Amòr (gì a fé l') andare dall'innamorata
Quando ci si guardava negli occhi alla luce del lume a petrolio
Fare all'amore, nel linguaggio popolare, rappresentava in passato un'espressione assai diversa dalla attuale accezione.
Significava più semplicemente, per l'uomo, andare a casa di lei la sera della domenica, ritenendo sconveniente che nei giorni feriali il sentimento potesse sottrarre tempo al lavoro e ai problemi della famiglia.
Non si fa fatica ad immaginare quanto lungo e difficile fosse, specie per i ragazzi più timidi, la fase stessa dell'approccio. Si cominciava col cercare l'occasione propizia per fare conoscenza e parlarle; la si aspettava per strada quando andava al mercato o alla messa della domenica, sempre in compagnia della madre o della sorella maggiore; si cercava di intenerirla con fiori di campo e cannelli di liquirizia e, quando proprio non si riusciva a rompere il ghiaccio, le si inviava una lettera pensata, scritta e riscritta cento volte su carta da quaderno con cuoricini colorati a fine pagina.
Ad accrescere il disagio ci si mettevano anche gli amici (i cacianès che continuavano ad insistere: i hè dmandèt o no da fè l'amór?}.
Si aveva accesso alla casa di lei soltanto a fidanzamento ufficiale avvenuto (l'amór in chèsa) e se venivano rispettate alcune buone regole come: il rientro a casa prima del tocco dell'Ave Maria, il guardarsi bene dal recitare la parte del frulantin (corteggiatore abituale), il vestire ordinato e pulito, la discrezione a tavola, le premure per l'andamento delle colture agricole, una buona ligàccia la vigilia di Natale.
Era, questa, una usanza vecchissima in tutto l'urbinate, tanto che nonno Lazzaro ne parlava come di una gluppa, ricolma di arance, fichi secchi, caramelle d'orzo e preziosi confetti all'anice.
Soltanto agli inizi degli anni Quaranta la ligàccia compirà un salto di qualità nella confezione, con scatole strette da fettucce colorate e nel contenuto, arricchito da più significativi oggetti di bigiotteria, foulard e fazzolettini da naso per lei, dolciumi per tutta la famiglia, bambini compresi.
Si può quindi supporre che difficilmente i poveri innamorati riuscivano ad estraniarsi dal contesto familiare, almeno per la parte che l'intimità e l'affetto richiedevano. Al giretto attorno a casa per fare il punto sull'andamento dei lavori, facevano seguito la cena, la recita del rosario e, non bastasse, lunghe e chiassose sfide a tresette.
E l'amore? direte voi.
Fino a che si era tutti assieme ci si doveva accontentare di guardarsi negli occhi ed accarezzarsi la mano.
Quando, finalmente, la famiglia andava a dormire, restava di guardia la madre che, però, si appartava discreta in un cantuccio della grande aiola, sferruzzando a maglia.
Era allora che gli spasimanti cominciavano a fare l'amore inchiodati al tavolo della cucina, attenti a che le seggiole sparcit (storte, traballanti) non scricchiolassero più di tanto e che il freddo non gelasse le ossa.
Per giungere al bacio (che era per i due il sogno di una settimana, il massimo della spregiudicatezza) bisognava aspettare che il fumo del lume a petrolio avvolgesse tutto in una cortina impenetrabile e puzzolente o che la mamma ripiegasse sulla seggiola, vinta dal sonno.