Arutin (l') l'arrotino
Quella incredibile officina in bilico sulla canna della bicicletta
Non è per voler cercare ad ogni costo aspetti peculiari, ma l'agricoltura marchigiana, a differenza di quanto è avvenuto altrove, ha le sue radici nella mezzadria che ha rappresentato il perno attorno al quale, dal Mille in poi, si sono mossi — nel bene come nel male — storia ed economia, famiglia e potere, vizi e virtù.
E il tutto nel rispetto di un rapporto città-paese-campagna che, se pure difficile, ha saputo cogliere momenti di integrazione, soprattutto per la grande fame di prodotti agricoli e di grano in particolare e per l'esigenza stessa del contadino a valersi delle conoscenze e dell'apporto di chi, in città, poteva fornire attrezzi, riparazioni, vestiario, assistenza, punti di riferimento per la vendita del bestiame.
È impossibile stabilire chi, negli anni della mia fanciullezza, avesse più spazio nella considerazione del contadino: se il fabbro, il maniscalco, il barrocciaio, il cordaio o, più tardi, il meccanico. Il fatto è che tutti questi geniali artigiani (alcuni dei quali veri e propri maestri) restavano pur sempre espressione del mondo urbano; anche quanti avevano organizzato la loro attività in fumosi capanni al centro del paese, porta a porta col casante.
Più familiare, invece, era il rapporto con una nutrita categoria di aggiustatori ambulanti, modesti quanto preziosi, che si ponevano al servizio delle campagne per due soldi o pochi chili di grano, dividendo con il contadino storie, pasti e preoccupazioni.
Basti ricordare l'arrotino, il sediaro, el caldarè (il calderaio), lo sbranghino, il ciaccabreccia, el segatòr (preparatore di colonne per il sostegno delle viti), il bottaio, il castrino, el possaiól (costruttore di pozzi e fontane).
Nella Guida di Pesaro del Vanzolini, stampata nel 1964, scopro cose davvero interessanti sulle radici del lavoro artigianale. Nel territorio del capoluogo, che allora contava meno di 20.000 abitanti, troviamo sul finire dell'Ottocento: 4 arrotini e 4 cenciai (stracèr, si diceva nell'urbinate), 16 bottai, 116 fabbri ferrai e ben 278 calzolai; 4 segatori e 9 sediai (tutte donne).
E vero, però, che la prova di come fossimo ancora in tutt'altro mondo, la si ha scorrendo il tabulato dei pensionati: 134 in tutto il comune tra locali, governativi e particolari !
Ricordo che l'arutin al servizio dell'area di Girfalco era Fligìn de Muntinóv, tipica figura di montanaro, convinto di poter dimostrare, sulla base delle proprie esperienze, che la fortuna è anche figlia della miseria. Aveva iniziato a seguire il padre da ragazzo quando la carestia arbaltichèva la chèsa (nel senso di renderla vuota, non accogliente).
A diciassette anni (si era alla vigilia della grande guerra) una svolta imprevedibile: per afferrare al volo un lungo e appuntito coltello (el scanabaghìn) che gli stava scivolando a terra tranciava il getto l'indice e il medio della mano destra, all'altezza della seconda falange. Per sole due dita avrà l'esonero dalla chiamata al fronte; il privilegio di essere il solo giovane valido della parrocchia rimasto a casa e l'unico arrotino delle vallate del Foglia e dell'Apsa da prenotarsi per tempo come ... lo specialista delle malattie del cuore.
A questo punto non è male aprire una parentesi relativamente allo sconcerto e ai bisbigli che si legavano, già dai primi decenni del secolo, di fronte a tanti singolari incidenti sul lavoro. Singolari perché era quasi sempre il dito indice della mano destra a farne le spese, incappando nel taglio ben affilato di falci o seghetti. E, vedi caso, proprio quello del giovane ormai maturo per il servizio di leva.
S'è taièt el dét del grìlèttl (dito essenziale per sparare il fucile e per l'idoneità al servizio di leva) mormorava la gente, non sorprendendosi più di tanto del sistematico ripetersi di tali disgrazie, cosciente che il volontariato non era di casa nelle campagne e che l'amor patrio, in certi casi, potesse anche finire in subordine rispetto alle esigenze della famiglia e al pressante lavoro dei campi.
La fortuna di Fligìn traeva origine dall'incidente (questa volta autentico) dello scanabaghìn e assumeva, per lui, un significato tutto particolare per quanto era accaduto al Ròsc, suo grande amico e vicino di casa. Il poveretto aveva tentato di farsi riformare assestandosi una micidiale martellata nello storico dito, tanto da ridurlo surt (spesso) e dur com un masucch. Inutilmente, purtroppo; partiva per il fronte e nel 1917 moriva, non si sa come, seguendo le peripezie belliche della 2 a Armata agli ordini dei generali Badoglio e Capello.
Ma ritorniamo all'arrotino della mia infanzia.
Come Fligìn arrivava alla porta di casa mi veniva da pensare alla fatica compiuta per i tortuosi sentieri del Vallone e alle doti di acrobazia di cui era stato capace. E inutile dire, però, che l'occhio era tutt'uno con la bicicletta che più guardavo e più mi sembrava impossibile. Alta, pesante nel telaio a doppia canna e nello smisurato cavalletto di appoggio, ben congegnata nelle catene di trasmissione innescate al pedale, stabile nell'aggancio alle due còte circolari per piccole e grandi lame, dotata di sistema di raffreddamento ad acqua appeso, con barattolo, all'ampio manubrio.
Una volta messa in piano la macchina, le donne si affrettavano a fé rotè gli attrezzi che avevano in mano ogni giorno, come la cortèlla (tagliapasta), el batlard, le forbici e la taiapèna.
Gli uomini, da parte loro, si facevano carico di controllare che non presentassero falle el sighètt, el scurcin, el rovè, el sgón e i falcioni della trinciaforaggi. Era festa per noi bambini. Quanto meno un giorno diverso dagli altri; un calcio alla monotonia per le storie balzane che il personaggio era solito raccontare, per l'impalcatura che lo faceva sembrare un giocoliere e l'incredibile abilità con cui riusciva ad affilare anche le lame più ribelli.