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Ercole  Bellucci:   EDIZIONI

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MINUTE  PER  UNA  LETTERA

 

SULLA  POESIA

 

DI

 

ERCOLE  BELLUCCI

 

E   MARIO  LUZI

 

 

 

A  CARLO  BO  E  MARIO  LUZI

IN SEGNO DELLA LORO AMICIZIA

 

Alcune citazioni confuse

con le quali si chiede un parere

al poeta Mario Luzi

o solidarietà per la nostra poesia

o, forse, per la nostra vita.

 

Certo far poesia nel nostro tempo, per noi ha un senso preciso, anche se distinto e le ragioni di questa urgenza non ci rimangono sempre chiare, se non addirittura sospette, per usare un termine caro a Thomas Mann, che però si riferiva alla musica, al diavolo.  La nostra "scelta" che col Vico vagheggia "una lingua mentale, per atti muti, religiosi"; e Pavese che lo ricordava certo in alcune prose testamentarie, diceva, "il poeta, come è giusto, aspira alla morte, al silenzio "; la nostra scelta, ora o questa severa e dolente modificazione poetica, è più che non si voglia vicina alla morte ed ha in sé una forza sfrenata d'attrazione, che suo malgrado, del nostro tempo condivide l'ombra atomica.  Da queste trame il poeta non cercherà una via di scampo, si limiterà a rispondere come Moosbrugger: "14 più 14 ... suppergiù da ventotto a quaranta"! "E Inger dovrà ancora imputridire, perché i tempi sono putridi". Adesso cominciamo a capire che è nostalgia del miracolo di Joannes la parola infranta dal silenzio da noi mormorata, e già, tristi uomini, indiziati al nulla, trastulli che nella tresca subiscono la propria azione mimica, fuori di una orbita morale.

E ci era stato chiesto con "scandalo": "Nessun credente che creda?". Ancora per rimanere nelle citazioni, (ed è una nervosa reazione ad una circostanza precisa, reale, malata), cosa rispondere a Malte Brigge?: "E' proprio qui che la gente viene per vivere? Sarei più propenso a credere che qui si muoia". Non è una domanda, ma la risposta, e soprattutto la soluzione, è la poesia che sapremo dare, non la favolosa menzogna di Mallarmé, non quel timore sospetto e lacerante, di cui prima si lamentava Tindizio e al quale ci ammaestrò il " novecento ", che strizzando l'occhio all'anonimo di un secolo remoto, ama ancora farsi ripetere:

" la vita dice di mentire

e ci scommette la vita ",

ma pensiamo invece ad una poesia del tutto ingenua, mite, una tenerezza felice, sobria, allegra. E cioè quello che si pensò dover essere la vita nello incantesimo mitico e naturale dell'infanzia.

Ercole bellucci

 

MARIO  LUZI

«Una  letteRA  SULLA  POESIA»

Caro Bellucci,

La sua lettera ha prodotto in me una impressione profonda, conturbante sebbene il contenuto non mi arrivi del tutto  imprevisto. Poco tempo fa, a una inchiesta sulle prospettive nuove della poesia, rispondevo facendo tra le altre un'ipotesi antica, cioè che qualcuno volesse veder chiaro nel rapporto vita - morte, sottoponesse tutto il nostro capzioso artificio di distinzioni attuali e pregiudiziali, alla scossa di quello sconvolgente dilemma o, se vogliamo, di quella inesauribile tautologia, scavalcando i fenomeni più appariscenti della condizione moderna, e anzi andandone così fino al cuore. Non è la prima volta che gli uomini si trovano spaesati di fronte all'idea che gli ideologi si erano fatta di loro nelle proprie ardite anticipazioni. Non mi metterò qui a compilare la lista degli esempi. Basterà che lei volga un'occhiata alla scena "politica" contemporanea la quale è fondata in modo evidente su uno stato di previsione che l'Ottocento aveva fatto per noi e che in modo altrettanto evidente non corrisponde a noi quali siamo realmente né all'evoluzione reale che hanno avuto le attività individuali e collettive, le arti, le scienze. Qui non c'è stata, certo, quella forza di revocare in dubbio l'ipoteca che invece hanno le sue dimesse parole quando richiamano il problema della poesia (e della vita) senza tanti complimenti alla stretta di quel paragone. Che garanzia di salute ci dà, si chiede lei se ho ben capito il senso del suo brano, la scelta che abbiamo fatto - ma guardi che la parola scelta non sia per caso una parola arbitraria o forse lei l'ha usata in falsetto? - Abbiamo optato per una " lingua mentale, per atti muti, religiosi ", abbiamo ascoltato Pavese quando pronunziava che "il poeta come è giusto, aspira alla morte, al silenzio", e siamo caduti nella sfera d'attrazione di questo gorgo mortale da cui è sleale cercare uno scampo perché il nostro tempo è questo e questo dobbiamo testimoniare. Quanti saranno i giovani, mi chiedo io, che condividono l'intensità di questa sua tragica rassegnazione, capace di reggere allo strazio di certe domande che salgono dalle viscere dell'umanità compressa: " Nessun credente che creda ", oppure: " E' proprio qui che la gente viene per vivere? Sarei più propenso a credere che qui si muoia"? Quanti saranno, sebbene basti ce ne sia uno, lei appunto, perché io ne sia incantato e inorridito. Chi ha sparso quel veleno che lei beve nella sua scontrosa o indifesa purezza? So che la domanda non ha senso, dal momento che le cose stanno cosi e lei parla, impavido, di noi "... già tristi uomini indiziati al nulla, trastulli che nella tresca subiscono la propria azione mimica, fuori di una orbita morale". Eppure mi vien fatto di cercare nel mio passato e nel mio presente, se ho mai fornicato con la morte e con l'ombra. Mi pare di no. Certo si è esposti alla tentazione, tanto più quanto si persegue il proponimento essenziale e si attua la natura stessa della poesia (e della vita): tutta la luce fino all'ombra, tutta la vita fino alle sue radici mortali. Se lei non l'avesse letto in questo stato di severo sconforto, avrebbe trovato che questa era, forse, anche la divisa di Pavese e che Musil ha potuto mettere sulla bocca di Moosbrugger quelle ha potuto mettere sulla bocca di Moosbrugger quelle parole proprio perché la sua volontà di trasformazione era tanto ferma da non temere le lunghe scadenze. Nondum venit hora mea: è l'espressione più vertiginosa di certezza e di futuro che si sia mai ascoltata. La poesia quanto più è vera, non manca di brutalità, rimette in discussione non questo o quello, ma tutto, porta irreparabilmente a contatto con la morte: è questo però l'effetto della sua vitalità, è la sua affermazione di fronte alla storia, finché non ne diventa essa stessa la voce interna. A nessun grado, in nessuna circostanza conosce la legge della dimissione, che lei sembra aver desunta dai più cari maestri; se malauguratamente dovesse conoscerla, o riconoscerla, ci penserebbe la grazia e, sia pure, il demone sospetto di Thomas Mann a troncarle la parola in bocca. Abbiamo voglia a immaginarci una poesia che sia semplicemente enunciazione (e del resto non ne mancano esempi); sotto di essa cova il fuoco, non meno forte perché contenuto e dissimulato. In altre parole non c'è realtà che la poesia (e la vita) riconosca inattaccabile. Quando si parla di " morte ", di " silenzio " è per troppa vita, per troppa voce. E' una dialettica elementare, quella stessa dell'essere; il poeta più intenso non può evitare di farla propria. E lei ha potuto vederlo come un maestro di morte ... Ma la replica più convincente viene dalla sua stessa purezza quando essa rifiuta ogni mistificazione, anche quella dolorosa o ironica, su cui è fondata gran parte della poesia dell'epoca moderna, e che anzi le appartiene come un carattere sostanziale o un marchio. Lei sa, a quel che vedo, che la poesia liberata dalla mistificazione, ingenua, franca, felice potrà, se le sarà data, rispondere attualmente alla domanda di Rilke: "E' proprio qui che la gente viene per vivere?". Con questa amarezza nel cuore, lei pensa dunque a una poesia felice, sobria, allegra. Dove fiorirà? Sopra il vulcano o da un'altra parte? Questo non me lo dice e del resto non ha ora molta importanza. Importante è invece che lei riconosca con molta speranza che la purgazione dai mostri e dagli incubi dipende da un libero, umile atto di vita e di poesia. E' lei che mi conduce per mano dove volevo arrivare. La poesia non può dimenticare, ma può vincere, anzi è essenzialmente vittoria: questa è la felicità che io le riconosco, altre non sono io che potrò indicarle o negarle ... Se esiste quel paradiso che lei auspica, potrà entrarci o non entrarci, a seconda della coscienza, dopo aver avuto così angosciosa notizia dell'inferno e del limbo. Ma anche senza quel paradiso la salvezza esiste, giorno per giorno, di volta in volta. Proprio mentre lei parla anche della morte, la poesia (e la vita) decide per la vita, gliela impone. Gliene impone anche il senso, il ritmo e la persuasione intrinseca con la quale si perpetua e procede. Bisogna guardare anche fuori di noi. Quante possibilità di morte ha scavalcato quel bambino che ora arranca per il viottolo. Quante forze negative stanno dietro l'uomo che apre la saracinesca e inaugura una nuova giornata. Pensi a questo e inserisca con tutta la sua passione la sua vita individuale, prima di tutto, in questa legge oggettiva dell'esistenza. Quando avrà fatto questo si sarà posto al centro: di là potrà guardare da molte parti e avviarsi per molte strade.

Con molto affetto.

MARIO LUZI

Settembre 1962.

 

 

RISPOSTA  A  MARIO  LUZI

 

Due errori - ammonirebbe Pascal - il primo di prendere tutto alla lettera, il secondo di interpretare tutto nel senso spirituale... (il primo errore proprio degli Ebrei carnali il secondo degli Apocalittici.

 

Per ovviare l'abuso di una nota in margine (che ora si fa persine involontaria e suo malgrado peregrina), la Sua lettera (e cosa dire della Sua poesia?) fa, lo so, a meno dei miei comuni luoghi di incertezze e di ipotesi e cosi, come se non bastasse, torno a trascrivere altri versi corsivi, in calce ad un testo ormai immaginario, ellittico, ancora suo malgrado.

Simply the thing I am

Shall make me live

Cercando di evitare tutto quel che mi obbliga una lettura a prima vista (e forse anche la vita nell'atto elementare di ricevere, per non soffrire l'inganno d'essere da meno) altro non cerco, o leggo, che l'immagine della morte - e, proprio per fermarla, interrompere il suo movimento, che va scaricato e neutralizzato in quella stessa forza di inerzia che porta, tanto che nel limite dell'esperienza sia possibile lasciarla a se stessa.

Le ragioni paiono oscure e meschine, ma la poesia quasi giovandosi di una irresistibile reversibilità, tocca quella morte, diviene il tramite di quel azzardo che riguarda solo la vita. La vita reagisce con una sorda attività che le è quasi propria.

Errore e verità stavano al gioco, Rebora ricorda nel suo Curriculum, ma nemmeno va dimenticata la sua giovinezza, che ammetteva: corro perché non ho fretta. In qualche modo giro l'ostacolo, la mia risposta diviene privata, muta l'immagine della poesia che mi illudevo di difendere (esperienza, tra paura e venerazione) e che adesso non ho abbastanza amore e giustizia nel dimenticarla. Cosa succede mai? mi chiedo, che io riconosca davvero la legge della dimissione?  Qui è il male, la serpe kafkiana che media la malattia (quella legge) il vuoto dove si raccoglie invisibile l'ombra e il nulla.

Credere all'innocenza o piuttosto alla sua allusione?  che poi, nel secondo caso, si è nell'oscuro rovescio di se stessi, schiavi di una pietà inerte che poco meraviglia e accalora, dove si è costretti a registrare del tempo solo l'impulso meteorologico e un calore simile al freddo della febbre. E non è il vizio di tanta nostra poesia (e vizio di lettura)? - da parte nostra, si intende, per scrupolo di purezza e d'obbedienza alla vita.

Dalla sua alta torre non finirà mai di umiliare la nostra con una più grande tristezza la canzone di Rimbaud.

Oisive jeunesse

A tout asservie

Par delicatesse

J'ai perdu ma vie

pur facendosi giustizia di tutti i convitati di pietra.  In tutti la giovinezza ha questa faglia dove sfiora l'arida aria della morte. E il tempo della morte è sempre presente, e non è il tempo: toccava il letto dei fuochi, formiche e lombrichi per nostro capriccio, o ritardi pieni di indugio e silenzio e più acute tenerezze della adolescenza, e più avanti quando si conosce il proprio ritardo ...

(corro perché non ho fretta)

e non esiste un arrivo, e nemmeno la morte può tormentarlo, e restiamo in noi stessi, nel nostro scarto... La morte dunque è proprio qui che ama rifugiarsi, a Seneca pareva il destino luogo d'inferno, Bernanos ne raccoglie la noia «che viene a capo di tutto, affloscerà la terra».

Nemico sottile non ha mai nessun dubbio sulla nostra miseria (a cosa si riduce la purezza!) e diversi dubbi, invece, compresa la dimenticanza, nei riguardi di Dio. Io temo si sia perduta (e ora forse Le rispondo; dopo l'involontaria esibizione) la misura del giorno, il segreto elementare delle opere quotidiane ... cioè che si attenti, proprio per miseria e per amore, alla creazione, a quella gioia necessaria (eppure cosa dire degli Apostoli che all'ultima cena non comprendevano il significato del pane?). Tare d'innocenza che la psicanalisi più benevola lascia irrisolte e che il tempo nostro ferma e contraddice secondo la sua sorda taumaturgia.

Io continuo a credere che la poesia non può che udire da vicino, molto da vicino la morte, (dalla vita si differenzia poiché non ne porta la malattia), e proprio per fermarla affinché sia illeso il movimento (la bellezza) che la vita esprime.

E si tratta di malattia mortale, di «possibilità di morte» (come Lei ammette pur augurando maggior forza e 'salute'), dove una legge non oggettiva non può non fare a meno di corrispondervi, attrarre e tutto tradire con frenesia e timore, contro il freddo, gli spettri, la paura, decidendo il contrattempo, l'errore, l'ombra atomica.

Il nostro primo mezzo secolo non si è risparmiato rovine, ora il gioco è più alto, punta allo zero.  Più o meno tutte le coscienze lo avvertono, sentono l'argine di quell'ombra; ma le ideologie da cui le nostre coscienze sono sorrette non coincidono più nel vago, con l'inutile (che furono - ricordiamolo - ieri appena, così disponibili alla brutalità, al dolore); il male era come irriconoscibile, veniva alla resa dei conti per travolgere ... ora tocca il visibile, si fa innocuo, distratto ... noi restiamo tranquilli senza ironia e passione ... la resa risponde ad un calcolo di cui ne conosciamo la somma finale, ma sfuggono le date quotidiane (anniversari?) sulla pagina di un diario inevitabile ...

... conseguenza come distrazione, divertissement (da devertere, latino, l'opposto di quel che intendeva Pascal), la vita può far ben poco! - e dove sarà mai la misura di questa regola fenomenologica ?

Alla curiosità di un giornalista Montale risponde: « ... Bisogna avere il dovere di negare l'accaduto ... non esiste più una distinzione tra vero e falso. E' vero solamente ciò che accade; ciò che accade è vero. L'individuo ormai è una antenna trasmittente: un delitto? Non è responsabile. Un capolavoro? Non ha alcun merito. Il senso del male è oscurato; anzi il male non esiste».

Cerco di tornare un momento indietro per vedere dove il male lascia il segno, rileggo talune Considerazioni sul peccato di Kafka (e come non pensare che qui nascono le prime mosse fortuite verso 'ideologie' dei campi di sterminio e della catastrofe, gli orribile «secondi finir»?):

n. 28 - Quando una volta si è accolto in sé il male

           esso non pretende più che noi si creda in lui.

n. 29 - (secondi fini sono del male),

            poi un'inaspettata resistenza:

n. 51 - Fu necessaria la mediazione del serpente:

            il male può sedurre l'uomo, ma non farsi uomo.

Forse la presenza del male è solo più forte (sfuggono le differenze, i confronti, la finzione dell'alternativa: bene e male) e, si nasconde nella sua stessa forza, sostituisce l'antica meraviglia della bellezza in un emblema da venerare, tanto che condiziona la resa fatale dell'uomo, una resa irresistibile, quel ch'è peggio giocata su numeri di cabale superstizione e dialettiche. La poesia?, lascia segnare da questi acidi la propria pagina e con i suoi cronogramma, referti e plastiche va al mercato della moda: ovviamente la moda non ha più quella dimestichezza mortale, si è, immaginiamo, scaltrita.

E se si usasse davvero il veleno, che lo schermo riporti una volta per tutte la proiezione della figura e mai più la lumescenza spettrale?  Con quale innocua perizia andrà usato questo filtro?  Penso ancora, sul filo elementare dei sentimenti («che morte m'è nel volto già salita») non dell'emozione, come accade.  Eppure molti richiami seguiteranno ad operare il rovescio, un rovescio che ama difendersi per abituarci al male minore, al fastidio al benessere.

Maggio 1963.

 

Composto e stampato nei laboratori

dell' Istituto Statale d'Arte di Urbino.

Linotipista Italo Lizio. Tipografo

Anselmo Luslini - Settembre 1963.