Accia (l')    stoppa, canapa filata

Il passatempo della nonna

La ricordo benissimo fin dagli anni Trenta come cosa preziosa per le donne di Ca' Giudeo, che ancora non azzardavano neppure avvicinarsi alla bottega del flemmatico sor Adelmo per completare il corredo o per rinnovare le lenzuola del letto grande, divenute lise (sciupate, sottili).

Per loro l'inverno non era di certo la stagione degli ozi quanto, invece, l'occasione per realizzarsi garantendo continuità e profitto nella messa a punto della casa e nelle cure di una famiglia che cresceva e che sempre più veniva a trovarsi al centro dell'attenzione della gente, nella parrocchia come nel paese.

Da qui incombenze banali come l'arfè i matarass (il ricolmare i materassi) e impegni addirittura gratificanti, che divenivano un rito, quali el tessa (il tessere) la tela; el cuscia (il cucire) el vestit da la festa alla figlia maggiore e il lavorare l'accia che era ritenuta, da secoli, elemento indispensabile, quasi quanto il pane, in tutta la fascia centrale appenninica.

Era, quest'ultima, il filato di canapa al primo stadio, da non confondersi con la stoppa che era invece il cascame proveniente dalla cardatura della canapa stessa e usato per suturare la rugióla (cannella di legno della botte), imbottire seggiole e poltrone e preparare i stopacc' per il caricamento del fucile a batècca. Qualcuno addirittura la riciclava filandola per ricavare tele resistenti, adatte alla confezione di sacchi, corde, balle ed altro. Accia per dire filo ancora rozzo, cioè filaccio? Mio padre ne era convinto.

Sebbene abbia visto filare la canapa non so quante volte, tanto da conoscere l'arte nei minimi particolari, non sarei in grado di spiegarlo oggi con parole acconce stante la complessità dei passaggi da una fase all'altra della lavorazione, i tanti ammenicoli in uso, le abitudini diverse da zona a zona e perfino da famiglia a famiglia.

Ciò che era capace di fare mia nonna Assunta ha dell'incredibile.

Avvolgeva un bel ciuf/o di canapa attorno alla rocca che poi fissava alla cinta della lunga sottana. Con la mano sinistra spizzicava le fibre attorcigliandole tra il pollice e l'indice fino a modellare un filo che cercava di amalgamare sputandovi sopra. Lo raccoglieva nel fuso facendolo roteare, giù in basso, con la mano destra. Dal fuso passava quindi al naspo e dal naspo alla classica matassa di accia.

Ma, il bello è che, mentre eseguiva tutto questo con una celerità (sveltessa) impressionante, trovava il tempo di riattizzare il fuoco aiutandosi con gli zoccoli, di tenere d'occhio il pignatta dei fagioli che minacciava di gontare (traboccare). Non bastasse, quando giungeva zia Clementa per restituire le uova da cóva, trovava il modo di raccontarle, con una velocità da cento parole al minuto, tutti i particolari possibili sull'andamento della salute e sulla resa del pollaio.

È noto come le matasse di accia venissero bagnate non so quante volte, fatte bollire nel ranno di un grande bucato e quindi appese ad asciugare su lunghe stanghe attorno a casa; girate e rigirate con una punta d'orgoglio perché tutti apprezzassero le pazienti fatiche dei mesi invernali. Per quanto attiene la lavorazione della tela farei offesa al lettore se ripetessi quanto ho già scritto in precedenti libri.