Arcoiticc (l') il raccogliticcio, l'avanzo
Quando l'anno era lungo e i giorni erano fitti
Scrive il Rosener, nel suo interessante saggio / contadini nel Medioevo: A differenza degli abiti, che venivano portati per lungo tempo, il cibo è uno di quei beni materiali di breve durata e che perdipiù reagisce in modo molto sensibile alle oscillazioni economiche ...
In parole povere, significa dire che l'alimentazione di ogni giorno, per il contadino, era legata al variare degli indirizzi colturali e, inoltre, a crisi temporanee quali i cattivi raccolti, le malattie del bestiame, la siccità, gli incendi e quant'altro di imprevedibile poteva accadere. Se tutto filava liscio si notava subito un aumento dei consumi in generale con pane di grano a sufficienza, carne di maiale, qualcosa da spendere nei vestiti e nell'arredo di casa.
Diversamente erano rinunce indescrivibili sostenute, per altro, con grande dignità e spirito di adattamento. In sostanza si trattava, per la gente del nostro contado, di far tesoro dl'arcoiticc. Di un'arte, se vogliamo, nella quale le donne erano maestre da sempre nel riproporre a cena ciò che avanzava a pranzo, non importa se minestra di fagioli o tagliolini con pomodoro e soffritto di lardo.
S'è nèt tl'abondansa! era il rimprovero dei nonni se si eccedeva nel companatico; forse memori dell'antico detto urbinate che l'ann è lòng e i giurne en fitti.
Proprio ieri ho avuto modo di chiacchierare a lungo con Quinto Carboni, loquace e genuino coltivatore diretto della Cesane. La sua vecchissima casa, Villa Garibaldi, è sita a cento metri dalla panoramica imboccatura del Fosso delle Donne. E se ci fate caso la troverete così incollata sotto il piano della strada e tanto a ridosso del greppo che è più facile toccare il tetto con le dita che vederla.
Il discorso? Quello di sempre: la famiglia numerosa (i Carboni erano sette fratelli, due dei quali morti in guerra), l'isolamento, il lavoro, i nevón, la miseria. E tutto in chiave catastrofica da farmi perdere la pazienza.
Non esagerate, Quinto — gli dissi. Il pane nelle campagne non è mai mancato !
E lui, seccamente: Eh, póra vo'! Pensèt davér ch' la mi' mamma le pins le lascèva in abandón? (che le lasciasse cioè incustodite, con il risultato di vederle divorate in un batter d'occhio).
La pinsa, come forse avrò detto altrove, era una pagnottella di farina di granturco cotta al forno, gialla e stuzzicante come una fetta di ciambellone con tuorlo d'uovo di tacchina.
Riferimento per certi aspetti pretestuoso, quello del Carboni, perché il pane (alimento base della dieta contadina) raramente è venuto a mancare nel secolo che ci apprestiamo a chiudere, se non per fatti contingenti.
È da dire, anzi, che il momento che dava pieno il senso della abbondanza e della gioia era proprio quello della cottura del pane. Veniva impastato nella grande mattra di olmo, ben dosato sal formènt (lievito), tagliato e modellato in filètti così numerosi che i piccoli neppure riuscivano a contare. Questo rito veniva ripetuto ogni dieci-quindici giorni con due o più infornate che consentivano di risparmiare tempo e fascine d'arbusto.
Sistemate in assi (mensole di tavola) — saldamente incastrate nella parete del magazzeno — le pagnotte viste dal basso, sembravano i tasti dorati di un grande armonium. È superfluo dire, però, che al decimo giorno, specie d'estate, assomigliavano già a pietre durissime che, cadendo, da quell'altezza, potevano anche schiacciarti le dita dei piedi. Ma nessuno si azzardava a sprecarne una sola mollica. Soltanto le croste prese dalla muffa, finivano nella bòbba del cane.
Nel 1932 all'Adele di Ca' Raschiello capitò il quarto figlio quando ormai riteneva d'aver ... chiuso. Erano trascorsi infatti vent'anni di matrimonio.
Alle vicine di casa che andavano a farle visita con i tradizionali doni del ciamblón e dla galina da bród diceva — indicando la povera creatura fasciata come un salame lì vicino, sul grande letto a due piazze — Eh, carine, st'arcoiticc en me ce vléva pròpri ! (Eh care, questo avanzo non mi ci voleva proprio !).