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DON AMATO CINI

FERMIGNANO 1919 - Urbino 1987

 

 

Copia donata a Neuro Bonifazi che a sua volta fece dono della propria biblioteca all'Ass. Prourbino

 

 

Presentazione

di Giorgio Barberi Squarotti

 

Un poeta religioso, in Italia, non può che essere, oggi, un poeta solitario: chiuso, anzi, in una dura solitudine, che finisce a essere un'accanita meditazione con se stesso e con Dio alla presenza delle cose di un mondo che appare profondamente ferito, malato quasi a morte; e il linguaggio stesso avverte la fatica di una comunicazione che sembra non avere destinatari, non trovare più echi, se non precari o remoti, e allora è come preso da una fonda disperazione di dire, fino all'ascesi più strenua. E' il caso di un poeta che amo molto, don Amato Cini, e che ritrovo ora, a non molta distanza dall'ultima raccolta di versi, nella continuità di un discorso poetico che si fa sempre più dolorosa testimonianza della lunga pena della vita come la prova decisiva del coraggio, della capacità di resistere, della volontà di dire per il dovere di rivelare la propria esperienza anzitutto a Colui a cui nulla si può celare, ma anche all'ipotetico ascoltatore fraterno, che pure da qualche parte ci deve essere o che bisogna creare anche se non c'è, facendolo esistere nell'attimo stesso di scrivere i versi.

I giorni del nomade si aprono con una serie di Paesaggi che sembrano uscire un poco dal rigoroso discorso esistenziale di don Amato Cini: sono stagioni, luoghi, anche lontani (due paesaggi greci, ad esempio), momenti della vita che si rivelano attraverso il variare e trasformarsi delle cose della natura; e colline, fiori, frutti, campi, foglie, piogge, tutto è detto con un linguaggio pacificato, come per una lunga contemplazione che appare essere più della memoria che dello sguardo di oggi, come se così, attraverso il ricordo, le cose apparissero come raddolcite anche se sono pur sempre coinvolte nel ciclo di nascita, maturità e morte e se proprio sulle stagioni e sui tempi della fine del ciclo naturale la poesia di Cini si sofferma. Se non che ben presto, anche in questa sezione della raccolta, il discorso poetico si increspa: come nell'immagine della notte resa viva dal vento e dal canto dell'usignolo, e nel sogno del ritorno della bellezza antica, ma «dopo tanto gridare», e allora l'identificazione del poeta con la natura nella sua vita più lieta e segreta sembra accadere al di là della coscienza, addirittura al di là della morte: E il mio sangue fluiva come i ruscelli / quando dai colli dimoia la neve, / e tra i falaschi sui greppi occhieggiano viole, / dopo tanto gridare.

Ecco: la pace è sempre una conquista che sembra possibile soltanto al di là del tempo reale, del dolore presente e vivo, del grido di pena, quando, allora, lo sguardo può posarsi con migliore serenità sulle cose e anche sentirle vive intorno e dentro sé e la parola. E' la stessa situazione detta nel «frammento» Dopo le nubi: quando giunge il vento e porta via le nuvole e la pioggia cessa, ecco che si può vedere ciò che prima era nascosto dalle nubi, come le rose sorprese / del cielo risorto, / invaso di rapidi voli bruni di rondini. La parola, insomma, giunge fino a dire anche la luce e la serenità delle cose, ma dopo aver attraversato il dolore, la tempesta, l'ombra. E' questo il punto estremo a cui la conquista del bene può giungere: la parola che, finito il grido di pena, può di nuovo riempirsi delle apparenze liete del mondo, e rinascere dall'annullamento di sé nel grido, così come rinascono le cose dall'ombra e dal pericolo della rovina.

I Paesaggi, insomma, sono come la testimonianza poetica di una rinascita alle cose e alla vita, là dove le altre due sezioni della raccolta, Notte dei sensi e Per agognati spazi, rappresentano piuttosto le forme e i modi del passaggio attraverso il dolore e l'affanno e anche quella «notte dell'anima» che è il punto di più alta tragicità dell'esperienza religiosa di don Amato Cini. Alla «notte dell'anima» fa ora riscontro la notte del mondo: questa sospensione come sull'orlo della fine in cui si ha l'impressione di sopravvivere in una condizione di estrema precarietà, ma anche in uno dei momenti più rovinosi della storia, in questo «tempo della locusta e del bruco», dove tutto ciò che è bene si sta perdendo e si deve sospendere perchè non venga contaminato: Ora è tempo di porre i sigilli / alla fonte inquinata, / è tempo che intatta rimanga la vergine e lo sposo digiuni / fino a quando non torni a fiorire / la vigna intristita, / e l'usignolo numeroso non canti. La poesia di Cini insiste, allora, su questa doppia esperienza dell'anima e del mondo: entrambi irriconoscibili, come spogliati della propria identità vera, deformati da un'angoscia che, dal cuore, ha finito con il diventare cosmica, chiusi in un enigma che è quasi insoffribile, perchè è, appunto, una perdita di identità che è anche perdita di vita. La voragine del cuore è il luogo, allora, della poesia come sforzo assiduo di fare luce, e ogni parola detta è, infatti, faticoso avvicinamento non già al conforto, alla consolazione, alla tranquillità, che sono improbabili, ma alla luce, alla verità, in un viaggio che deve essere compiuto (nel cuore) per poter trovare l'anello onde pende l'origine / e l'invisibile trama: per sapere, in altre parole, e sapere significa almeno essere giunti a comprendere le ragioni, che ci devono essere, del dolore e dell'angoscia. La poesia è, insomma, un'azione interiore, la voce di un itinerario di conoscenza del cuore che si fa parola perchè così si possa far chiaro a chi lo compie e lo vive e lo soffre fino in fondo. Nel profondo del cuore è lo strazio più profondo: ma non ha significato ancora, se la parola non riesce a dirlo.

Il discorso poetico di don Amato Cini si svolge appunto come un atto di interiore ricognizione e confessione che è anche un atto di timore, di accusa, di difesa, di angoscia, perfino di disperazione: con la consapevolezza, però, che affrontare il viaggio nel cuore con l'intento di dirne fedelmente le tappe, anche quelle più penose, significa portarsi dietro, nella notte profonda, una luce che addita pure una meta, e che la conoscenza del cuore che si raggiunge è già un pegno di fronte all'Eterno. Certo ci sono momenti di più desolata disperazione, come nell'apologo Cicala tardiva: Di tante cicale / che cantarono tutta l'estate / non ne odo che una frinire / di tanto in tanto tardiva e sperduta / tra rami di pioppi. / Inaridita anch'essa / cadrà, / si perderà nella terra come tutte le cose che ebbero un nome, / come tutte le voci / in un silenzio di pietra. Cicala tardiva è la poesia, oggi, in un tempo di silenzio e di pietra: prima, appunto, di quella rovina cosmica che è l'altro punto della meditazione di Cini. Ma ciò che colpisce è la quasi insoffribile lucidità e nettezza dell'apologo. Forse è proprio troppo tardi: ma fino all'ultimo la testimonianza è necessaria. Tutte le voci si perdono nella morte, e la poesia insieme con le altre voci. Saperlo è impedirsi inutili illusioni, è vedere fino in fondo la condizione umana: bisogna, infatti, dire anche sull'orlo e nella consapevolezza del silenzio, dopo, che è il silenzio della morte ma è anche quello del mondo, e bisogna anche sperare non nell'eternità della parola poetica, ma in un'altra, infinitamente compensativa possibilità di riscatto del dolore, del tempo, della malattia, delle delusioni delle cose, del silenzio: Noi non saremmo che ombre dementi, / se domani con le allodole alte nell'aria / non saranno quasi una gloria di rose / le tue ferite, e un bagliore il tuo volto.

Questo è un punto fermo della ricerca poetica di Cini: che va tenuto presente sempre, soprattutto, poi, quando più cupa è la rappresentazione dello stato oscuro dell'anima e del mondo o quando più avventurato e senza una precisa direzione sembra essere l'avvicendarsi dei tempi e dei sentimenti e della vita del cuore come di quella delle acque, delle erbe, delle stagioni (si legga, a questo proposito, un testo come Nel vento). 

La sezione Per agognati spazi propone in modi più ampi e scanditi con solennità ammonitoria la vicenda delle cose edella disposizione del cuore nei confronti delle cose: Il fiume / era chiaro, Notte di pioggia, soprattutto il grande testo profetico che è Tempo della locusta e del bruco, uno dei più alti di tutta la meditazione religiosa dei nostri anni, scandito fortemente nella progressiva chiarezza della rivelazione del giudizio divino nella storia: Saranno presi a un medesimo / laccio / il potente e chi beve / complice al calice suo, / perchè / è il tempo / della locusta e del bruco. Di contro sta la preghiera dolorosa di Vieni stasera da me, con l'invocazione a colui che viene, affinché porti la pace prima dell'estrema angoscia della morte, ma anche «parole di stupore», cioè quel discorso nuovo che non teme di cadere nel silenzio della pietra dopo che il tardivo poeta si è inglobato nella terra assieme con tutte le altre voci del mondo e dopo che il poeta ha verificato (leopardianamente e con una purezza sublime di dettato) che non rimane di tanti imperi / che qualche colonna spezzata. / Non / più di tanto di questa stagione / orgogliosa e violenta, / labile / traccia sull'arena del mare.

La poesia di Cini oscilla fra l'ampia eloquenza profetica dei testi più distesi e il ripiegamento sempre più nudo e spoglio ed essenziale sulla meditazione, sulla sentenza, sulla rivelazione dell'anima oscura, ferita, dolorosa, ma fatta consapevole della verità del mondo (rovinosa e cupa e dominata dal fuggire del tempo e dallo scomparire di ogni forma nel suo opposto, dal disfarsi della luce e delle foglie, dal ciclo inesorabile che rapidamente travolge la natura e l'uomo verso la morte).Stanno in qualche modo a parte gli ampi testi dedicati a Giuda, a Giobbe, al Canto del nomade, che invoca l'«Assente Presente», l'«Abisso delle mie domande»: ma sono in realtà anch'essi testimonianza del modo in cui Cini utilizza modi e modelli biblici in forme del tutto originali e immediate (senza,cioè, la mediazione di altre culture, come quella anglosassone,così sensibile alla memoria biblica). Anche questa è una conferma dell'altissimo valore poetico e religioso della poesia di don Amato Cini: anzi, di quel rarissimo miracolo per il quale le due esigenze e i due discorsi (poetico e religioso,appunto) perfettamente si integrano in un risultato che rimane un acquisto definitivo e fondamentale della nostra coscienza e della nostra vita, oltre che della nostra cultura.

Giorgio Bàrberi Squarotti

 

INDICE

N.B. Cliccare sulle voci sottolineate

 

pag.

 Titolo

5

Presentazione

9

Negligenza operosa

                Paesaggi

13

Settembre

14

Dicembre antico

15

Quasi foglie

16

Colline deserte

17

Silenzio

18

Notte di pietra

19

Rodi

20

Capo Sounion

21

Sirmione

22

Passo del Furlo

23

Dopo tanto gridare

24

Dopo le nubi (frammento)

 

Notte dei sensi

27

Enigma

28

Invano l'allodola canta

29

Analogie

30

Potevi essere un'oasi, luna

31

Convalescente mio cuore

32

II cerchio di Giotto

33

Come ombra

34

Se fossi un samaritano

35

Cuore-abisso

36

Ninfa

37

Biglietto a Mirtilla

38

A Mirtilla

39

Radici morte

40

Cicala tardiva

41

Fiori lutulenti

42

Insidia nei prati

43

Odore di giorni lontani

44

Se domani

45

Nel vento

 

             Per Agognati spazi

49

In fuga con gli astri

50

Quando... il fiume era chiaro

52

Notte di pioggia

54

Maschera

55

Viene stasera da me

56

Se avessimo le mani di un dio

57

Tempi della locusta e del bruco

59

Parasceve

60

Uomo armato e impotente

61

In memoria di Aldo Moro

63

Di nube nera un sudario

64

Labile traccia

65

Per giorni più umani

68

Giuda di Kerioth

72

L'ultimo canto di Giobbe

75

Canto del nomade

79

Per agognati spazi

 

 

 

INIZIO PAGINA

 

Poesie da: I  giorni del nomade

 

 

SETTEMBRE


E veniva il settembre
con scrosci di pioggia e squarci d'azzurro,
e il tramonto imminente cedeva
alla luna chiara sui tetti,
e già dormiva la chiocciola
tra ciuffi umidi d'erba,
dormivano i galli
appollaiati sulle fratte dei bossi,
dopo tanto cantare sull'aia,
ma il riccio vegliava,
prosperava sotto i vigneti. Venivano
folate di vento folte di odori maturi,
e prima che tutte le cose
cadessero nel sonno invernale,
ridevano d'un riso un poco malato
tutte le foglie per l'ultima festa. 
 

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COLLINE DESERTE

In queste colline deserte di gente
che la fame ha disperso mi perdo
per nebbie riservate all'assenza
tra case segnate per lungo e per largo
da crepe. Intorno esala ancora un odore
asprigno di stalle, e il vento geme e si aggira
per stanze e solai, discende giù dal camino,
traccia rauco orme bizzarre su resti di cenere,
memorie di povere cene e stanchezze mortali.


Anche mi perdo tra tombe e lapidi sparse
che spaccano radici di rovi e cipressi,
penetrano i crani dei morti e ne mordono i nomi.


Un passero intristito dal freddo
spia tra i rami, e il cuore si gela,
e tutta la vita mi cade

 

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COME OMBRA


Un altro giorno mi fugge
come l'ombra proiettata
sul selciato arso dal sole.

Fugge l'ombra,
fugge il mio cuore
in un tempo senza più tempo.

Anche l'albero
aggrappato alla terra fugge,
e di ogni canzone
neppure
un'eco rimane.

 

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NINFA


Torna un tempo di tortore e rondini brune,
e tu, ninfa, ritorni come al di là d'un velario,
nell'onda di un carme d'Orazio, ma tu non ricordi,
o ad altro intende il tuo cuore,
o forse tu mai sei vissuta
se non nel mio sogno,
da tanta lontananza mi giunge il tuo ritmo.


O fatta d'aria, tu eri la nuvola rosea alta
sul prato, la menta e lo spigo.
Chiara come la luce di giugno,
mito delle cose più rare,
sei ora nel mio tramonto una rondine
che cinge, quando lo stormo è partito,
d'un ultimo giro le cupole azzurre,
o una rosa tardiva
che sembra fermare l'estate in declino.


E mi è grazia sapere
che in qualche parte del mondo
danzarono un giorno le ninfe.
 

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MASCHERA


Dormire - tu dici - con l'ansia
di accorciare la notte
e rivedere l'alba che t'aveva deluso.
Invece anche domani
l'alba
ti porterà un simile giorno d'azioni scontate,
di vecchie parole, e gli umori di sempre.
Ma tu, come automa,
ritorni alla stessa torbida fonte,
ti aggiri per le solite strade,
saluti, maschera, le maschere eterne.


E ti coglierà finalmente la morte
vagabondo nella steppa,
e nessuno ti degnerà d'uno sguardo,
ugualmente fioriranno le siepi
che la tua mano ha sfiorato.
 

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UOMO ARMATO E IMPOTENTE

Dimensione impietosa della nostra stagione,
uomo dagli occhi aperti su mondi
che ti franano sempre,
uomo armato e impotente,
impassibile e senza stupore,
uomo terribile all'uomo,
violenza frontale,
uomo dello spazio senza più spazio,
dalle mille voci senza una voce,
contaminato da morte
che tu stesso nutri e dilati,
creatura di luce colma di tenebre,
sei l'enigma, la tragedia del vuoto
che s'allarga sempre in lande
di ombre e di sabbie.

Chi ti potrà salvare,
creatura ebbra di sangue,
creatura stonata
come un cembalo rotto?
 

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GIUDA DI KERIOTH

E poi che Giuda gettò le monete d'argento
nel tempio, prezzo del sangue tradito,
sotto livido cielo gridava nel vento:
«Non udirò, Gesù, gemere il sangue
dalle tue ferite, io non vedrò la tua morte,
Gesù che hai scoperchiato le tombe,
e non puoi salvare te stesso.
Ti ho seguito perché stava scritto
che venivi armato di scure e tridente.
Eri il Messia dei miei desideri,
e io avrei cavalcato al tuo fianco, avrei
sterminato le schiere di Gog e di Magog.
Invece tu non cingevi la spada.
Periva al tuo avvento il dio del fulmine,
e la forma dell'uomo saliva al vertice suo,
perché tu eri il vento cosmico e il sole,
l'incontenibile mare, io l'afa stagnante
d'un punto presuntuoso del mondo.
Tu amavi il mare aperto e il deserto.
Io ebbi paura del mare, disdegnai il deserto.
Come avrei potuto seguirti?

Alla folla che ti voleva sul trono
rispondevi con fughe, e dicevi
che l'uomo è signore a se stesso.
Come potevo seguirti, se amavi
più del popolo mio le donne straniere,
se avevi pietà dei romani violenti?

Ti ho veduto passare più alto dei cedri,
ma stanotte sei stato pietra d'inciampo
perché ti ho udito plorare,
implorare
chi ti poteva salvare e non volle,
quando baciai con un bacio di morte
il tuo volto di sangue al plenilunio deserto.
Aspettavo che dodici legioni di angeli
irrompessero in tua difesa,
ma tu sdegnavi la spada,
rifiutavi d'essere principe
d'una folla obbediente,
che adorasse Dio nel tempio,
perché Egli - dicevi - non abita
case di pietra,
è casa a se stesso e abita il vento.


Ora l'anima mia è una landa di urli,
inaridisce il mio cuore come erba sui muri
al sole d'estate,
perché tu sei la tenebra e il sole,
tentarti è rischio di morte.


Io solo conobbi il mistero
che nutrivi nel sangue:
per me tutto senso non eri il Messia glorioso,
eri l'utopia fatta possibile,
nuova stagione e gloria
disarmata di Dio, e avevi sul volto
la calma distesa del lago
e il fulmine dell'ultimo giorno.
Non fu vento né tuono come il tuo grido,
nè brezza come le tue parole.
Ma può l'abisso aprirsi alla luce?


Ti tradiranno i tuoi preti nel tempio
che non hai reclamato,
ti faranno simile a loro
privi di nervi e di fiamme,
vestiranno le tue parole
dei propri umori, delle proprie disfatte,
e tu sarai un terribile o facile dio,
come tutti gli dei delle genti.


Ti tradiranno i principi
nel nome tuo e del popolo,
ti faranno bandiera di sangue e sterminio,
e ti chiameranno Pace e Giustizia
per prendere al laccio il colombo
e scavare al cieco una fossa.
E quando saranno i paesi segnati
dal marchio bestiale, e centauri
correranno la terra
a proclamare immortale la mia semenza,
sarai cacciato come straniero,
e in te spegneranno il volto dell'uomo.


Ora, Gesù,
bruciato ugualmente da amore e da odio,
infranto sulla pietra tentata,
vado incontro al mio destino,
e tu dissanguato, stasera penderai dalla croce.
E saremo per sempre segni di venti
contrari, pietre di tentazione e contesa,
fino al giorno in cui splendido e solo
tornerai sulla terra,
sull'acqua del mare
tra quelli che intendono
il ritmo dei giorni e i segni del cielo,
tra quelli che avranno fede ancora nell'uomo.


Questo io dico, Giuda di Kerioth:
non sorgerà simile a me altro nato di donna
così colmo di tenebra e luce,
e non verrà sulla terra altro Cristo,
perché ora e per sempre,
ogni parola è compiuta
tra vertigini di cieli e di abissi».
 

 

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