ATTUALE SINAGOGA DI URBINO

(da: Maria Luisa Moscati Benigni, Sinagoghe di Urbino & Storia del Ghetto, Arti Grafiche Sibu Urbania - II ed. - 1997)

 

Facciata d’ingresso della sinagoga, in via Stretta, e lato sud-ovest.

 

L’edificio sorge all'inizio di Via Stretta, presso le mura della città, all’ombra dei torricini.

È, quella di Urbino, una sinagoga di rito italiano, come quelle di Senigallia, di Ancona e quella, non più esistente, della vicina Pesaro [i]: ne fa fede la dedica che accompagna l’inno A Dio eterno composto verso la metà del ‘500 dal rabbino Mordechai Dato, espressamente per i templi di queste quattro città [ii]. Ciò a sottolineare la differenza nel rito, al tempo molto sentita, tra gli ebrei italiani [iii] e quelli che giungevano dalla Spagna (sefarditi) o dalla Germania (aschenaziti).

Come indica il nome beth ha-keneseth, casa dell’adunanza, la sinagoga è qualcosa di più di un luogo di preghiera: è cioè anche una casa di studio in cui si cerca di soddisfare i bisogni spirituali della comunità. Per questo è ovunque chiamata anche Scola.

All’esterno dell’edificio non vi sono segni che indicano la presenza di un oratorio ebraico, se si eccettua una fascia di mattoni rotti ad arte in più punti come vuole la tradizione, per ricordare ai fedeli la distruzione del sacro Tempio di Gerusalemme. Osservando la facciata si nota che in una piccola parte, a destra dell’edificio, i mattoni sono stati lavorati con scalpello e martello, in un secondo tempo. Quella porzione di fabbricato infatti fu acquistata dalla comunità ebraica solo nella seconda metà dell’800, essendo stata, sino ad allora, proprietà dei frati francescani.

Non esiste, almeno dal punto di vista stilistico, un’architettura sinagogale, esistono tuttavia tanti elementi indispensabili all’adempimento delle mizwot (precetti) e alla celebrazione dei riti.

Sulla facciata si aprono tre portoni: quello di destra immette in un locale seminterrato in cui si trovano due elementi sempre presenti in una sinagoga: il forno e il pozzo. Questo forniva l’acqua di sorgente per il lavaggio delle mani e per impastare i pani azzimi che la comunità consumava per tutti gli otto giorni di Pesach (Pasqua ebraica); i pani dovevano essere cotti nel forno della sinagoga, per essere ben certi che questo non fosse mai stato usato per la cottura di cibi lievitati, e il tutto doveva avvenire sotto il controllo del rabbino. Oggi anche le maggiori comunità preferiscono ordinare all’estero, preferibilmente in Israele, le azzime, che del resto sono reperibili in pacchi sigillati anche nei grandi supermercati.

Il portone centrale era invece usato dagli uomini soprattutto nelle solenni festività quando l’afflusso dei fedeli era maggiore, per la partecipazione delle donne, altrimenti non tenute a frequentare la Scola. L’ingresso riservato alle donne è infatti quello di sinistra dal quale parte la scala che conduce al piano superiore in cui è situato un vasto matroneo, altro elemento sempre presente nelle sinagoghe o anche in piccoli oratori. Nell’ingresso come in ogni altra sinagoga c’è una fontanella per il lavaggio delle mani: l’acqua di sorgente, elemento purificatore, ricorre spesso nella ritualistica ebraica.

In molte sinagoghe è presente anche un mikwè (profonda vasca per un bagno purificatore ad immersione totale), ma in Urbino questo era sistemato in un altro edificio del ghetto. Nell’ingresso principale figurano due lapidi scritte in ebraico: vi si ricorda, in quella di sinistra, che i Duchi di Urbino diedero generosa ospitalità nelle loro terre agli ebrei altrove perseguitati, e in quella di destra, che Mordechai (Angelo) e Pinchas (Felice) Coen furono munifici verso la comunità allorché la sinagoga venne quasi interamente ricostruita nel 1859- Nella stessa parete si aprono sei bossole per le offerte con le scritte per le diverse destinazioni: per l’olio per i lumi della sinagoga, per i poveri del ghetto, per i libri, e perfino per Tiberiade. Quello della tzedakà (termine ebraico che non può essere tradotto semplicisticamente con "carità" ma piuttosto con "giustizia") rientra fra gli obblighi religiosi da rispettare per accogliere degnamente la più grande delle feste: Schabat (il Sabato) [iv].

Il Sabato, come ogni altro giorno festivo, entra al tramonto del giorno precedente, quando in cielo appare la prima stella. Quando la comunità ebraica urbinate era ancora numerosa, gli uomini affollavano la sinagoga per YArvit (la Benedizione serale), ma per esserne degni dovevano aver prima fatto tzedakà. Coloro che per la loro indigenza non erano in grado di farla e anzi la ricevevano, restavano curiosamente in credito verso i benefattori avendo ad essi permesso, accettando, di adempiere questo importante obbligo religioso.

Al termine della breve scala, sul pianerottolo, si aprono due porte, quella della sala del tempio e, a destra, quella del Talmud-Torà (studio della Torà) cioè la scuola che tutti, grandi e piccini, in momenti diversi della giornata, sono tenuti a frequentare: i più piccoli per apprendere i primi rudimenti della lingua ebraica e le storie della Bibbia, i più grandi, fino alla vecchiaia, per approfondire la conoscenza non solo della Bibbia, ma soprattutto l’interpretazione contenuta nel Talmud (commento). Ciò avveniva in passato quando la comunità ebraica urbinate era così fiorente e numerosa da poter sostenere l’onere del mantenimento di un rabbino (maestro) con la sua famiglia. Quello dello studio, qualunque sia la condizione sociale ed economica, è da sempre un obbligo religioso poiché ogni ebreo, al compimento del tredicesimo anno di età, deve essere in grado di leggere la Torà (il Pentateuco cioè i primi cinque libri della Bibbia).

La porta centrale invece immette direttamente nella sala adibita al culto. È a pianta rettangolare, l'ingresso è al centro di uno dei lati lunghi ed ha di fronte un’altra porta che esce sul piccolo cortile retrostante. Questo è un altro degli elementi sempre presenti in un oratorio ebraico poiché in esso veniva allestita una capanna di frasche con palme, mirto e salice intrecciati e cedri [v] per la festa di sukkot (capanne). È un chiaro riferimento alla vita nomade degli antichi ebrei, nel deserto, allorché celebravano a cielo aperto, sotto le stelle, la festa del raccolto. Anticamente il piccolo cortile aveva un ingresso, l’arco è ancora visibile, verso le mura cittadine, poiché era chiuso sull’altro lato da una piccola casa attigua alla sinagoga stessa. In essa abitava il custode del tempio ma, già fatiscente ai primi del ‘900, è poi crollata lasciando così spazio all’attuale piazzetta. Uno dei lati corti della sala, quello volto a mìzrach (al sorgere del sole, cioè verso Gerusalemme) è absidato e i rosoni della volta sono identici per numero e fattura a quelli del Duomo di Urbino. Così come identici sono gli stucchi, floreali, che ornano il fascione che corre al di sopra delle alte colonne ioniche. Fu infatti lo stesso arcivescovo, Mons. Angeloni, a suggerire al presidente della comunità israelitica la linea della nuova fabbrica. Erano, i due, legati da stima e amicizia: un’amicizia ebraico-cristiana dunque veramente ante litteram.

Sulla parete di fronte si apre un’alta finestra ad arco che, unitamente ai quattro lunotti prospicienti il cortile, inonda di luce la sala. Anche nei periodi più tristi della storia del popolo ebreo, quando il bisogno di proteggersi da assalti e vandalismi induceva ad allestire gli oratori nella parte più alta dell'edificio, le finestre sono sempre state ampie, spesso anche esageratamente, rispetto alla dimensione della sala. Era infatti necessario sfruttare al massimo la luce dato l’obbligo religioso di recitare le preghiere leggendole, e mai a memoria, cosa assai difficile con i lumi ad olio anche se numerosissimi [vi].

Dopo i lavori di rifacimento e restauro effettuati nella metà deH’‘800, anche la disposizione della sala è mutata rispetto a quando era stata costruita, nel 1634. Allora erano state rispettate le regole imposte dal rito italiano cui era legata la comunità urbinate. Infatti la tevà, specie di pulpito con un ampio leggio su cui l’officiante apre il sefer-Torà (rotolo della Legge), era situata al centro della sala, la quale all’epoca prendeva luce da tre alte finestre. Questa disposizione degli arredi, unitamente all’aspetto dell’intera sala, ci è oggi nota grazie al disegno che ne fece nel lontano 1704 Josef Del Vecchio, rabbino di Urbino, in un delizioso manoscritto [vii].

All’epoca del restauro però, mutati gli animi per il diffondersi anche tra gli ebrei di quell’aria di fronda portata prima dai francesi e diffusa poi con i moti risorgimentali, (cui anch’essi avevano attivamente partecipato) attenuate, da secoli di convivenza, le differenze tra i riti, e soprattutto attratti dalla fama e dalla bellezza della sinagoga sefardita della vicina Pesaro, gli ebrei urbinati non resistettero alla tentazione di ispirarsi ad essa nel rifare l’arredo della propria.

Così anche la sinagoga di Urbino diventa di tipo bipolare, su tre livelli: una doppia scala sale alla tevà che assume perciò l’aspetto di un vero e proprio pulpito, nella parete opposta due gradini salgono al sacro Aron, l’Arca, e il sottospazio tra questi due elementi è destinato ai fedeli.

 

 

L’Aron ha-qodesh e la tevà

 

L'Aron o Arca santa, è addossato alla parete, orientato verso Gerusalemme. Merita l’appellativo di sacro perchè contiene i rotoli della Legge (sifré Torà) i quali a loro volta sono considerati sacri perché in essi è scritto il nome di Dio; per il resto l’ambiente è spoglio di immagini o simboli nel timore che i fedeli possano cadere nel peccato di idolatria.

Una tenda ricamata (parokhet) protegge, all’interno dell’Arca, i sifré Torà, la sinagoga di Urbino ne ha di bellissime, a testimonianza di quanto fosse fiorente e pia in passato la comunità. Ogni sefer, libro, è avvolto in una fascia (mappa) e ricoperto da un manto di tessuto prezioso e ricamato. Nelle solenni festività è spesso ornato di puntali (rimmonirrì) d’argento e sormontato da una corona (keter) pure d’argento. L’officiante estrae dall’Aron il sefer e lo adagia sul ripiano della tevà, lo libera delle fasce e inizia la lettura del passo biblico del giorno seguendo la lettura con una “manina” (yad). I rotoli della Torà sono di pergamena, interamente scritti a mano in caratteri ebraici.

Davanti all 'Aron è sempre accesa una lampada (ner tamid) simbolo della luce eterna della Torà.

È evidente che quello che può sembrare semplicemente un armadio, è in realtà l’elemento più importante della sinagoga e quindi oggetto di particolare attenzione nel momento in cui ne viene progettata la costruzione.

Allorché, nella metà deHu800 la sinagoga venne completamente ristrutturata, l’Aron antico non trovava più posto nella mutata fisionomia dell’ambiente: la parete curva dell’abside richiedeva un mobile completamente diverso. Fu così costruito quello attuale in stile neo-classico come il resto della sala. Famosi artigiani dell’epoca collaborarono a quest’opera ed è interessante conoscerne i nomi, leggere i loro contratti e scorrere la contabilità.

In data 19 marzo 1855 viene stipulato in Urbino un contratto [viii] tra «i Sign. Felice e Angelo Coen di qui e il Sign. Francesco Pucci di Cagli [ix], abile ebanista, che si è offerto di fare ... una Tribuna e un Pulpito da collocarsi in questo Tempio Israelitico...». Si tratta di un nome al tempo famoso poiché Cagli lo ricorda tra i suoi figli illustri, vincitore nel 1873, di una medaglia all’esposizione internazionale di Vienna.

Il compenso richiesto è di 40 scudi per l’Aron e 27 per la tevà. Segue la lista dei pezzi consegnati al Pucci, lavorati precedentemente da un intagliatore di Fossombrone, certo Enrico Danielli, che però non ha, al momento del contratto, ancora consegnato i sei capitelli che dovranno sorreggere la cupola. Per il suo lavoro gli furono corrisposti 15 scudi e, a parte, «scudi 1,20 per il legno da intaglio». Sono anche elencate le spese per i vari tipi di legni che i committenti si erano impegnati a fornire al Pucci: dalla Scheggia giunsero legni di faggio, di ceraso, di acero, di noce e impellicciatura di pioppo. Tante varietà di legni vennero usate sia per l'Aron che per la tevà cui vennero aggiunte «anco 5 lumiere d’Ottone, fattura romani 0,22».

Sono opera del Pucci anche le balaustre intagliate dei balconcini del matroneo e di quelli non praticabili, delle finestre, così pure l’elegante balaustra della scala delle donne e le cinque panche di noce tutt’ora presenti nell'oratorio.

Il 19 febbraio del 1856 il lavoro dell’ebanista è terminato poiché in tale data viene stilato un contratto con il doratore Crescentino Pieretti, forse anch’egli di Cagli. Questi si impegna ad eseguire il lavoro «con esattezza e ad uso d’arte per l’importo di scudi trenta (materiale escluso) pagabili a mano a mano che progredisce il lavoro, per cui promette di eseguire il tutto il più presto possibile, anzi immediatamente e proseguire senza interruzione sino al suo termine».

Esattamente un anno dopo il Pieretti ha ultimato il lavoro e rilascia ricevuta dell’awenuto pagamento «in più riprese».

A questo punto è forse interessante conoscere anche i nomi degli altri artigiani locali occupati dal 1855 al ‘59 nei lavori di restauro della «Scola degli israeliti» come è scritto nelle fatture. Figurano i nomi di Gerolamo Amantini e De Marchi fabbri ferrai, Gio.Battista Ortolani falegname, Vincenzo e Domenico Luciarini fabbri ferrai, Ceccaroli per materiale vario, Francesco Caciamani capomastro e i suoi muratori, Antonio Rossi imbianchino e Luigi Arceci orefice.

Nel 1857, ultimati i lavori, la sinagoga venne solennemente inaugurata dal maestro della comunità israelitica, il vecchio rabbino ultraottantenne Salomone Ancona [x], dal presidente della comunità israelitica Giuseppe Coen [xi] presente tutta la popolazione ebraica che allora contava 150 anime.

 


 

[i] -M. Luisa Moscati Benigni, La Scola italiana di Pesaro, in «Pesaro Città e Conta», n. 3, 1993-

[ii] -Il manoscritto originale è al British Muscum, fu tradotto e pubblicato nel 1945 dal Rabbino E. Toaff quando reggeva la Comunità di Ancona.

[iii] -Sono ebrei di rito italiano i discendenti della numerosa colonia ebraica già presente a Roma prima che Tito ne portasse altri cinquemila, schiavi , per far più grande il suo trionfo dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d. C.

[iv] -Per l’accoglienza del Sabato, oltre a fare Tzedakà, era obbligo religioso, ed è, anche fare il bagno e cambiare la biancheria. Oggi questa pratica non stupisce nessuno, ma in epoche in cui il bagno veniva fatto alla nascita, e poche altre volte nella vita, era sufficiente questo indizio perché l’Inquisizione, in Spagna facesse arrestare il malcapitato con l’accusa di giudaizzare

[v] -Queste quattro essenze rappresentano tutte le piante della Terra perché la palma dà frutti ma non profumo, il mirto solo profumo, il salice né l’uno né l’altro e il cedro sia profumo che frutti.

[vi] -La lettura va fatta a voce alta poiché Dio stesso nel concedere i Dieci Comandamenti lo ha fatto con voce di tuono. La rivelazione è un evento uditivo. Essere «chiamati a Sefer», cioè a leggere il passo biblico del giorno, è il più grande onore che si possa fare ad un ospite importante in una sinagoga.

[vii] -M. Luisa Moscati Benigni. Un antico manoscritto ebraico dal ghetto di Urbino, in Studi per Piero Zampetti, a cura di R. Varese, Il lavoro editoriale, Ancona 1993, pp498 -501.

[viii] -Archivio della sinagoga di Urbino.

[ix] -Francesco Pucci nacque a Cagli (PS) nel 1817 lavorò al coro della Chiesa di S. Albertino a Fonte Avellana, eseguì lavori di intaglio e intarsio con avorio e madreperla, (vedi C. Arseni, Pucci, un ebanista alla corte di Vienna, Resto del Carlino 3.1.1987).

[x] -Il rabbino Salomone Ancona era giunto ad Urbino, proveniente da Guastalla. Aveva sposato Bellarosa, giovane figlia di Emmanuele Perugia sciattino e sacrestano della Comunità avevano avuto cinque figli. Morì in Urbino il 23 aprile 1860 alla bella età di 85 anni con la gioia di aver visto la sinagoga restaurata e Urbino libera.

[xi] -Giuseppe Coen di Abraam Israel, abitava la penultima casa in fondo a Valbona, ma aveva impiantato un laboratorio di concia delle pelli in località “Le conce” di Urbino. Fu eletto insieme a Giuseppe Coen ed a Placido Coen, nel primo Consiglio Comunale del 1861 con quasi 90 voti ciascuno (gli ebrei votanti erano 42). Era stimato da tutti gli urbinati, per lui fu coniato il proverbio “Accident' an rie' salvand Peppin Coen » La città di Urbania gli concesse la cittadinanza onoraria per meriti patriottici.