscio, botola-uscio

 

II buco al servizio della vecchia casa contadina

 

II batuscio è da ritenere un elemento caratterizzante della struttura abitativa colonica.  Lo attesta, del resto, quel poco che ancora rimane nell'entroterra marchigiano di un patrimonio edilizio ormai definitivamente compromesso.

Il modello di casa era allora decisamente incentrato su di una netta separazione tra il piano terra (stalle, porcilaia, pollaio, cantine, logge) e quelli superiori riservati alle esigenze abitative dell'uomo.  Quindi, nessuna scala interna e nessun accesso particolare, codificato nel progetto che il capomastro proponeva al capoccia o al padrone tenendo conto dei costi, della composizione della famiglia e, indirettamente, della vastità dei terreni.

Una scelta strutturale legata sì a criteri di semplicità e di economia, ma anche a ragioni di igiene e di difesa dal freddo e dai malintenzionati; di protezione da topi, ratti, insetti e altro.

È chiaro che, a questo punto, si affacciava per il contadino un assillante problema: come uscire di casa nelle nottate di pioggia, con il sibilare della tramontana e, peggio ancora, con i cumuli di neve che seppellivano porta e scale d'ingresso ?

Come arrivare nella sottostante stalla in un batter d'occhio per separare i maremmani che si scornavano inferociti o per liberare il vitello rimasto vrichièt (attoreigliato) nella sua cavessa ?

Non restava che il batuscio; cioè una botola-uscio quasi abusiva, praticata nel pavimento e resa agibile con piòli conficcati nel muro.  Capace, inoltre di chiudersi perfettamente per evitare che giungessero alla camera del capoccia (di solito sovrapposta alla stalla) odori sgradevoli.

Ricordo che rarissime volte mio padre ne faceva uso preferendo, anche nelle peggiori nottate, uscire dalla scala esterna con l'inconveniente della pioggia, del vento che, impietoso, 'i smorsèva ad ogni passo, la gentiléna (lampada ad acetilene).

È così che il batuscio, più che un corridoio di passaggio, era un punto di osservazione del quale avvalersi ogni qualvolta facevano eco nella stalla rumori insoliti per l'orecchio del capoccia.

Stando ad una vecchia storia dell'alta vallata del Foglia, la stalla di Primóne delle Rancaglie (bicocca colonica sulla strada della Badìa, a due passi dal confine toscano) aveva le sue buone ragioni per essere inquieta.  Ragioni che in verità hanno dell'incredibile; che guastarono il sonno delle genti della parrocchia, aggiungendo paura a povertà.

Tutto ebbe inizio una notte di settembre, presaga di cose non belle, se non altro per un vento fracassone che faceva prova di rovesciare la casa.

Quando, intorno a mezzanotte, Primóne allungò la testa dal batuscio per sincerarsi dello strano lamentarsi dei vitelli, rimase di gelo: conta e riconta, le sei bestie di cui disponeva erano diventate dodici! E tutte strette come  acciughe,  inquiete,  impossibilitate a butass giù (a riposare) per portare a termine il lento processo di digestione {el rumichè).

Sarebbe lungo riferire lo sgomento della famiglia, il ripetersi della visione anche sotto gli occhi del vicino di casa (ma sempre e soltanto dal batuscio), la benedizione a notte fonda di una ingiallita icòna di sant'Antonio Abate, i commenti bisbigliati della gente nel piazzale della chiesa la domenica dopo la messa.

È interessante soffermarsi invece, anche per avere un'idea degli umori del tempo, sulle singolari teorie del Gobbo della Badia, che per i più era el stròligh, per altri l’indvinón. A suo giudizio l'origine del male (con i diavoli che scorrazzavano da destra a manca) era da far risalire alla ricorrenza delle streghe; al sadico e blasfemo divertimento di chi, la notte del 24 giugno, spalancava la porta delle stalle per affidare le bestie agli spiritacci (come lui li definiva, mai pronunciando il nome del diavolo) i quali, dopo averle invasate, mal sopportavano l'idea di doverle abbandonare.

Da qui il perverso disegno di questi esseri di prendere possesso, nel contempo, di cani e gatti.  Cioè di animali in comunione con l'uomo per potersi liberamente infilare nel batuscio che, restando supporto per le comodità del capoccia (e quindi non soggetto alla protezione del santo degli animali) era la sola via possibile per ritrovarsi nella stalla.  Ecco perché, come prima cosa, el stròligh chiese a Primóne, seduto trepidante su di una vecchia panca:

- C'è el batùsc ma chèsa tua ?

- Sé, è tla mi cambra.

- El lasci mai apèrt ?

- Eh, qualca volta chi burdlacc c'vann a giochi !

Il Gobbo si fece serio; accostò a sé il grande vaso di vetro trasparente, colmo di un magico intruglio verdastro, apponendovi ai lati due mozziconi di candela.  Li accese, li girò più volte da sinistra a destra sbirciando con la coda dell'occhio gli sgorbi tracciati su di un foglio bisunto, tirato fuori dal ripostiglio della scansiera (armadio a muro) lì di fianco.  Scosse il vaso rivelatore in senso ondulatorio, indugiò ad osservare le strane figure che si profilavano per un paio di minuti che sembrarono a Primóne un'eternità.

Quindi, in perfetto italiano toscaneggiante come si conviene ad un uomo di scienza nel momento storico della sua scoperta, sentenziò:

- Eh, sì è proprio lui !  È il gatto nero dei Ca ' le Buche ' che s'è tirato addosso lo spiritaccio della Bianchina del sor Damiano. Catturalo al tocco dell'Ave Maria, struscialo nell'urina del riólo e fargli fare tre volte il batuscio in senso inverso all'entrata. Che Iddio te la mandi buona!

Primóne le studiò di tutte per avvicinare quel diavolo di gatto e così — una volta eseguito alla lettera quanto consigliato dall’indvinón — le vacche da dodici si ridussero a sei, ingrassarono tranquille come non era mai avvenuto prima alle Rancaglie.  Il batuscio, però, finì per restare pressato da due grosse pietre, per non dar spago alla curiosità dei bambini e alla furbizia di Belzebù.