CRONACA  DELLA SPEDIZIONE AL PICCO LENIN  1967

PAMIR 1967

Nel '63 ero stato nel Caucaso in occasione del primo scambio tra alpinisti sovietici e italiani. Per la mia conoscenza del russo ero diventato una specie di intermediario tra alpinisti russi e italiani. Io scrivevo di alpinismo sull'Unità, ed essendo la spedizione al Picco Lenin diretta nel cuore dei "Paesi del male" nei miei riguardi non ci furono le solite lettere anonime che mi avevano perseguitato in altre occasioni con l'accusa di essere un pericoloso comunista. Non ricordo con esattezza come si sia arrivati all'organizzazione della piccola spedizione italiana al Picco Lenin formata da tre alpinisti: Nino Oppio, Giorgio Gualco e il sottoscritto. Fummo aiutati anche dall'accademico del CAI Dall'Oglio che ricopriva una carica importante presso la Snia Viscosa, aveva lavorato in Unione Sovietica, aveva la moglie russa e, ovviamente, conosceva tanta gente.

Sapevamo che la nostra meta non presentava particolari difficoltà tecniche; comunque si trattava di un 7000 di tutto rispetto per cui ci preparammo bene con varie ascensioni oltre i 4000 metri. Oppio aveva 61 anni, io 43, Gualco qualche anno meno; di noi solo Nino Oppio faceva parte di quel Gotha dell'alpinismo italiano che e il Club Alpino Accademico.

Con diversi voli in aereo arrivammo a Osh, in Kirghisia. Trecento chilometri di strada sterrata, incassata tra due pareti di terra rossa separavano la Valle del Transalai da quella cittadina che pareva essere l'ultimo avamposto di un mondo più o meno conosciuto con dietro il mistero. In quel corridoio infinito mi tu vietato fotografare. Dovetti accontentarmi di guardare quelle torri rosse maledicendo in cuor mio tutti i signori della guerra di qualsiasi paese fossero. La Cina non era lontana; nei rapporti tra l'URSS e la Cina diventavano sempre più evidenti le incrinature.

Gli amici russi cercavano di consolarmi dicendo che quel paesaggio era "unyloe" (monotono, triste, malinconico) e che tutto sommato non valeva la pena fotografarlo. Non riuscivano nemmeno a capire il perché di quel mio malumore mentre continuavo a guardare quel paesaggio che loro consideravano insignificante.

Non so se il racconto fotografico che qui presento da un'idea delle impressioni da me raccolte durante quel periodo, se fa capire il mio atteggiamento verso gli ambienti e le persone con cui sono entrato in contatto. Con le fotografie parlerò della vita nei campi organizzati alle diverse altezze, dai 3600 metri del campo base ai 6800 (mi pare) dell'ultimo campo. II nostro arrivo in vetta e illustrato con una foto, probabilmente ripresa da qualche amico russo, dove si vedono i tre italiani talmente coperti da risultare irriconoscibili. Con le fotografie parlerò di cavalli e cavalieri, di jurte e di gente che nonostante i camion e le macchine da cucire sembra vivere in un'altra epoca.

La mia amica Nora Monticelli che da quelle parti si recò qualche anno dopo mi disse che anche lì era arrivato il dio dollaro, e anche la gente non esitava a chiedere oggetti occidentali in cambio di qualcosa. Non so poi che cosa può essere capitato da quelle parti dopo il disfacimento dell'Unione Sovietica. Per la gente del posto la Cina, comunque, non era certo un polo d'attrazione sia per considerazioni religiose, sia per considerazioni etniche. Mi dissero che gente dal Sinktang cinese si era rifugiata nell'URSS per fuggire dalla politica (o pulizia) etnica cinese.

Anche nel testo scritto dividerò in qualche modo la parte alpinistica dai rapporti che si ebbero con gli abitanti del Pamir.

 

Gli alpinisti

II campo base venne oganizzato su una spianata a 3600 metri. Se non sbaglio eravamo circa 300 alpinisti, uomini e donne arrivati lì da tutta l'Europa. C'era una grande tenda per la mensa e le tende delle varie squadre "d'assalto" erano disposte in file Ordinate. I servizi non dovevano essere particolarmente attraenti perche le varie squadre cercarono intorno al campo dei posticini tranquilli dove arrangiarsi. I numerosi laghetti morenici che circondavano il campo erano quanto di meglio si potesse trovare per lavarsi.

I pasti nell'attendamento consistevano soprattutto in carne di montone. Di pecore intorno ce n'erano tante e vicino alla cucina il terreno era disseminato di teste di quelle povere bestie decapitate.

Dicono che le pecore non siano particolarmente intelligenti ma l'episodio al quale assistemmo fa pensare che nel petto questi animali possa battere anche un cuore tutt'altro che rassegnato ai soprusi del cosiddetto “Homo sapiens" (sarebbe stato più appropriato chiamare "belua maxime stulta" l'essere dannoso per se stesso e per gli altri come dimostrato dal tutta la sua storia). Quattro di questi simpatici animali avevano capito che era arrivata la loro volta per finire nelle pentole della cucina dell'Alpiniade Internazionale del Cinquantenario (1917-1967). Le quattro bestiole filarono via dal campo e si erpicarono su per i ghiacciai. Col cannocchiale le potemmo vedere stagliate sulla cresta di un picco alto più di 5000 metri. Che ne sarà stato di loro? Si potrebbe scrivere un bel racconto dove si narra di una nuova razza di pecore selvatiche del Pamir originata da quella fuga storica. Troppo bello per essere vero!

 

La tecnica di acclimatamento stabilita per l‘assalto al Picco Lenin era la seguente. Si saliva dal campo base al primo campo superando un colle faticoso. Si piantava la tenda, si passava la notte e si tornava. Si saliva al secondo campo mille metri più in alto e si tornava ancora al campo base. II terzo e penultimo campo venne stabilito a 6200 metri e anche di lì si dovette scendere fino al campo base per poi risalire fino all'ultimo campo e alla vetta.

Ricordo che quel ritorno oltre duemilacinquecento metri più in basso era difficile da digerire soprattutto perchè come ciliegina finale c'era da salire fino al colle di ghiaino compatto da cui poi si scendeva faticosamente verso l'accampamento. Forse però avevano ragione gli organizzatori a imporci quella tecnica di acclimatazione perchè chi la seguì rigorosamente non ebbe guai e raggiunse la vetta alta 7134 metri mentre qualche temerario che per tenere alto nome e prestigio aveva cercato di accelerare i tempi di salita dovette essere trascinato in coma sulla neve per salvarlo facendogli perdere quota il più rapidamente possibile. Comunque nell'Alpiniade del Cinquantenario non si verificarono incidenti mortali mentre l‘anno dopo morirono otto donne che a oltre 6000 metri di quota si trovarono senza più la tenda strappata dalla bufera; per il tempo infernale nessuno poteva andare a soccorrerle. Quelle poverette erano munite di una rice-trasmittente e la loro voce fu sentita fino all' ultimo da chi avrebbe voluto accorrere in loro soccorso ma era bloccato dall'uragano.

L'ultimo campo. a quanto ricordo. venne piazzato a circa 6800 metri, poco sotto il grande pianoro di neve da cui si attacca la vetta del Picco Lenin. Dentro la tenda il nostro termometro segnava 17 gradi sotto zero. Ci infilammo nei sacchi a pelo senza nemmeno togliere gli scarponi. Il vento sbatteva la tenda con spari che parevano schioppettate e ci buttava addosso la condensa del nostro fiato.

Ricordo che dall‘ultimo campo alla vetta mi pareva di galleggiare. come se il mio corpo non avesse il solito peso da tirar su quando si sale in montagna. Anche le funzioni fisiologiche erano come represse: niente fame e nemmeno certi bisogni normali di qualsiasi essere vivente. Ricordo che dovevo rispettare il ritmo delle respirazioni che mi era stato consigliato per ogni passo che facevo. A quell'altezza non c'e più l'automatismo tra ritmo respiratorio e fatica cui noi siamo abituati.

In vetta sotto il medaglione di Lenin mi offrirono un pezzo ji cioccolato che io mangiai. Il mio corpo allora si risvegliò e vomitai tutto quel poco che avevo dentro. In complesso però me la cavai bene perchè mi bastò scendere dalla vetta sull‘altipiano di neve sottotante per sentirmi un leone (si fa per dire). Quello che trascinavano come un fagotto mi pare fosse ungherese.

Indimenticabile il "culemark" da circa 6500 metri, poco sotto l'ultimo campo, a circa 5500 metri, poco sopra il secondo campo. Si piazzava qualcosa sotto il sedere e giù di volata per quel solco scavato nella neve da tanti altri sederi (o culi che dir si voglia). Davvero entusiasmante quella scivolata senza slitte o sci. Mille metri di discesa senza fare fatica, con in tasca la vittoria, con la consapevolezza di aver vissuto qualcosa di straordinario.

La notte sul ghiacciaio al Primo Campo. Il rombo del ghiaccio che si spaccava, le stelle nitide nel ctelo senza nubi, l‘insonnia. Non avevo mai provato quell‘insonnia totale e assolutamente lucida.

Il “Campo delle Cipolle" non era molto lontano dal campo base. Quando si passava di lì si raccoglieva quell‘erba che sapeva di cipolla per metterla nel rancio. La brigata degli alpinisti vittoriosi, scesa faticosamente dalla forcefla che separava il campo base dal ghiacciaio, venne fermata al Campo delle Cipolle" per ordine superiore. Al campo base stavano preparando per noi un'accoglienza trionfale. Eravamo stanchi, avevamo una voglia matta di cacciarci nelle nostre tende... Invece si doveva aspettare. e si trattò di un'attesa che durò parecchie ore. I russi si dimostravano sempre straordinari nei loro comportamenti per noi piuttosto misteriosi.

L'aecogIienza trionfale ci fu con tutti i brindisi a base di vodka, ma francamente nella mia memoria non è rimasto nulla di quella festa finale, niente di paragonabile col ricordo della scivolata di mille metri e della notte insonne sopra il ghiacciaio.

Guardando la foto dell'alpinista a torso nudo che sembra un "Pirata della Malesia" mi sono ricordato come i russi stessero sempre seminudi mentre noi italiani continuavamo a vestirci e svestirci; infatti quando c'era il sole faceva un bel caldo. ma bastava che una nuvola lo coprisse e faceva un freddo dell‘accidente. In compenso nessuno di noi italiani si buscò la tosse mentre i russi tossivano in continuazione scatarrando a più non posso.

 

I Kirghisi

Con la gente del posto per noi dell'Aipiniade non fu difficile prendere contatto. Innanzitutto si dipendeva da loro per i rifornimenti di carne. Non lontano dall‘accampamento si trovavano alcune jurte dei kirghisi e qualche curioso del posto cominciò subito ad avyicinarsi per osservare i nostri movimenti.

i le visite si fecero man mano più frequenti. La mia conoscenza de! russo mi permetteva di pariare perche quella lingua era abbastanza ben conosciuta dal Kirghisi che facevano parte dell' URSS.

Fu un'esperienza interessante. Ricordo che stavamo aspettando l'autocarro che ci doveva portare da qualche parte ed eravamo seduti sull'erba sulla riva del Kysel Su (il Fiume Rosso che deve il suo nome al colore deJI'acqua carica della terra rossa di cui sembrano fatte quelle montagne). Cerano attorno parecchi kirghisi.

Un giovane col tipico cappeflo da Gengis Kan mi spiego che lui d'estate stava lì nell'Alai a fare il mandriano, poi, quando aprivano le scuole, insegnava tecnologia in un istituto superiore di Frunze, la capitale della Repubblica Sovietica di Kirghisia.

Un vecchio con la faccia da mongolo mi chiese se volevo scambiare i miei occhiali con i suoi. Gli spiegai (forse con una certa aria di sufficenza) che i miei occhiali erano da miope (sottintendendo che non potevano andar bene per un anziano come lui). Mi disse che anche lui era miope. Aveva un paio di occhialini con la montatura metallica sottile che pareva quella dei nostri nonni. Non so perchè non accettai di fare quello scambio; i miei, tra l'altro, erano occhialacci da quattro soldù con la montatura in plastica.

AI campo c'era anche Tinterprete kirghiso che appunto doveva curare i rapporti tra i responsabili russi dell'Alpiniade e la gente del posto. Non era un tipo simpatico e con lui ebbi un autentico scontro professionale che merita di essere raecontato.

Avevo fatto amicizia col veterinarlo del posto, un uzbeko assiduo frequentatore del campo, evidentemente per motivi professionali. Fu lui a dirmi un giorno che l'indomani a circa quattro chilometii dal campo si sarebbe svolto l' "ulag", uno spettacolo che meritava di essere visto: decine di uomini a cavallo si sarebbero contesi il corpo di un agnello. Vincitore sarebbe stato quello che avesse portato l'agnello morto al traguardo stabilito.

Si trattava di uno spettacolo unico, descritto da qualche viaggiatore che si era trovato in Afganistan e in altri posti dell'Asia Centrale abitati da allevatori nomadi. Io feci passare la voce che si diffuse per tutto il campo.

L'interprete kirghiso venne a conoscenza della cosa e si incazzò. Mi accusò di mettere in giro voci false e disse che la storia dell' "ulag" era una balla altrimenti anche lui avrebbe saputo che nei pressi del campo sarebbe accaduto un fatto tanto importante e ne avrebbe quindi informato i capi dell'Alpiniade. Certo era abbastanza strano: io, forestiero venuto da chissà dove, ero stato informato dalla gente del posto su un avvenimento eccezionale, mentre a lui, kirghiso D.O.C., con la faccia da mongolo, nessuno aveva detto nulla. Forse al suo posto mi sarei incazzato anch'io, ma lui doveva essere antipatico anche alla sua gente magari perchè, essendo l'interprete ufficiale e il responsabile del collegamento tra i russi del campo e la gente del posto, in fondo rappresentava il "potere", magari non troppo amato.

Comunque il giorno dopo una bella fila di alpinisti si avviò verso la località indicata dove l'"ulag" sarebbe dovuto cominciare (almeno secondo il veterinario uzbeko) verso mezzogiorno. I quattro chilometri divennero in realtà almeno otto e quando arrivammo sul posto non c'era anima viva.

Già pensavo alla figura che avrei fatto e al ghigno ironico dell'interprete kirghiso quando cominciarono ad arrivare i primi cavalieri.

E l'"ulag" ci fu e fu qualcosa di indimenticabile che le mie fotografie non riescono a rendere nella sua grandiosità.

L'altipiano con le montagne di ghiaccio lontane. I cavalieri scalmanati che si rincorrevano, si urtavano, si frustavano. Il rischio di essere travolti era alto, perchè quelli a cavallo non vedevano altro che l'avversario al quale dovevano strappare l'agnello ...

Tornammo tutti al campo felici, soprattutto quelli che avevano portato con se la macchina fotografica. Giorgio Gualco ha fatto delle foto magnifiche sull'"ulag".

Quella sera non mi pare di aver visto nemmeno l'ombra dell'interprete uzbeco per il quale avevo tenuto in riserva almeno mentalmente quel famoso gesto non troppo gentile ma pieno di significato. In milanese si direbbe: "To, ciapa su e cito!" (Prenditelo e sta zitto!)

All'ospite d'onore della jurta veniva offerto in segno di grande rispetto l'occhio del montone. Io ero l'interprete ma Nino Oppio era l'anziano della compagnia italiana, era Accademico del Club Alpino Italiano e, quindi, era il nostro capo spedizione. Toccò a lui mangiarsi l'occhio del montone mentre gli altri con loro grande sollievo dovettero "accontentarsi" della carne di pecora cotta alla brace. Intanto la brocca col "kumys" (siero fermentato di latte di cavalla) faceva il giro di tutte le bocche europee e asiatiche. II "kumys" (evidentemente la stessa bevanda chiamata "cumisi" da Marco Polo passato da quelle parti qualche anno prima di noi) mi ha lasciato una buona impressione di bevanda fresca e dissetante. Dicono che il "kumys" sia leggermente alcoolico, ma io non me ne sono accorto forse perche troppo abituato alla spremuta d'uva fermentata.

 

 

Ritorno.

II ritorno a Osh non fu privo di awenture. Il Fiume Rosso era in piena e i camion non potevano guadarlo senza il rischio di rimanere in panne nell'acqua. Mi pare che si dovette aspettare un trattore per far passare i nostri mezzi di trasporto non precisamente confortevoli. L'acqua arrivava a toccare il cassone dove noi, gli eroi reduci dalla vittoria sul Picco Lenin, eravamo seduti su dure panche e non eravamo certo tranquilli con quell'acqua tutt'intorno che correva veloce facendo un'infintà di mulinelli.

Non ricordo dove e perchè ci fecero trasbordare su un autobus guidato da un pazzo. Non sono nemmeno sicuro si ci fu davvero quel trasbordo, o se nella mia memoria il camion si sia trasformato per incanto in un autobus vecchiotto e sgangherato. Comunque il pazzo che guidava me lo ricordo bene anche perchè gli scossoni, i sobbalzi della macchina sul fondo duro di una strada che sarebbe stato meglio definire "mulattiera" mi facevano soffrire da maledetto. Le emorroidi di cui soffrivo erano come esplose e le mie brache erano inzuppate di sangue.

L'autista ogni tanto decideva di accorciare la strada e tagliava i tornanti giù per la scarpata. Certo doveva essere un autista molto pratico del suo mezzo e delle strade di montagna altrimenti l'autobus (o il camion) sarebbe certamente finito in fondovalle e io non starei qui a raccontare la storia.

A questo punto si chiude il sipario dei miei ricordi. La cena d'addio a Osh, la visione della città e dei suoi abitanti sono rimaste solo nelle mie fotografie.