Acacc' (l')    l'acacia

 

L'inebriante profumo delle terre povere

All'affacciarsi dell'inverno i boschi del nostro entroterra offrono ancora effetti sorprendenti, difficili da interpretare anche per il più geniale degli artisti.. Concorrono a sconfiggere la monotonia le chiome folte e giallognole delle querce disposte a scomparsi soltanto al vento impazzito di fine ottobre; gli sparuti cipressi, privilegio delle case padronali; ginestre e ginepri ancora verdi nei sodi e nei greppi delle strade. Anche le acacie danno all'occhio con ceppi a vernìo, lunghi e intricati come la vencàia del fosso di Ciavatta.

Così ho trovato scritto in una pagina di diario, l'ultima se non erro, del settembre del '39.

Se strano è il riferimento all'acacia, a dir poco singolare è l'annotazione alla vencàia; un anonimo angolo di terra a pochi passi dall'Apsa, buio e folto di vénchi (salici) e di acacie. Forse una reminiscenza infantile, legata all'ammonimento di mia madre che minacciava di portarmici ogni qualvolta facevo le bizze.

In verità, neppure immaginavo che sull'acacia si sarebbe potuto scrivere un trattato, a cominciare dalle mille specie che allora vivevano dall'Australia all'Europa, per finire a prodotti pregiati, quali il legno da lavoro, la gomma arabica e il tannino.

Ma non è questo il versante che si intende percorrere. Qui interessa sottolineare come gli arbusti aculeati di queste mimosacee nostrane costituissero, fino a qualche decennio fa, oltre che una non disprezzabile risorsa economica, un motivo di contorno e di ornamento dominante nel paesaggio agricolo marchigiano. Primeggiavano, infatti, ai margini delle aie e attorno a casa, lungo i fossi, nelle sponde dei fiumi, nei terreni franosi. Ed erano anche le prime piante ad annunciare il risveglio della primavera coprendosi, in un batter d'occhio, di fiori bianchi, profumati e dolcissimi tanto da consentire alle api di prepararci un miele di buona qualità.

Si trattava, è vero, di un albero precoce che si diffondeva anche nei terreni più poveri creando boschi inestricabili, chiamati "marughe", ma il contadino, allora, ne era attento custode potandolo e sfrondandolo dai rami superflui per fini pratici ed estetici ben precisi. Infatti, ne ricavava legna in abbondanza e, soprattutto, fascine da infilzare nella bocca del forno fino a tirarlo ad una temperatura ideale per garantirsi cotte di pane croccanti e profumate, bruscatelle col rosmarino e pinsa di polenta.

Come ornamento non aveva di certo la preziosità delle siepi di tuie e di altre piante sofisticate che, nell'arco di pochi decenni, l'hanno scalzata, complici anche qui ruspe e motoseghe.

Guerìn d'Chè Ciòl aveva sempre fatto larghissimo uso del legno d'acacia bruciandone ogni giorno nei camini della cucina granda, non meno di un paio di quintali, sempre più preoccupato di evitare disagi ai componenti di una famiglia patriarcale che Carletto, il nipotino più piccolo (el cacagnittle), riusciva a contare a fatica, portandosi quattro volte alle labbra le dita della mano sinistra. Ma non poteva non allarmarsi per il fatto che la pianta si allargava a macchia d'olio, rubandogli terreno asciutto,

particolarmente adatto per la coltura della cervia e dei lupini.

Quando nell'ottobre del '31 giunse, da Paganico, un nuovo nucleo mezzadrile gli si aprì il cuore: era la garanzia di poter accudire, di comune accordo, la campagna che si allungava fino al fosso della Ligonda e, soprattutto, la possibilità di stare in compagnia in una casa immensa dove i folett (gli spiriti) sembravano far da padrone, spostando mobili e oggetti vari a loro piacimento.

Ma, grande fu la delusione di Guerrino quando si rese conto che quella famiglia, pur abitando lì a grafice' (separata da un sottilissimo muro), si era portata dietro, oltre che la povertà, le chiusure e i silenzi dello sperduto casolare natio.

Non per nulla, a quanti — presi dalla curiosità propria della gente delle campagne — gli chiedevano lumi sulla operosità e sull'indole del nuovo arrivato, borbottava tra i denti: è rustich (scostante) com un spin d'acàcd.