[Tipico panorama urbinate in direzione di San Sepolcro]

 

NEL PAESAGGIO DI PIERO

Carlo Sisi  (*)

 

Attraverso Piero della Francesca e la sua visione atemporale della figura e del paesaggio, Gianni Del Bue si era avvicinato a Urbino già negli anni Settanta quando i profili di Battista Sforza e di Guido da Montefeltro avevan suggerito al pittore emiliano temi figurativi alla sua stagione più 'concettuale', sagome diafane stagliate su superfici di toni dilavati e quasi galleggianti sulla traccia sbiadita del tempo. Nel riconsiderarli accanto agli esiti stilistici contempora­nei, quei dipinti hanno il sapore di tenui sinopie annuncianti i pensieri sulla forma che Del Bue svilupperà in seguito raccogliendo nel suo laboratorio il lessico fantastico e insieme ironicamente allusivo a persone e fatti della vita quotidiana, in un amalgama che appunto ammette la convivenza di nobili modelli del passato, vivaci istantanee dell'oggi, impreviste apparizioni di og­getti spaesati.

Le ricordate citazioni pierfrancescane erano intrise del resto d'una gio­cosa dissacrazione imparentata con i linguaggi di certe avanguardie: penso, a proposito delle sovraimpressioni pre­senti in Montefeltro con signora (1978), alle enigmatiche sa­gome concepite da Duchamp per aiutare le tormentate vicende dei suoi célibataires, ma anche ai più lancinanti ritagli delle composi­zioni di Carol Rama qui però consegnati all'azzardo surrealista che riappare in declinazione magrittiana nel librarsi del copricapo in Al Duca di Montefeltro (1973). Se ne ricava quindi che l'avvicinamento a Piero invece di invogliare all'analogia formale aveva sollecitato Del Bue a sperimentare, in quel frangen­te, la parafrasi concettuale, in anni fra l'altro predisposti alla traduzione pop di solenni testi del passato — si vedano, per fare un esempio, le variazioni su Michelangelo di Tano Festa — mentre appare subito evidente l'attrazione eser­citata sul nostro artista dal modello rinascimentale, che a partire dagli anni del 'ritorno all'ordine' fu quello maggiormente imitato e coltivato in virtù della sua aura metafisica naturalmente predisposta a legittimare il 'realismo magico' perseguito dai pittori del Novecento sarfattiano. E dunque frutto di coerenza culturale e stilistica la successiva passione di Del Bue per la pittura di Mantegna e per i consolidati volumi di santi e paesaggi che il pittore mantovano dissemina nelle sue opere, attingendo ad una varie­tà di immagini tale da costituire un ricchissimo catalogo di preziosi dettagli per l'artista moderno capace di ricavarne suggestioni e licenze. Una mostra del 2006, 'Le oche del Mantegna', ha dato conto di tutte le possibili declina­zioni espressive consentite dall'esercizio della citazione: questa volta affidato alle tornite volumetrie che Del Bue sovrammette al modello quattrocentesco popolando di singolari intrusioni le rocce e gli edifici della mitologia mante-gnesca sacra e profana, con esiti che riconducono l'ironia metafisica dei primi innesti pierfrancescani alla figuratività magica che dalla tradizione di Novecento giunge sino all'oggettività apparentemente candida degli ultimi lavori. Il ritorno a Urbino, che è anche il titolo di un quadro in mostra, sottolinea la coerenza di un percorso e il consolidarsi d'una vocazione nel segno della continuità ma anche di una passione capace di innovare dall'interno gli strumenti espressivi divenuti peculiari di un riconoscibile linguaggio poetico: le oche, le automobiline, i ciclisti, i filosofi, i pittori, abitano o meglio invadono la 'città in forma di palazzo' con il cordiale protagonismo consentito dal loro essere sigla identificabile dell'universo espressivo dell'artista e, nello stesso tempo, figure che riverberano sul paesaggio urbinate l'attonita dimensione del sogno. Si conosce, nell'opera di Del Bue, la propensione alle atmosfere sospese, la preferenza accordata agli scenari notturni innevati o lunari, la scelta di spazi misurabili pur nella raffigurazione di orizzonti slontananti: il cortile di Palazzo Ducale diviene, non a caso, epicentro di questa intima geografia, recinto dove si avvicendano azioni misteriose, colloqui ineffabili, inaspettate apparizioni come l'uovo sospeso sul blu cobalto del cielo che, alludendo a quello della pala di Montefeltro di Piero della Francesca, immette nella raffigurazione il segno di una esoterica cosmogonia; o come il salvagente-ciambella qui transitato direttamente dalla visionaria pittura di Paolo Uccello, un altro devoto della prospettiva e delle sue possibili declinazioni. Anche i personaggi che dialogano negli ambulacri del cortile alludono al terzetto di 'cospiratori' che appaiono in primo piano nella Flagellazione urbinate, figure evidenti nella loro astanza volumetrica e funzionale alla costruzione prospettica dello spazio ma, nello stesso tempo, psicologicamente impenetrabili per la concatenazione di gesti e di sguardi rivolti ad un'altra sfera narrativa, al dato che rimanda al più intricato livello del traslato simbolico.

Per Gianni Del Bue la città ideale, quella delle tavole pierfrancescane e delle nitide architetture di Laurana, è pur sempre il reticolo spazio-temporale che imbriglia le creature della sua fantasia, le quali sono in grado di capovolgere l'evidenza del profilo urbano o di un paesaggio noto immettendo nella rappresentazione quei ricordati dettagli, gli enigmatici colloqui della notte, le luci del sogno e dell'inquietudine. Quando si chiede Dov'è l'arte? (2006) dipingendo i visitatori d'una galleria in tempo di neve, Del Bue fornisce in fondo la chiave di lettura della sua opera suggerendo, attraverso la pensosa staticità dei personaggi intenti ad 'interpretare' i quadri, i tempi lunghi della visione capaci di estrarre dall'immagine il suo riposto mistero, né più né meno di come David Hockney in Guardar immagini su un paravento colloca il suo assorto protagonista entro il ristretto perimetro d'una galleria domestica ove spicca il Battesimo di Piero e quindi il segno di un'analoga passione per le quiete forme generatrici di molteplici e inaspettati pensieri. Inaspettata è, tra l'altro, la dimensione compositiva degli ultimi dipinti di Del Bue che dilatano con effetto di grandangolo i consueti paesaggi suburbani e quelli delle amate Langhe: in questi le figure si perdono e si ritrovano a seconda della clemenza delle stagioni, anche se la coltre nevosa o il banco di nebbia non sembrano scoraggiare congiurati e viandanti, filosofi e suonatori, e nemmeno un fanciullo che, immobile, contempla la complessa struttura di un albero spoglio ancora una volta, per noi, viatico pierfrancescano - se si ammettono analogie anche indirette con quelli dipinti negli affreschi di Arezzo e nel Battesimo di Londra - alla piena comprensione della fedeltà formale della pittura di Gianni Del Bue.


(*) Storico dell'arte, già Direttore della Galleria Moderna di Palazzo Pitti a Firenze, curatore di importanti mostre in Italia e all'estero, tra le più recenti "Ottocento" alle Scuderie del Quirinale, "Cezanne a Firenze" e autore di numerose pubblicazioni tra cui "La pittura di paesaggio in Italia"per l'editore Electa