Batanai (i) le cianfrusaglie
Le cose vecchie ritenute inutili
Minghìn nel suo capanno-officina della colombaia ne aveva di tutte le specie: batanai di ferro appesi al muro, aggeggi di ghisa e di piombo allineati alle pareti, resti di preziose attrezzature in legno, casse e cassette colme di cose minute, le più strane e impensabili.
A dieci anni — quando passavo di lì per andare a scuola al Palazzone — mi fermavo delle ore a curiosare in quella che era per me una miniera d'oro, la più preziosa e inesauribile di questo mondo. A costo anche di subire le torture di quel genialissimo burlone che, sapendomi destinato a continuare gli studi, era capacissimo di urlarmi nelle orecchie, non so quante volte e senza prendere fiato:
Una cèrqua ha cènt brancón
ogni brancón ha cènt rem
ogni rèma ha cènt cóv
ogni cóva ha cènt ucèl.
Quant vién? Quant vién? Quant vién?
Capirete il mio disagio a raccapezzarci qualcosa, frastornato com'ero dalla perentorietà della domanda-quiz e dallo sghignazzare cui dava seguito quel sadico analfabeta.
Diciamo subito che non è facile dare un senso preciso a questa strana e colorita espressione dialettale. Nella vallata del Metauro i batanai costituivano l'ingrediente base di un modesto commercio di cianfrusaglie ferrose. Per gli urbinati di città erano, invece, gli oggetti inutili con cui gingillare i bambini, definiti da qualcuno anche i cìaff (termine di certo più pertinente per indicare capi di vestiario di poco conto). Direi, però, che nessuna di queste definizioni coglie in pieno il significato che il contadino di Badò intendeva dargli, non diversamente da altre zone delle Marche.
E da premettere, intanto, che il commercio delle cose vecchie seguiva il calendario delle fiere e dei mercati settimanali ed è ancora in uso, anche se in misura irrilevante per l'economia agricola, in varie località della regione. Ma, almeno fino agli anni che precedono il secondo conflitto mondiale, era tutt'altro che una sagra delle curiosità, degli hobbies o del collezionismo per stravaganti. Ci si muoveva sulla base di una prospettiva ben più concreta; quella cioè di rimediare qualcosa di utile e, spesso, di introvabile al prezzo di pochi soldi: ingranaggi per macchine agricole, ruote di ferro di ogni specie, cuscinetti a sfera, pneumatici da rattoppare, catòrci e gangri (cardini) per rafforzare le porte, taiapèn e scurcin (tagliapane e scorcelli), una gméa (vomere) di ricambio per il vecchio partichè.
Anche per le donne non mancavano sorprese: una scal-daletta acciaccata ma funzionale, il coperchio di ghisa per il ferro da stiro a carbone, una ramina (bagnarola) per le grandi occasioni, ancora lucida e con tanto di mèstle (mestolo).
Al di là di queste cose che si rimediavano al mercato, c'erano anche i batanai ereditati e nati in casa. Tutti gelosamente conservati, per ogni evenienza, in bidoni e cassette di legno riposte in un angolo della loggia, giusto il proverbio che recita:
La casa fortunata e sanza guai
è quella che abbonda d'batanai
Fortunatamente anche perché restava ancora attiva e basilare un'arte della quale abbiamo perduto le tracce: quella dell'arciaplè o del saper armedià, come si usava dire nel fanese.
Quali erano allora i batanai che permettevano ai bambini della mia età di vincere la monotonìa della campagna di avere tra le mani qualcosa di cui vantarsi e di cui godere nelle giornate di scuola, nel piazzale della chiesa o nelle sfide attorno a casa ?
Non i blin, che erano cosettine lucide per neonati, ma oggetti più impegnativi e più strani che non servivano ai grandi. Dalla scatola del lucido ai barattoli; dai brificchj alle bottigline dl'acqua da l'odor; dai vecchi e chiocci campanelli di bicicletta, ai rochètt per carri semoventi, alle biglie d'acciaio del cuscinetto a sfera.
Batanaì da barattare, magari, con cose da amatori come i preziosi orologini color argento con sfera fissa e fibbie di madreperla.