[bambino imbacuccatoassiste immobile al mutare delle stagioni]

     

DISCORRO CON UN AMICO ARTISTA

Pino Mantovani   (*)

Mi dice che è stufo di discorsi sulla pittura, che gli importano solo i pittori, quello che fanno, come lo fanno, perché insistono a fare. Ma chi è il pittore? Per cominciare, il pittore è un uomo che si rapporta al mondo come se il mondo fosse una opportunità per vedere: il pittore si concentra su ciò che si rivela anzi esiste, per lui almeno, attraverso lo sguardo. Egli, però, non è un visionario: il suo sguardo è attivo, cioè capace di "mescolarsi alle cose, di animarle, di risvegliarle dal loro letargo, di staccarle dal fondo opaco e inerte nel quale sono immerse per attirarle nel [proprio] fuoco..."(da Ettore Chinassi, che sintetizza Merleau-Ponty). Dunque lo sforzo del pittore è dedicato a rendere visibile la visione, affinché coinvolga sguardi ulteriori. E allora si apre il dilemma: se il pittore possa utilizzare solo certi mezzi per dare credito alla sua visione, o niente gli sia vietato. Un discrimine potrebbe essere che la pittura è legata al corpo, non solo attraverso l'occhio: la mano, il gesto, la voce, e intimamente la temperatura, il respiro, il battito cardiaco ne costituiscono il fondamento. E nel proprio corpo che il pittore trova il motore di qualsiasi operazione che abbia il fine di tramutare la visione in oggetto pittorico, rendendo plurale una esperienza singolare. Quindi non sono certe materie e tecniche a definire la pittura, ma l'essenziale radicamento dell'operare nel corpo. In un certo senso, la pittura è primitiva, qualsiasi strumento usi, anche il più sofisticato. Essa è fondata sulla scoperta di sé e dell'altro, e sulla intenzione di condividere la scoperta.

Sempre il mio amico pittore, che ora possiamo chiamare Gianni Del Bue, insiste che lui ha necessità di sorpresa, di stupore, d'essere tramortito dalla meraviglia. Non sapeva che cosa fosse il mare (ciascun aspetto del mare) o l'albero o la casa (quest'albero, questa casa...), la neve (tutte le forme della neve), la nebbia e le nuvole, come tutti i fenomeni dell'aria particolarmente sfuggenti, finché non ha imparato a "farli"; non sapeva che cosa fosse la profondità, fintanto che non ha capito come si dipingesse, velo su velo; non conosceva la luce, fin quando Piero della Francesca non gliel'ha rivelata, e lui, provando e riprovando, non l'ha scoperta nella certezza di una figura dipinta. La soddisfazione sta nell'aver portato all'evidenza oggettiva il proprio desiderio, non senza fatica. La "creazione", peraltro, non si esaurisce una volta per tutte. Nulla vale per sempre, ogni volta si ricomincia daccapo; perché l'atto creativo è legato all'esperienza, al modificarsi e all'approfondirsi dell'esperienza, quanto è condizionato dalla sapienza. Il grande Cézanne sa fare almeno quanto sa di non saper fare, o meglio sa che fare è sempre imparare a fare. Di qui la necessità della fatica, dell'amore per il lavoro, della pazienza. "Anch'io - mi dice Gianni - voglio mettermi alla prova. Tutte le abilità che posseggo e che sono venuto affinando nel tempo, devo poterle rovesciare nel mio fare presente, nel fare presenti le cose. Sono le cose a generare emozione; non è la mia emozione che trasmetto, ma la cosa che mi ha emozionato e che io ti mostro così che tu a tua volta possa responsabilmente provarla e trarne emozione. Certo, ho qualche merito, perché la cosa non è facile vederla, e quando io te la mostro è attrezzata per essere ri-vista. Dico vista, ma devi convincerti che vedere è afferrare, tenere in mano e riscaldare quanto serve. Come è stato affar mio, sarà tua responsabilità trattenerla almeno un po', senza illusioni di possesso definitivo. Le cose sono capricciose: spesso ne cerchi una e ne trovi un'altra. Io, tu... siamo vivi nel senso che siamo mobili tra cose mobili: ognuno, per non andare in confusione, deve mettere a punto una sua strategia. Io, per esempio, mi muovo in modo concentrico. Non sono un cacciatore da battuta, nemmeno un cacciatore da posta, procedo da solo con circospetta prudenza; avvicinandomi alla preda (visione) poco alla volta, cerco di sorprenderla, la mia arma è di gittata breve, non mi posso permettere distrazioni. Imparo a perfezionare i gesti, fino al punto di riuscire, per così dire, a identificarmi con la preda; e infatti io la amo, la preda: è attraverso questo amore che essa rivela il suo nucleo di senso, si rivela allo sguardo incantato. La seduzione è il centro di tutto.

Quello che ti sto dicendo, lo puoi verificare nella scelta dei materiali e dei procedimenti: per anni ho usato la tela, addirittura tela a maglia larga, che raccoglie gli interventi davanti e dietro. Questo mi serviva per avvolgere, circuire le cose che presentavo e introdurre una gamma di approcci diversificati, come serviva a differenziare le cose. Inoltre, sulla trama del supporto, articolavo le cose "semplici" in cose più complesse, in storie composte di parti differenti non incompatibili. Adesso uso la tavola, che non concede approssimazioni pittoricistiche, e lavoro con pennelli piccoli che di-segnano, cioè distinguono e organizzano con piena responsabilità. Insomma non ho rinunciato a tessere, ma non delego la tessitura al supporto o ad altro: la tessitura mi è sempre necessaria, perché è nelle intercapedini del "tessuto" che l'aria gira, che il corpo si allarga, che il respiro diventa cosmico. Questo lo sa Piero della Francesca, lo sa Vermeer, lo sa Morandi come Mondrian, lo sa Canova che fa respirare e danzare il marmo".

Di queste cose, sono sicuro, discutono i "filosofi" di Gianni Del Bue; non ne discutono, perché le sanno per scienza infusa, le oche. Un bambino imbacuccato, di spalle, assiste immobile al mutare delle stagioni

(*)  Pittore e critico, docente presso l'Accademia Albertina di Torino