Barburèna (la) il vento gelido di tramontana
Ovvero la riminese di Pietro Grande
Quel pomeriggio di fine novembre del '38 Peppe Garulli sembrava proprio deciso a non farmi salire sulla bicicletta per il ritorno a casa di fine settimana.
Mondo schifo — brontolava pestando fitto sul pavimento della trattoria di via Valbona — en crégh (non credo) ch' sia el chès d' gì via.. È vist che parèta vers la Carpègna ?
Era allora diffuso il convincimento, specie tra i vecchi, che il segnale più certo del sopraggiungere della pioggia o della neve fosse l'oscurarsi del cielo verso nord-ovest e più precisamente nella fascia appenninica che, vista da Urbino, si stacca tra il massiccio del Carpègna e la Bocca Trabaria.
Mi ci volle non poco a convincerlo, il padrone di casa. Ma soltanto una volta giunto a metà strada, se ben ricordo nei pressi di Ca' la Bona, capii che Mondo schifo (come noi bonariamente lo chiamavamo) aveva visto giusto. Il cielo infatti si era paurosamente incupito e i primi granelli di neve, scagliati di traverso da improvvise folate di vento, pungevano sul viso come aghi.
Non vi dico il calvario lungo la ripida strada di Ca' Giorgio divenuta una lastra di gelo; le scarpe di tela incerata che scivolavano come anguille; la neve che, stranamente asciutta, come polvere, s'infilava nel collo e nelle tasche del pastrano.
L'idea di riprendere fiato bussando alla porta di Ca' Paolone a dire il vero non fu felice. Lazzaro Passeri, il capoccia, aveva un diavolo per capello: il vento gli aveva rovesciato il cestóne delle ghiande, la catassa dla legna fina e fatto volare chissà dove il tetto del capanno e perfino i pantaloni di velluto stesi sulla siepe. Ora se ne stava a ridosso della brace ad asciugare i piedi prendendosele di brutto sa cla tramontana de chel mustre diavle, con i seramenti sparcitti della camera da letto e sa ‘l bacilè di puracc.
Va detto, tra parentesi, che il dialetto di Lazzaro era schiètt, cioè pieno e genuino secondo mio padre; tanto che anche quando portò all'altare la Netta non seppe far di meglio che rispondere al rituale: vuoi tu ... con un sé ! che fece diventar rosso anche il prete.
Il bacilè inteso come verbo era comunissimo nella zona nel senso di soffrire, pensarle di tutte, faticare duramente. E ciò a differenza di quanto significava nel versante orientale del territorio di Urbino e nella vallata del Metauro dove stava anche per gingillarsi, ritardare, far compagnia ai bambini.
Una avventura, quella del '39, che non ho dimenticato e che va a pennello per introdurre il discorso sulla tramontana che nel fanese aveva il significato più generale di tempesta, tormenta con vento, pioggia e neve. Cioè un evento burbero che lasciava intendere una definizione più appropriata per quella che noi chiamiamo barburana.
Nell'urbinate, invece, il termine si riferiva più precisamente al vento pungente di tramontana, a volte misto a neve, che nelle giornate invernali costringeva tutti a chiudersi in casa e i contadini a tappare con gli stracci buche e fessure, dove gli spifferi sibilavano impietosi. A Girfalco la chiamavano anche carpegnóla, prendendo come punto di riferimento il massiccio del Carpegna che — ripulito da ogni traccia di foschia — ammagliava non poco anche per gli strani riflessi della sua ripa di Levante.
Si riteneva che il freddo eccezionale della barburana impedisse il cadere della grande neve uccidendo, nel contempo, microbi, scacciando le streghe e i parassiti dai campi di grano e dalle stalle.
Non c'erano ancora le giacche a vento, i guanti imbottiti, i soprabiti di pelliccia e le stufe Becchi da riscaldamento, ma soltanto il mantello rozzo di bagello e gli zoccoli a doppio fondo per chi era costretto ad uscire di casa; i grandi camini sempre accesi, el prét, la monica e la scaldaletta per stiepidire il letto dei neonati e delle persone malate.
Era un momento allucinante durante il quale strada, campi e paesi non davano segni di vita; il momento delle situazioni drammatiche per la morsa del freddo, le malattie, le tegole che rotolavano nel tetto, le porte che minacciavano di sfasciarsi e i pagliai che si sfaldavano sotto lo sguardo preoccupato del capoccia.
Restava al contadino la sola speranza fondata nel detto che la barburèna dura un dì e non 'na stmèna (settimana).