Acompagn (L') il funerale
Il momento dominante della solidarietà contadina
Affrontando il tema della civiltà contadina si è portati spesso a fermarsi ai nonni o, poco più in là, ai nonni dei nostri nonni.
L'evolversi dell'organizzazione fondiaria nel suo complesso, le lotte, le forme di vita rurale, l'apporto dei comuni, le stesse guerre contadine di altri paesi come la Germania meridionale sembrerebbero fatti che non ci interessano mentre, invece, tutto va visto in un grande quadro dove la solidarietà resta sempre e comunque la nota dominante. Certo, l'esperienza contadina da noi vissuta negli anni Trenta non era più quella del villaggio medioevale, con la sopravvivenza condizionata da una stretta cooperazione e quindi con una dipendenza gli uni dagli altri. Ma anche per noi gli eventi principali, ai quali tutti i vicini partecipavano, erano costituiti dalle nascite, dai battesimi, dai matrimoni e dalle morti.
Nel parto e nella celebrazione del battesimo c'era la premurosa assistenza delle vicine di casa; nelle cerimonie nuziali: la festa, il banchetto, la musica. Insomma la partecipazione del vicinato era completa. I costumi severi che la gente rurale si era imposti per le cose tristi li ritroviamo puntualmente nei funerali. Resto addirittura convinto che il contadino delle nostre zone amasse pronunciare il meno possibile la parola morte, forse più per un senso di rispetto e di discrezione che di paura.
Non a caso nonno Lazzaro se la cavava con eufemismi come è più dia che de qua per significare è moribondo; oppure è gìtt (è andato) per dire è morto. Perfino il termine funerale gli dava fastidio tanto che preferiva dire acompagn.
Pur vivendo in casolari sparsi e privo di mezzi di informazione, il contadino aveva la conoscenza più piena della comunità parrocchiale. Come riuscisse a maturarla, perfino nei particolari, nei risvolti più segreti e nelle cose da niente confesso che per me è sempre stato un mistero a dir poco affascinante.
Quando la morte arrivava era usanza che i capoccia della zona si recassero, a turno, nella casa del defunto per vegliarlo la notte e per far coraggio ai familiari.
Erano rosari a non finire, alternati ad elogi sotto voce delle virtù e della operosità della buon'anima, buio e lunghi silenzi con il solo conforto di una manata sulle spalle, una fetta di pane con companatich d' peersciutt e un bicchiere di vino che pur ci voleva per vincere il sonno. L'incombenza di vestire la salma coi panni migliori e di adagiarla sulla bara acquistata in città, gravava su colui o coloro che avevano più coraggio degli altri. Ma a nessuno veniva in mente di chiamarli becamòrt.
Pioggia o neve, fieno nei campi o grano da mietere: niente poteva giustificare l'assenza dei parrocchiani all'accompagno. E si trattava, per le abitazioni più lontane, di cinque e perfino dieci chilometri di sentieri con la bara sulle spalle, i bambini per mano ansiosi di ricevere il soldo, le nonne che a mala pena riuscivano a tenere il passo, il vecchio prete che incespicava ogni tanto.
Il ritorno a casa, riuniti per gruppi, costituiva una occasione ghiotta per fare quattro chiacchiere sull'andamento delle colture, sui figli che nascevano come funghi e sul tempo che — piovendo ogni giorno di più — sembrava aver messo el fiasch m'al cul.