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Maria Grazia Maiorino:  romanzo,

L'AZZURRO DEI GIORNI SCURI
 

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Presentazione
Vigorelli
IIIª Edizione 2018
Risvolto
Iª Copertina
Recensioni Testo del
V Capitolo

Iª Ed. 2009 e IIª Ed. 2012. peQuod, Ancona
 

da risvolto di Iª copertina

Chiara sta dimenticando il suo passato, Chiara non sa più chi è. Dove sono le chiavi di casa, dove gli occhiali? A impedirle di ricordare è una delle tante forme di demenza che vanno sotto il nome di Alzheimer. La malattia manda nell'oblio gesti abituali, luoghi e nomi. Ma Chiara un nome lo ricorderà sempre: quello di Tiziana, sua figlia, Per Tiziana registrare tutto ciò che la scrittura può trattenere diventa una necessità e un conforto. L'arrivo delle badanti polacche, la decisione sofferta del ricovero in una casa di riposo, il presente che si sgretola, lo ore regolate dai rigidi schemi imposti dalle istituzioni, le gioie e i dolori di una vita intera - fotografie rivissute dell'album di famiglia; ma anche incontri casuali, richiami della natura, libri, coincidenze e sogni...

Esiste in questa storia come un'aria lieve tra le parole, parole stranamente leggere che raggiungono una pienezza singolare, un volo pieno di grazia e discrezione verso il mondo altrui: Tiziana si pone in ascolto, senza altri confini che la fiducia in una serena corrispondenza.4


L'azzurro dei giorni scuri è una lunga lettera d'amore alla madre ritrovata; un'esperienza intensa, umanissima, continuamente sfiora¬ta dal mistero.
 

 

Immagineo di copertina:

               Ponte sulle Alpi, 1938

 

 

Foto sx:

Ed. peQuod, Ancona, 2006

Stampa Arti Grafiche del Liri

Isola del Liri (FR),Agosto 2006

 

Foto a dx:
Editore: Italic
Collana: Pequod
Anno edizione: 2012
Pagine: 274 p., Brossura

 

 

 

 

INDICE capitoli

 

Preludio

Orecchini azzurri

Le polacche

La villa

Canzone del Piave

Dalla parte del mare

Occhi di chirghiso

Finale

 

 9

11

29

75

107

185

219

 

 

 

IIIª Ed. 2018, Affinità Elettive Edizioni

 

 

Risvolto di Iª Copertina:

Chiara sta dimenticando il suo passato. Dove sono le chiavi di casa, dove gli occhiali? A mandare nell'oblio gesti abituali, luoghi e nomi è l'Alzheimer. Ma un nome lo ricorderà sempre: quello di Tiziana, sua figlia, la quale registra tutto nei suoi diari. Per lei la scrittura diventa una necessità e un conforto. L'arrivo delle badanti polacche, la decisione sofferta del ricovero in una casa di riposo, il presente che si sgretola, le ore regolate dai rigidi schemi imposti dalle istituzioni, le gioie e i dolori di una vita intera; ma anche incontri casuali, richiami della natura, libri, coincidenze e sogni... Esiste in questa storia un'aria lieve tra le parole, stranamente leggere, che raggiungono una pienezza singolare, un volo pieno di grazia e discrezione verso il mondo altrui: Tiziana si pone in ascolto, senza altri confini che la fiducia in una serena corrispondenza. L'azzurro dei giorni scuri è una lunga lettera d'amore alla madre ritrovata; un'esperienza intensa, umanissima, continuamente sfiorata dal mistero.

 

Consigliato da: Federazione Alzheimer Italia, Associazione Goffredo De Banfield, Biblioteche della Provincia di Reggio Emilia. È inserito nella bibliografia di medicinanarrativa.eu e in P. Taccani, M. Giorgetti (a cura di), Lavoro di cura e automutuo aiuto. Gruppi per caregiver di anziani non autosufficienti, Franco Angeli, 2010.

 

 

Recensioni da quarto di copertina:

«Più che la storia del decorso fatale di una malattia devastante e inesorabile, il libro finisce per essere il diario di una esperienza di ascolto, la registrazione misurata e profonda dell'incontro di una coscienza con il mistero di ogni alterità e l'assunzione di responsabilità che ne deriva».

Antonio Luccarini, Il Messaggero

 

«Scritti come il suo, oltre ai meriti della scrittura (agile, intensa, asciutta), contribuiscono a sfatare i molti pregiudizi che avvolgono il tempo ultimo della vita».

Duccio Demetrio

 

«L'Autrice cerca di difendere strenuamente sua madre e se stessa quando la malattia e l'incomprensione la minacciano.

La sua via d'uscita, la ricerca di una salvezza personale, passa attraverso la cura affettuosa alla madre, la riconoscenza a chi le sta vicino e, non ultimo, il ricorso alla scrittura».

Pietro Vigorelli

 

«Messaggio in filigrana di umanesimo cristiano, lettura importante che coinvolge e commuove perché le protagoniste, con autentica presenza di spirito, insieme a chi le aiuta, animano quella "società stretta", avrebbe detto Leopardi, dove l'attenzione accogliente di sé e dell'altro, la confidenza, l'amicizia, esistono davvero».

Germana Duca Ruggeri, l'immaginazione

 

«E così è, noi tutti lettori amiamo Chiara. La sentiamo vicina. Come Isabel Attende è vicina alla sua Paula morente così Tiziana è vicina a Chiara. (...) È la stessa sorte a legare la Attende e Maria Grazia. Sono questi due romanzi fortemente autobiografici e pieni d'amore. Dove possiamo trovare una via crucis che le due donne vivono. Una per la figlia, una per la madre».

Serena Dal Borgo

 

 

 

 

Presentazione della I e II Edizione del Dott. Pietro Vigorelli

www.formalzheimer.it/il-presidente/  

“Questo libro è un’opera d’invenzione”. Dietro questo pudico paravento si svela un libro autobiografico in cui l’Autrice, figlia di una malata Alzheimer, ripercorre fedelmente la propria vita e quella della mamma, Chiara, durante i suoi quattro anni di malattia.

Vengono descritti gli accadimenti, ma soprattutto i sentimenti che li accompagnano.

La Maiorino è un’osservatrice attenta e profonda e sa descrivere ogni evento riuscendo a farcelo partecipare. Scrive in modo personale e insieme avvincente, con un suo stile essenziale in cui il discorso diretto si integra con quello del ricordo, senza punteggiatura, in modo da rendere le parole più penetranti.

Anche se sono tante le persone-personaggi incontrate nel corso degli anni e tratteggiate nello svolgersi del racconto, quello che emerge è un senso di solitudine della figlia di fronte alla fatica dell’assistenza alla madre.

La sensibilità dell’Autrice è spesso ferita dall’indifferenza e dall’inefficienza dei medici e del personale curante. Solo qualcuno si salva: il dottor De Luca, Marisa che l’assisterà fino alla fine, l’educatrice Francesca, il dottore della rianimazione con gli occhi di chirghiso.

L’Autrice cerca di difendere strenuamente sua madre e se stessa quando la malattia e l’incomprensione la minacciano. La sua via d’uscita, la ricerca di una salvezza personale, passa attraverso la cura affettuosa alla madre, la riconoscenza a chi le sta vicino e, non ultimo, il ricorso alla scrittura: “Ti prometto, Chiaretta, che racconterò la tua storia, che tu vivrai nel nostro ricordo, che altre persone ti conosceranno e ti vorranno bene”.

“Continuerò a riempire pagine bianche. Saranno loro a farmi compagnia. Oggi penso che non si dovrebbero lasciare le persone in mezzo a un vuoto così grande, non è giusto, però non ho voglia di chiedere aiuto”.
Fatica, solitudine, bisogno di aiuto, scoraggiamento, ambivalenza sono sentimenti che emergono e che si intrecciano con la raffinata sensibilità dell’Autrice, il suo gusto estetico e il desiderio di realizzare comunque una sua felicità personale.

Dott. Pietro Vigorelli

 

 

 

DALLA PARTE DEL MARE
(Capitolo del romanzo)

 

Un angelo biondo in tailleur nero attillato passa per le vie del paese. E' il giorno della visita di De Gasperi. Primi anni cinquanta. Non so chi le scattò quella foto, da cui si dipana con fatica il filo dei ricordi. Il sud continuamente rimosso, come una sconfitta. Una mancanza. Lei ci arrivò la prima volta attraversando con mezzi di fortuna l’Italia distrutta dalla guerra. Macchia rossofiamma e biondochiaro nel nero del sud. Subito fuori luogo, troppo diversa dalle donne del paese per essere accettata. Subito forestiera.

Cerco di immaginare come potevano apparire ai suoi occhi le strade dove passavano maiali legati da una cordicella, asini carichi di ceste, i cavalli con i pennacchi delle carrozzelle non ancora sostituite dall’unico autobus, che faceva servizio dalla stazione al centro del paese. Dove donne dai lunghi scialli scuri camminavano diritte tenendo in testa sul cercine giare di terracotta e grandi panelle fatte in casa e portate a cuocere al forno. Trecce puntate intorno alla testa, unte d’olio, rifatte di tanto in tanto fra comari del vicinato. Madri che spidocchiavano i figli sulla soglia di casa. Pomodori stesi al sole sui marciapiedi, fichi aperti a seccare, nugoli di mosche dappertutto.

Il nonno grande invalido di guerra, il palazzo rivestito di pietra, gli scalpellini che battevano, la rivincita sulla miseria dei bassi, dove uomini e bestie dormivano insieme. I nostri mobili accatastati nella camera da letto, i vasi di gerani subito rubati, il pane bianco, la luce troppo fioca, mio padre che faceva il pendolare e tornava il pomeriggio da Potenza, il circolo, gli amici, le nostre ore vuote.
 

La casa-rifugio era quella di zia Dina, la moglie veronese di un fratello di mio nonno, anche lui ritornato invalido dal fronte. Camminava aiutandosi con due bastoni e portava un cappello con il paraorecchie estate e inverno. Si scendeva dal corso, la grande cucina si affacciava direttamente sulla scalinata, c’era sempre qualcuno in visita. La zia aveva mantenuto l’accento veneto, la vedevo accudire il marito, sempre premurosa e servizievole come una brava infermiera. Una specie di santa. Senza età.

Gruppo di donne in primo piano sedute intorno a un tavolino rotondo, metallico, come le sedie con finta impagliatura di plastica. Di mio padre e mio zio, sullo sfondo, si vedono solo le teste, e di un altro uomo, lateralmente, una mano che tiene una sigaretta. Anche tre delle donne stanno fumando, la sigaretta fra le dita o le labbra, lo sguardo rivolto verso l’obiettivo. Si assomigliano. Sono nella sala del circolo cittadino, indossano gonne longuette abbinate a maglie appena scollate o abiti interi guarniti con larghe sciarpe di lana, lavorate all’uncinetto, appoggiate sulle spalle. Le bocche disegnate dal rossetto, qualche accenno di sorriso, gambe accavallate, scarpe nere con il tacco alto. Scruto il viso di Chiara, cerco i suoi colori nel bianco e nero della fotografia: la sua espressione mi sembra triste, forse tutte sono prigioniere di un loro mondo separato, ritagliato in interni, cure domestiche, visite con bambini al seguito, chiacchiere, complicità, segreti, e in mezzo silenzio, come qui, sospeso, immobile. Quali erano i pensieri di mia madre quella sera di carnevale, quando aveva trentaquattro anni e io otto, e tutto assomigliava così poco a quello che avevamo lasciato?

I caffè in piazza, i tavolini all’aperto, e la musica d’estate, le sale da tè rivestite di legno con caminetti e quadri, ma soprattutto gli appuntamenti quotidiani all’ora dell’aperitivo e a metà pomeriggio. A Belluno amici e amiche, conoscenti, magari era solo una battuta scherzosa, un saluto, un darsi appuntamento per un’altra occasione, ma nel mio ricordo c’è allegria nella
piazza, ci siamo noi bambini che ci rincorriamo, che ci nascondiamo sotto i portici e giochiamo a “sassetti” o a “campanòn” vicino alla grande fontana rotonda dei giardini.

La piazza di Melfi, dove si affaccia il circolo, non ha tavolini all’aperto, i bar sono riservati agli uomini, che se ne stanno in piedi, dentro o fuori, a capannelli, soprattutto la sera e la domenica mattina: Ce la carrozzella ferma, e la spavalderia di fare lo “struscio” con il primo corteggiatore.

Mio padre sapeva cantare. Quando intonava una canzone la sua profonda voce baritonale improvvisamente si addolciva stemperandosi nella melodia di Signorinella pallida o Piccola santa, come si sintonizzasse a sua insaputa su una stazione diversa del cuore. Se potessi riascoltarla anche solo per un attimo potrei afferrare un sicuro frammento del mio padre sconosciuto. Mi limito a registrare la sorpresa, oppure no, era lo stesso padre capace di gesti affettuosi, di una tenerezza che i genitori non avevano potuto avere per lui; di lettere d’amore spedite a Belluno, che Chiara leggeva e rileggeva commossa e grata alla lontananza.

Una volta che ero a letto malata mi regalò un’enciclopedia degli animali in due grossi volumi rilegati. Non so se fu un caso, una di quelle offerte fatte negli uffici, o se era un implicito messaggio di attenzione. Ci ha messo molto tempo, ma è arrivato. Il mondo animale mi ha conquistata e mi piace pensare che sia stato anche merito suo.
 

4 febbraio 1996

Ora il viaggio è lungo la costa. Andando a Senigallia posso vedere il mare ogni volta, le case delle vacanze tutte chiuse, giardinetti coperti da teli di plastica, la ferrovia a ridosso della riva.

La sera della vigilia, prima di addormentarmi, un’associazione mi ha attraversato la mente: il mare del sogno, fatto prima che mia madre entrasse a Villa Negri, e il mare ritrovato a Senigallia. Non lo so se è una forzatura, ma ho trovato un po’ di conforto. E le immagini di quel bellissimo sogno continuano a tornare e a sovrapporsi a quelle reali, cercando punti in cui combaciare...

Questo complesso di edifici, che ha la solidità armoniosa delle costruzioni ottocentesche, si trova in mezzo alla città. Non ho più l’impressione dell’isolamento. Le strade corrono diritte, intersecandosi, fino al mare, che è vicino e si sente nell’aria. I gabbiani volano sopra le case. Camminavo lungo una passerella, un ciglio, nel sogno: mare quieto, di porto. Rose.

Le suore indiane hanno pelle e capelli scuri che contrastano con l’abito bianco, semplicissimo, e grandi sorrisi. Sono giovani, sembrano aprire con la sola presenza spazi più grandi. Vorrei che Chiara riuscisse a ricevere un po’ della loro dolcezza. Anch’io vorrei riuscire a metterla fiduciosamente nelle loro mani e a sognarla in sogni tranquilli.

Faccio fatica ad accettare la sua agitazione perpetua, vorrei
scuoterla, vorrei spiegare, spiegare, la sgrido, mi pento. Chiara violenta che scalcia e dà schiaffi alle operatrici. Il progredire della malattia o una reazione dovuta allo spaesamento?

Vieni a dormire con me?

Come era lucida mentre pronunciava queste semplici parole, esplicite nella loro richiesta d’affetto, di sicurezza. Il sonno come un abisso profondo, il terrore di precipitarvi da sola. Il sonno come morire ogni notte, lontana. La fuga dal letto, unica possibilità di salvezza.

Chiara nella carrozzella-seggiolone, quando sono arrivata, il secondo giorno. Il mio viso che si rabbuiava. La fretta di toglierla da lì, di portarla con me in passeggiata, “nella normalità”.

Non è facile l’impatto con questa nuova casa di riposo. Il rituale dei pasti a Osimo era meno sbrigativo, l’ambiente più familiare, la cameretta di Chiara simile a una stanza di casa... Se potessimo portare ovunque la nostra casa-guscio con noi! Chissà se Chiara ce la farà, o se questo cambiamento sarà solo un ultimo trauma. Il dottore ha detto che ci vuole un mese di tempo. Un mese mi sembra un’eternità.

Oggi ritornerò con Marisa. Spero la riconosca. Spero le porti un po’ d’aria di casa. Spero di non essere mai dura con mia madre. Questo diario è una lunga lettera d’amore per lei.

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