Aquaticc' (L') l'acquaticcio
Un vino prezioso nel testamento di Costanzo Felici
Nella grande famiglia dei Tiberi di Ca' Giudeo Vecchio tutti temevano che Secondo, il figlio maggiore, nato robusto come una quercia, sarebbe finito sa i palmón intisichiti (parole del nonno per significare polmoni bruciati), in conseguenza dei non pochi peccati veniali cui non sapeva resistere.
Fumava sigari puzzolenti della peggior qualità e, quando non li aveva, foglie di tabacco di produzione clandestina, bagnate nella grappa e arrotolate con grande perizia; fiutava tabacco da naso che teneva a portata di mano in una scatola del lucido, riposta nel taschino del gilè; alzava un po' troppo il gomito, fortunatamente senza conseguenze apparenti per la propria integrità fisica e mentale, tranne una gran voglia di fischiare.
El vin è la pòccia (poppa, latte) d'i vecchi, ripeteva convinto. E aggiungeva anche per rassicurare tutti: el vin de chèsa en imbrièca.
In realtà la produzione di uva in tutta la parte montana delle Marche era, allora, scarsissima con un vino per lo più aspro, di bassa gradazione alcolica, destinato — dicevano i più anziani — a chiapè d'pichin o a dventè curinèt. Cioè a farsi acetoso e a fermentarsi, ad inizio di primavera, per l'influsso dei primi caldi e del vento di corina.
Facevano eccezione, è vero, piccoli proprietari e perfino i mezzadri di antico lignaggio, attrezzati e animati da vera passione; ma il fatto è che pochi erano i terreni pianeggianti e ben esposti per le piantate; scarsi il tempo e la manodopera da destinarvi, essendo ben più assillante il problema di un raccolto di grano sufficiente a sfamare la famiglia; quasi inesistenti i locali adibiti a vera cantina: freschi, scavati sotto terra o al riparo nella tufaia sita a vernìo. Come poche erano le attrezzature essenziali, dalla pigiatrice, al torchio, alle botti di rovere, tanto che il padrone la propria parte di uva la vinificava nella cantina di città. Un ambiente, questo, a volte monumentale; oggetto di curiosità e di invidia per tutti e segno di privilegio.
Tutto sommato, non si va lontano dal vero asserendo che la nostra viticoltura degli anni Trenta era ancora quella dei Romani descritta da Plinio, Catone e Columella. C'era anche allora una grande resistenza a coltivare la vite, pianta di chiara origine mediterranea, per l'enorme quantità di cure che essa richiedeva: preparazione di terreni preferibilmente a pendio verso sud; trapianto da vivai; preparazione di sostegni a pali, graticci o pergole, per non dire della potatura con il classico falcetto ricurvo che i Romani chiamavano falx vinitorìa.
Si pensi, poi, al lungo e complesso processo di selezione delle uve che prese avvio con il sopraggiungere, a fine Ottocento, della vite americana; pianta selvatica ma preziosa nella sua funzione di porta-innesto, immune com'era dal pericolo della fillossera.
È da questa specie di trapianto, nel quale tutti presero ben presto a cimentarsi, che sono venute alla luce le uve preziose della mia infanzia che voglio ricordare nel dialetto di Girfalco: el botolón (o uva di bòtt) dai chicchi bianchi e polposi; el scruculin fitto e trasparente come una polpa di melograna; l'uva lùia che, maturando precocemente, in luglio, ci invogliava a cercarla correndo da un filare all'altro; el moscatell capace da solo di allietare la tavola; la berzighèna dai colori incredibilmente lucidi; el sgranarell profumato da non credere nei suoi acini minuti; la malvagìa (malvasia) carnosa e vellutata; el famós dolce più del miele e, infine, el tintorièll dai chicchi insipidi ma ricchi di tannino e quindi capaci di dare al vino il giusto colore.
Ma buono o cattivo che fosse, il vino restava un elisir prodigioso per sollevare il morale e vincere la fatica, oltre che un motivo d'orgoglio per chi poteva offrirne un bicchiere all'ospite che capitava in casa.
Ma, come cavarsela quando — per mancanza di vitigni o per l'effetto del gelo o della grandine — l'uva era così poca da consentire il pieno di un solo botcìn di poche some, sufficiente per il grosso delle faccende estive? Nella maniera più semplice e naturale di questo mondo: ricorrendo all'acquaticcio!
Si raccoglievano, sa i bigóns (bigonci), le vinacce residue intrise di raspull (raspugli); si ammassavano nel tinacc aggiungendovi acqua a sufficienza.
Il processo di fermentazione consentiva ben presto di spillare, per tutto l'inverno, dalla apposita cannella l'acquaticcio detto anche pciól: una sostanza liquida, insipida e colorata, che dava l'illusione del vino ma che ha goduto nel tempo di una sua dignità, se non letteraria, almeno documentaria.
In un testamento del XVI secolo, pubblicato da Giorgio Nonni, si legge che il naturalista piobbichese Costanzo Felici lasciò a Camilla, balia della sorella Giulia, some tre di picciólo et some quattro di vino per ciascheduno anno. Che cosa avesse di prezioso questo pciól di Camilla per meritare gli onori della storia è impossibile dirlo. Tanto più che nessuno potrà mettere in dubbio la giustezza di un antico proverbio fermano che lo ridimensiona asserendo:
L'acquaticciu
tre dì è bon e dop è tristu.