VOL.  I

III.  I POETI DELL'OTTOCENTO E DEL NOVECENTO

2. I POETI DEL RISORGIMENTO (1)

GERMANO SASSAROLI DA FILOTTRANO (.....- 1887) (2)

Il Sassaroli, maestro elementare e, poi, ispettore scolastico, «che combatteva il pranzo con la cena », e potè pubblicare la sua Raccolta di Poesie giocose solo in grazia di una sottoscrizione tra i colleghi, fu un amabile poeta burlesco.  Raccolse, infatti, nel suo volumetto, 147 epigrammi, 31 sonetti, alcuni madrigali, canzonette e sestine, tutti d'intonazione burlesca, alla Guadagnoli, col qual poeta era in relazione e scambiò anche qualche sonetto (p. 104), componimenti quasi tutti d'occasione (nozze, monacazioni, accademie, banchetti ...), ricalcati su vecchi modelli, senza grande pretesa di novità o di originalità: era il genere di moda.

Ma il caro poeta, a completare la raccolta e cedendo alle insistenze d'un amico (p. 122), aggiunse un'appendice di 22 sonetti (preceduti da dedica al detto amico Antonio Maria Romagnoli) «in dialetto rustico marchigiano», cioè filottranese, che vantano pregi analoghi a quelli italiani: muta il mezzo, ma la spirito è quello. Vi si nota, tuttavia, una freschezza maggiore, forse per la virtù stessa del dialetto. Espositivi, esortativi o narrativi, questi sonetti non sono mai drammatizzati e neppure dialogati: sempre il poeta vi parla in prima persona o impersonalmente; essi non salgono mai a grandi altezze, e rispecchiano la modesta vita del pacifico paese: un complimento, un saluto, un augurio, uno scherzo, un ammonimento, un'esaltazione e così via.

Studio d'ambiente e di caratteri non traspare affatto : certe note di verità sono colte per istinto, per conoscenza innata, non per istudio. Non vi si scorge altro scopo che di far sorridere. Se un sentore di satira ne trasuda, si tratta di punture di spilli o di gocce d'aceto. Quando vi si accenna a politica, si coglie, sì, nel segno, ma con scarsa originalità: sono echeggiati alla buona i discorsi della quieta popolazione marchigiana, che molto ha dato alla storia del Risorgimento, ma non ne ha menato vanto. Ad ogni modo la nota politica è la più osservabile.

In un sonetto 'Per la prossima venuta di S. S. 'Pio IX in Iesi (p. 141), scritto, dunque, nel 1857, nel qual anno il Pontefice compì, attraverso i suoi domini, il famoso viaggio d'infelice memoria, il poeta, presago delle accoglienze festose che gli si preparavano da ipocriti e voltacasacca, consigliava così lo stesso Pontefice :

« ..... Sci io fusse ro Papa a sti birbò,
Quanno che per bagià je sta ro pie,
Un calcio je darria su ri minchia
».

In un altro sonetto molto posteriore (1880) esprimeva questo pensiero che onora l'uomo e l'educatore:

« A me m'empreme solo ri frigni;
Ri voglio boni e forti mutobè,
Scinnò l'Italia presto aroà a servì
».

Sentiva che bisognava tenersi pronti.

Non vuolsi, tuttavia, negare al caro poeta una piacevole festività, un giudizioso uso del dialetto assai bene conosciuto, un fine senso di opportunità, una non comune abilità di congegnare il sonetto in modo che risulti armonico ed uno, ed anche una fedeltà piacente, sia pure non ragionata né profonda, alla mentalità popolare del suo paese.

 

G. B. RIPAMONTI DA MOGLIANO

Di tempra ben diversa dal Sassaroli è il poeta moglianese G. B. Ripamonti, autore, se non altro, di 21 sonetti, alcuni dei quali con la coda (XV, XVI, XIX) anche lunghissima (XVIII, XX), scritti tra il 1860 e il 1864, tutti di carattere politico, sagacemente raggruppati in modo da parere, come sono di fatti, parti di un componimento complesso, quasi stanze di un solo poemetto. Svolgono un dialogo, tra un liberale e un prete, toccando di tutti gli argomenti allora vivacemente dibattuti tra i contrastanti partiti. Opera di letterato vero e proprio (3), concepita con veduta larga ma con rigore simmetrico e proporzionale ben nitido, rappresentazione fedele delle idee correnti, questa corona di sonetti è monumento di poesia, di lingua e di storia di primo ordine.

Il Ripamonti vi si rivela scrittore denso e conciso, esperto delle norme poetiche, interprete avveduto della mentalità popolare, conoscitore sicuro del patrio dialetto.

Gli scottanti problemi affrontati nei 22 sonetti del Ripamonti sono avviati verso una soluzione che diremo liberale. Vi si combattono i sofismi dei conservatori, vi si smascherano i loro interessati argomenti; vi si auspica il tempo in cui i fautori di opposti partiti, messisi finalmente di accordo, si sentano tutti italiani e fratelli. Così, quasi senza parere, egli s'innalza a vero e proprio poeta civile. Raramente il dialetto s'è elevato a così nobile intento.

Il Ripamonti maneggia il dialetto a meraviglia, conoscendone tutti i segreti fonetici, lessicali e sintattici. Conosce con pari profondità il folklore. Nei suoi sonetti tu scorgi una cura meticolosa di incastonarvi detti, frasi, locuzioni, adagi tutti esatti e fedeli, e accenni e richiami a credenze e costumanze popolari. Vi scorgi, al tempo stesso, uno sforzo, da scrittore raffinato, per riuscire conciso ed icastico, per colpire la fantasia del lettore.

11 quattordicesimo verso del dodicesimo sonetto (lo cito a mo' d'esempio), rifatto quattro volte, riuscendo sempre a un senso forte, preciso e opportuno (4), basta da solo a rivelare lo scrupolo, la diligenza, la incontentabilità del Ripamonti.

I due interlocutori, fondamentalmente innominati, in alcuni sonetti (XV, XVII, XVIII bis) prendono un nome (D. Pasquale C. e Petrepà ; Ciafrì e Paganelli), e parlano entrambi, ma di solito parla il solo liberale, lasciando supporre, volta per volta, con arte matura, le obbiezioni del prete. Qualche volta, poi, il dialogo manca del tutto, e il sonetto allora si riduce a una riflessione soggettiva dell'autore. Ma conserva Io stesso un andamento di dramma.

In breve : questi sonetti del Ripamonti, tutti vigorosi dal primo all'ultimo, artisticamente finiti, memori del Belli per l'arte e per la materia, dettati con chiarezza d'idee e di propositi, formano una notevole raccolta in favore del Risorgimento nazionale nelle Marche. In ogni verso e quasi in ogni parola risuona l'eco fedele delle opinioni allora correnti, delle speranze e delle delusioni che animavano o disanimavano la gente nostra, e del rancore lungamente nutrito contro il governo degli ecclesiastici. Solo un altro poeta, assai fecondo, Giuseppe Mancioli, fervente di spirito liberale, gli può contendere il primato con i suoi numerosi componimenti politici, i quali, però, non sono ancora stati illustrati come e quanto si deve, anche perché nella massima parte non pubblicati.

 

GIUSEPPE MANCIOLI DA MACERATA (5)

Fu Giuseppe Mancioli, di Macerata (15 novembre 1824 - 13 maggio 1875) sacerdote e maestro elementare. Costretto alla carriera ecclesiastica, contro la sua volontà, dalla brutale violenza del padre (6), sfogò la sua scontentezza contro il clero che lo avversava (una volta fu colpito dalla sospensione a divinis, poi revocata) (7) e contro tutto ciò che ostacolava le sue focose tendenze. Di spirito liberale (8), ne professò i principi, sebbene con qualche cautela (pare non partecipasse al plebiscito per l'annessione, come altri preti fecero), e nelle vicende politiche del tempo trovò fervente materia per la sua vena satirica e beffarda; e trattò temi d'ogni genere, talora anche rischiosi, in contrasto col suo abito e con la sua professione. Scrittore assai fecondo, lasciò numerosissimi componimenti, la maggior parte inediti (9), suscitando clamori e polemiche, attirando sopra di sé l'attenzione di amici e nemici. Per la sua figura bizzarra e contraddittoria, per la ricchezza e varietà della sua rustica lira, per la appassionata partecipazione alla vita politica, nel periodo più turbinoso del nostro Risorgimento, e per il suo merito intrinseco, il Mancioli ha diritto alla ricordanza dei posteri.

Le sue composizioni sono politiche, rusticali e varie. Più importante e anche più curata e raffinata delle altre, la parte politica, che comprende un numero grande di componimenti, taluni (i meno compromettenti) stampati, i più inediti. Sono a stampa Lo specifico di Dulcamara, Il carnevale 1870 (10), i sonetti editi nell'Archivio marchigiano del Risorgimento (11), e qualche sonetto stampato, più o meno clandestinamente, dall'autore (12 ). Restano inediti quelli conservati in volumi nella Biblioteca comunale di Macerata, ai quali ho dato, per chiarezza, i numeri 1, 2, 3 e 4 (13), ed altri in un manoscritto posseduto da G. Spadoni, e in altro, non autografo, conservato presso di me, derivato, per buona parte, dai tre detti volumi, ma con sonetti, ed altro, che in questi non si riscontrano (14).

Accenno ai più notevoli componimenti dei manoscritti. Nel vol. 1 ° (15) : il Dies irae, ossia la guerra del 1866; il miserere, ossia la guerra del 1867 a Mentana; l'elezione del Deputato al Parlamento nazionale ; il viaggio di S. Pietro a Roma (4 canti); una parlata di S. Pietro; l'Italia dal 1860 al 1870; ecc. Nel voi. 2°: dialogo tra un papalino e un liberale ( 1864) (16); in morte di Cavour ; di Rattazzi ; di Napoleone III; di Mazzini; di Massimiliano fucilato al Messico (19 giugno 1867); nella venuta del Re d' Italia a Macerata; per non dire di altri componimenti nelle morti di Garibaldi e di Pio IX, che, essendo avvenute dopo la morte del poeta (1875), altro non sono che un pretesto a satire e invettive. Nel vol. 3° : consiglio ai voltafaccia; la battaglia di Custoza; l'Italia è fatta; su Napoleone III, dopo la pace di Villafranca; ritorno del Papa da Gaeta; dopo la battaglia di Mentana; viva la libertà ?; dopo la cattura del generale G. Garibaldi; protesta per la relegazione di Garibaldi a Caprera; sicut erat et nunc ; contro le tasse e soprattasse; rivoluzione a Torino, dopo il trasporto della capitale ; ecc. ecc. (17).

Nel manoscritto presso di me : un vaticinio fallito, che, stampato, fu cagione di perquisizioni e di altri sonetti ; dopo l'ultima tassa di famiglia; un incontro a notte buia; una seduta alla regia corte d'assise; ecc.

Dalla lettura di questi e d'altri componimenti politici ora solenni come invettive, ora beffardi e sarcastici, ora scherzevoli, ma quasi sempre focosi e impetuosi, volti o a celebrare o a deplorare avvenimenti nazionali, o a sferzare e fustigare indegnità e viltà d'ogni genere, o a consigliare uomini di governo e cittadini, balza fuori una figura di poeta politico di grande rilievo. La nobiltà degli intenti, il lepore che anima e illeggiadrisce le sue rime, il coraggio nel proclamare le sue idee, mentre ci fanno pensare al Giusti e al Belli, ognora presenti allo spirito dell'autore, ci rivelano il Mancioli come il più fecondo e il più vario, per non dire il più completo poeta dialettale marchigiano che siasi occupato di politica (18).

Dato il periodo rivoluzionario in cui il poeta scriveva, non facile riesce disgiungere dalla poesia politica quella civile, che tra le rime del Mancioli presenta esempi assai numerosi e notevoli, e che nelle stesse poesie politiche trova accenti spessi e vibranti.

Certi componimenti (viaggio di S. Pietro, parlata di S. Pietro, che cos'è il mondo (19) ; lottavano dei morti ; quanto importi la vocazione ; sulle feste fatte al cardinale Ugolini, ecc. ecc.) non si saprebbe a quale delle due branche assegnarli con sicurezza.

Alla poesia civile appartengono i due sonetti in morte del Manzoni, quello in morte del Tommaseo, il ritratto di Vittorio Emanuele II, i sonetti riguardanti questioni scolastiche e cittadine, quelli su i giornali di allora, compresi il Vessillo delle ZXCarche e il Corriere delle JXCarche (20), e moltissimi altri.

Alla poesia rusticale (col qual vocabolo il poeta battezza interi volumi, attribuendogli un significato non proprio) appartengono una farsa che sarà ricordata più innanzi, e altri tre componimenti, di discreta lunghezza, che, per essere stampati e particolarmente curati, offrono più esatta la misura dell' ingegno del poeta : la Serenata rusticale, lo Scherzo rusticale e il tamburino (21). La Serenata rusticale o pasquella (1866), indirizzata con una lettera ad A. Leopardi, col quale, ancorché mangiapreti, il Mancioli ebbe cordiali e pubblici rapporti, comprende sei cantate composte tutte di una prima parte o narrativa o espositiva o elogiastica, con la quale il poeta si propizia la sua dama Tetella, di un rispetto cantato solo da lui (Ise) e di versicoli in quartine cantati dal coro intero. Nell'ultimo il coro si prolunga e finisce con un duetto, /se e coru insèmo/. Mentre nelle prime parti il pensiero del poeta progredisce e si svolge, nei rispetti e nei versicoli del coro si ripetono, pressa poco, gli stessi complimenti e gli stessi concetti. Il tutto è ben congegnato e amorosamente curato, così che ne risulta un componimento finito e perfetto che conserva alcuni elementi della tradizione (le difficoltà superate per arrivare alla meta, il canto a solo e il coro con l'accompagno di strumenti musicali) e poi procede secondo l'inventiva e il gusto del poeta, ma ispirati anch'essi quasi per intero alla tradizione (22).

Queste pasquelle (di maggi ad esse affini, sebbene più grossolani, ci occupammo già) (23), che mirano ad innalzare un componimento popolare, vivo anche oggi, cantato nelle campagne marchigiane nei giorni dell'epifania (pasquella), meritano molta attenzione, non solo per la forma interamente e felicemente dialettale, e per l'aspirazione a diventare componimento letterario (sia pure in dialetto), ma anche perché proprio in questi stessi anni (1865 - 1876) faceva gli stessi tentativi con metri molto affini, Alfonso Leopardi (24) al quale il volumetto del Mancioli è rivolto, rimasto più attaccato alla tradizione (25), eppure più originale e più popolare. Sono forse queste pasquelle i componimenti più caratteristici della letteratura dialettale marchigiana.

Lo Scherzo rusticale (1868) altro non è che la ristampa, per nozze de Lu tammurrì, specie di cantata, con tirate politiche assai pungenti e scorate, che, diffusa precedentemente, aveva attirati sull'autore biasimi e critiche (26).

Quattro anni dopo (1872) il Mancioli pubblicava, pure per nozze, con una lettera allo sposo, una sua fantasia, assai diluita e slavata, nello stesso metro, Il tamburino alla scuola di tromba, che si ricollega, come dice il titolo, al precedente (ispirato dall'abolizione del tamburo nel nostro esercito) e richiama le non obliate, e sempre scottanti, villanie scagliategli contro da un innominato «maligno o codardo», che lo aveva indotto a non pubblicare più alcun componimento dialettale.

Naturalmente il maggior numero delle sue rime il Mancioli lo dedicò ad argomenti né politici, né civili, né pastorali o rusticali, ma d'altra natura, secondo le varie esigenze della sua vita agitata. Le nozze vi hanno la prima parte; vengono poi le rappresentazioni teatrali, le lodi di belle donne (proprio così !), ricorrenze, scherzi e satire, episodi della vita di ogni giorno, beghe coi suoi colleghi in sacerdozio, qualche scandaletto locale, e via di seguito; una lunga serie di sonetti erotici (27) e canzoni, terzine, sestine e filastrocche di varia forma, ora sconvenienti, ora audaci, talora addirittura oscene. (Siano ricordate — ms. n. 3 — il giuoco della scopa; il sette e mezzo e la donna; il giuoco del pizzichino; becco volontario, ecc.).

Un gruppo di sonetti (mio ms.) fu composto per scopi molto umili, per chiedere all'amico, conte Alessandro Cupelli di Loro piceno, modesti regali (vino, cibarie, cacciagione, ecc.) e per ringraziare di quelli ricevuti. Con altri sonetti il poeta canzonava i papalini spodestati che a pochi mesi o a pochi anni dalla presa di Roma, mordendo il freno, pronunziavano discorsi incendiari, ristucchi più che mai del nuovo ordine di cose, e fidenti nella restaurazione.

Talora il poeta innalza il tono del suo canto e passa alla satira più o meno pungente: La lingua delle donne (son. 33), Che cosa è il mondo (son. 34), Studium via est et vita (son. 35), L'avaro (son. 40), non dimenticando mai, però, di spifferare motti e facezie.

Alla varietà degli argomenti corrisponde la varietà dei metri. Il primo posto, naturalmente, spetta al sonetto, spesso con la coda, alla maniera dei settecentisti. Poi metri di versicoli messi in voga dal Giusti, metri da canzonetta, di decasillabi, compaginati da lui, metri classici d'ogni maniera (terzine, sestine, ottave, canzoni, ecc. ecc.) e intrecci bizzarri di versi, specie nei componimenti rusticali, in cui si riconoscono le stramberie proprie dei libretti teatrali.

Difetto precipuo del Mancioli, la prolissità, tediosa e defatigante (molti sonetti si diluiscono in code veramente sesquispedali) che appesantisce la lettura di alcuni componimenti (fino di 10 canti!), che svigorisce molti altri, che toglie ai più quel carattere di icasticità che dà sapore ai componimenti scherzosi e satirici. Già il Mancioli, amante delle forme piane, non si curò troppo del motto finale e della chiusa a sorpresa, pago di distribuire idee su idee nel corpo dei suoi componimenti.

A guardar bene nella vasta compagine delle poesie del Mancioli, satiriche, ridanciane, beffarde e perfino salaci, si scorge qua e là un rivoletto di rime affettuose e sentimentali, che scoprono, di sotto alla maschera, un animo molto diverso. Accenno a quella specie di canzonetta alla napolitana, per Teresita Leopardi, tutta grazia e snellezza (1); a quel sonetto — Non piagnute, fiji, che ne rammenta uno analogo e famoso del Belli (2) ; e più specialmente a quel sonetto - epitaffio, tanto caro al poeta, che lo avvolse, nel ms. (3) entro una ghirlandella di ornati e lo volle inciso sulla sua tomba, sonetto umoristico forse, certo commosso, che rivela uno spirito travagliato dalla scontentezza, se non anche dal dubbio.

Da un esame abbastanza largo (ma per necessità di cose incompleto) dell'opera del Mancioli, noi vediamo profilarcisi dinanzi un poeta satirico, alla maniera del Giusti (e, a volte, anche, come lui, sentimentale), che le canta chiare e tonde, senza tante paure, che colpisce, sorridendo, spacciatori di specifici mirabolanti, turlopinatori del pubblico ingenuo, profittatori e sfruttatori che mai non mancano in tempi di trambusto, che non teme di lanciare frecce a destra e a sinistra, contro gli amici politici come contro i nemici, che dice pane al pane e vino al vino, con quell'aria che impone rispetto e non solleva eccessive proteste. Un poeta dalla fantasia fervida e immaginosa, dalla vena larga e costante, dal carattere libero e spregiudicato, dalla sincerità infrenabile, dalla invidiabile serenità; un poeta incitato da spiriti liberali, padrone di un dialetto duttile e vario, dal verso fluido e pieno, ricco, insomma, delle doti poetiche più desiderate.

 

G. B. TAMANTI  DA FERMO

Singolare è la figura di G. B. Tamanti, fermano, fiorito negli anni che videro i maggiori avvenimenti politici nazionali (1860- 1870), oggetto dei più disparati giudizi. Egli stette coi retrivi; aderì al passato, non sapendo né valutare il presente né intravvedere il futuro. In più che duecento componimenti editi (molti rimasero inediti) (31) ribadì la sua idea fissa : i patrioti essere tutti o inetti o illusi o ladri o farabutti ; non potersi sviluppare un' Italia nuova migliore di quella d'allora ; non potersi dare un governo migliore di quello papale. A ribadire queste sue convinzioni fondamentali ogni fatto si presta, ogni episodio gli giova. E i sonetti sgorgano a furia, si inseguono e s'incalzano senza tregua, blandi, scherzosi, ironici, sarcastici, velenosi. Ce n'è per tutti i gusti : scolpiscono fatti e persone ; cantano una specie di inno..... al rovescio ; accolgono parole dure e sconce, frasi grossolane e triviali, di tutto un po'. I più audaci, scollacciati o personali furono dallo stesso autore rifiutati o distrutti (32).

Eppure, come al poeta, solo contro tutti, non manca quella certa dignità che illumina chi non muta casacca, anche se abbia torto marcio, così non mancano pregi e bellezze ai suoi molti sonetti. Tirati giù in fretta, senza troppa cura dell'effetto estetico, coll'occhio a un'idea centrale, badando agli accessori solo quanto basta per non dire sciocchezze, vantano unità e immediatezza ; compatti e focosi, rudi e violenti, paiono barbagli di luce e scoppiettio di petardi. Sebbene non grande, non geniale, il Tamanti è verseggiatore d'effetto, d'importanza storica non trascurabile.

Temperamento di burbero ma, in fondo, benefico: sembra sempre in burrasca (il 2° son. comincia : staco in estru cattili), ma qualche volta si rasserena, prima ancora che un sonetto sia chiuso; spesso la folgore si muta in un razzo innocuo. Suo tema preferito, la politica ; ma quando se ne libera, riesce fino a sorridere. Una volta radunarono, non so perché, un gruppo d'asini davanti alla sua casa; egli se la prese, al solito, col marchese Giuseppe Ignazio Trevisani, cui rivolse questi complimenti:

« Lu contattu, per Dia, no 'mme sta a dai',
Te pare che non faccia ? Eppure fa ;
Co li beh se mpara a bbè lo vi'.

Scommetto che sse ttu potisci sstà
Ura U'asini per otto o dieci dì,
Imparirissci subboto a ragghia
».

Il marchese Trevisani, sindaco, deputato, cittadino cospicuo e poeta dialettale lui stesso, è la bestia nera del Tamanti che gli getta contro la maggior parte dei suoi sonetti. E uno spasso trovarli sempre a tu per tu, in atto di Rodomonti o Rogantini, minacciantisi a vicenda, con parole non sempre di galateo, e forse (chi lo può negare ?) coll'animo di due attori, che sulla scena si sbudellano una volta al giorno e dopo vanno a cena insieme.

Conservatore nato, si crucciava per ogni novità demolitrice della tradizione augusta e solenne : leggendo il manifesto annuale per la famosa cavalcata dell'Assunzione (15 agosto) (33), deplorava (son. LXXX) che, dalla grandiosità antica, fosse ridotta a

« Du palili, du fuchitti e 'cche llumì ».

Si hanno esempi a diecine.

Un uomo così fatto doveva amare ferocemente il suo paese: e proprio da questo amore intransigente prorompono le note più penetranti.  Chi amministra male (egli direbbe i ladri), chi sciupa una gioiosa veduta, chi viola un angolo di antichità della sua Fermo, chi avvilisce una costumanza bella, diventa, ipso facto, nemico suo personale. Dal misoneismo implacato egli è spinto a dir male di ogni novità, anche se utile e giovevole. Ma se si dà il caso che Fermo faccia buona figura, il poeta va in sollucchero: quando il famoso petrarchista fermano Giuseppe Fracassetti, nel congresso d'Avignone (25 luglio 1874), conseguì l'unica medaglia d'oro, il Tamanti ne pianse di contentezza (son. CXII).

A un certo momento della sua vita il Tamanti si butta alla poesia dialettale a corpo morto : allora ogni inezia dà materia a un sonetto, (spesso anzi a una serie di sonetti), il quale, si capisce, riesce degno della materia. Se ne potrebbero citare a bizzeffe : essi rappresentano la parte burlesca della serie, che non è la più felice. Già anche nelle burle è un grossolano. In un sonetto per matrimonio (CLXV), dopo allusioni assai trasparenti, sballa per chiusa una volgarità. Una volta (die. 1866) il poeta fu rinchiuso in sala di disciplina; egli allora sfogò in un sonetto (CXXXI) contro tutti una tal rabbia di vendetta da parere invasato; c'è qui tutto l'animo del nostro poeta iracondo.

Eppure egli è moralista spietato e piagnone, con un non so quale filone di grettezza che in un marchigiano non è cosa nuova.

Ma conviene ripetere che alla politica egli ha consacrato il meglio dei suoi più che duecento sonetti. Metterebbe conto seguirlo un poco in questo suo spinoso cammino, se non ne avessi parlato con sufficiente ampiezza altrove (34).

Il Tamanti ha uno stile suo, ma non formato con studi appositi ; manca di fantasia, mentre abbonda di sincerità e di forza ; riesce piuttosto monotono, sia per i temi incessantemente ripresi, sia per il tono delle sue rime. Rigido e composto per natura, non si propone di perfezionarsi, e rimane rigido anche nei sonetti, peggio ancora nelle terzine del Limbo (35).

Tra le tante forme che può assumere il sonetto dialettale, egli preferisce quella espositiva : parla sempre lui, anche se esprima pensieri d'altri. E quel ch'è peggio, troppo spesso fa il predicatore, dimenticando che predica e poesia non vanno mai d'accordo. Sarcasmi e ironie, invettive, imprecazioni e contumelie escono spontanee dalla sua penna, perché gli vengono dal cuore. I pochi contadini e popolani introdotti in qualche sonetto dialogato (CXLVI1I, CLXIII, ecc. ecc.) sono prestanomi più che figure vive. Nelle favole (delle quali si parlerà in altro capitolo) alla parte narrativa segue spesso la dialogata, ma per necessità più che per proposito. Pel sonetto drammatizzato, conciso e incalzante, il Tamanti non aveva attitudine

In breve, il Tamanti, considerato sotto i vari aspetti che abbiamo accennati, come quello che osa levare lo sguardo agli avvenimenti politici del suo tempo e giudicarli liberamente, che avventa i suoi strali, senza ritegno, a viso aperto, contro tutti coloro che abusano della pubblica fede, che si oppone alla corrente, cui tutte le persone colte s'erano abbandonate, e rimane al suo posto di combattimento, anche se difenda una causa perduta, merita il nostro rispetto. La sua opera, non di limpida vena, più che documento letterario o folklorico, risalta come documento storico ; più che poeta egli vuol essere un moralista fustigatore ; i venturi lo ricorderanno come il portavoce dei malcontenti e dei maldicenti, che erano, allora, la maggioranza, come uno dei tanti che sperarono sino all'ultimo nella restaurazione del dominio temporale (36).

 

MARIANNA PROCACCI IN DONCECCHI

Contemporanea ai poeti patriottici ricordati, Marianna Procacci (37) non temè di affrontare argomenti politici, nello stesso turno di tempo, dopo il trasporto della capitale a Roma, o dopo l'annessione delle Marche al Piemonte. Benché trattasse egregiamente anche la poesia italiana, preferì la dialettale per la satira politica, cui rivolse almeno tre sonetti, i soli conosciuti, nei quali si sforzò di esprimere ciò che un contadino poteva pensare del governo italiano da pochi anni costituito. Satira politica sbocciata in un territorio, come la Marca, dove la caduta del potere temporale turbò gli animi della gente, anche campagnola, lasciandoli in un'aspettazione di altre novità, e in una scontentezza che facilmente si tramutava in satira acerba. Le sue rime esprimono appunto quel senso di delusione e di disagio, che angustiò molti animi, subito dopo il compimento della rivoluzione nazionale di cui il Ripamonti e il Mancioli s' erano fatti assertori e confermatori.

Energico e risoluto il primo sonetto (38) nel quale la poetessa deplora la miseria dell' Italia e lo scempio che ne facevano i nuovi governanti, veri lupi che le surchiano il sangue, ond'essa, dissanguata e sfinita, vien meno.

Lo scoramento della poetessa si fa ancora più tragico in un altro sonetto, balzato fuori in un giorno di speranza (di quella speranza che dà le ali ai primi sei versi), quando passò per Camerino il generale Fanti, il sale costò tre soldi il chilo; e non si pagava ancora l'aborrita tassa sul macinato.

Un certo tale, però, lo scettico di professione, non mancò di buttare acqua sul fuoco, avvertendo: Bada, signora, che la cuccagna non durerà; cresceranno i prezzi dei generi più necessari, sarà imposta la tassa sul macinato, e noi resteremo gabbati e minchionati.

Che la poetessa in questo sonetto, con abile mossa, rimandi i giorni scorati al futuro, conta ben poco, perché essa accenna, senza sottintesi, al presente.

Ne fornisce la riprova l'ultimo sonetto, dove il pessimismo si svela chiaro e tondo, con parole di fuoco :

« ..... Stu goernu
Che mejo comenzò d'un carnoale,
E po' è deentato pegghio d'un inferno ».

Per essere la poetessa una donna, di educazione assai fina e accurata, anzi una gentildonna, esperta di classici, cresciuta in famiglia della buona borghesia, bisogna riconoscere che grande è la violenza del linguaggio, come grande doveva essere l'avvilimento di tutte le classi sociali, comprese quelle che alla soppressione del dominio temporale avevano energicamente cooperato, col pensiero, col braccio, con le sostanze e spesso col sacrificio della vita.

Questa poetessa di provincia, che nutre nel suo petto femmineo così energici sensi (poco importa se fu cattiva vaticinatrice !), inizia nobilmente il novero delle poetesse dialettali marchigiane.

Vero è che alcune frasi dei suoi sonetti (Yardu splennore, la corona turrita, spezzar le catene, l'ale ha de cera, ecc.) hanno sapore letterario e scolastico, ma schiettamente popolari sono molte altre : famme la finezza (cortesia), ghia lo sale (il sale si vendeva), me sento un crepacore, su lu furimi (nel colmo) dell'immernu, ecc.; qualcuna, anzi, (phssegle lu core cioè trafiggigli il cuore) sale diritta dai dispetti tradizionali.

I tre sonetti della Procacci, benché lontani dalle scaltrezze e dagli artifici raffinati dei poeti posteriori, attestano studio della parlata ed anche della psicologia popolare, buon gusto, larga cultura, notevole destrezza nel verseggiare, e, sopra tutto, nobiltà di pensieri e di intenti, che ne raccomandano la memoria.

 

ALTRI  POETI

Oltre i cinque poeti ricordati, altri non pochi si ricollegano alla storia gloriosa del nostro Risorgimento :

G. B. Fiori, di Fabriano, che nel 1799 con un sonetto imprecava contro i francesi, rei di aver oltraggiata la religione;

G. B. Corrieri da Fossombrone che, non dopo il 1815, nel suo  testamento d' Cchin, lamentava i danni della eccessiva libertà (e avrebbe dovuto dire licenza) ;

Vittorio Tamburrini (di cui qui sopra) che nei suoi dialoghi si beffava di certi ufficiali da burla, buoni solo a far bravate e millanterie ;

Carlo Filippo Rosa, morto nel 1870, che con rime rudemente antipapali scherniva Pio IX e glorificava Garibaldi ;

e tutti coloro che dopo il 1870 o esaltarono i massimi personaggi del Risorgimento (Mazzini, Garibaldi, ecc.), o deplorarono l'abbandono in cui venivano lasciati i gloriosi veterani, o caldeggiarono l'irredentismo, o cantarono, a modo loro, le nuove imprese nazionali, come la guerra d'Africa o quella mondiale, o in altri modi si occuparono di avvenimenti e personaggi della nostra epoca eroica. Accenno a Duilio Scandali, a Palei mo Giangiacomi, ad Angelo Borgianelli Spina, a Odoardo Giansanti (Pasqualon), a Domenico Spadoni e a molti altri (39).

 

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NOTE

(1) Cfr. G. CROCIONI, Risorgimento, ecc.

(2) Di lui in A. LEOPARDI, Sub leg., p. 34-36, dove si riporta una parte della necrologia che ne pubblicò, nella Sentinella di Iesi, nel gennaio del 1887, C. Romiti, il quale ha dedicata, di recente, al Sassaroli, una conferenza, non ancora pubblicata.

(3) Che letterato fosse, e raffinato, dimostrerebbe, se non altro, il romanzo Gentile da Mogliano, dove tu senti lo sforzo dello stile e anche la sua vigoria. Cfr. le mie Marche, pp. 347, 450, e 490, dove pubblicai un sonetto, e Risorgimento, p. 25 e segg. ; nonché le pag. 50 - 63, dove pubblicai i 21 sonetti.

(4) Il sonetto descrive l'entusiasmo della popolazione per lo sperato passaggio di Garibaldi e si conchiude con questa terzina posta in bocca a un campagnolo entusiasta:

« Per issu... me learia l'occhi e li dènti !
Se vvò mòjema,... to', 'ncina le bò' !
E Dio proederà pe' sti somènti »,

che vuol dire : per Garibaldi farei qualsiasi cosa ; a lui darei tutto, anche la moglie, e perfino le vacche (le bó'); Dio poi provvederà a darmi modo di fare le semine (soménti), che si tanno appunto col mezzo di quelle. Ora ecco qui le tre varianti dell'ultimo verso:

— ce aèsse da spianta', scima contènti —
— e se ce ò' fa' marcia', scima contènti —
— 'nciamente de marcia' scima contènti —

nelle quali: spianta = mandare in rovina ; ò' = vuole ; 'nciamente = perfino, finanche.

(5) Di lui, A. LEOPARDI, Sub teg., pp. 31-34. Nella biblioteca comunale di Macerata si conserva di lui un bel ritratto, oltre i mss. dei quali qui appresso.

(6) Lo apprendo da certe sestine, intitolate : Due false elezioni di stato, (in un ms. presso di me), dove lo confessa lo stesso autore. In capo alle sestine si legge : « canto 111», forse con riferimento a un poema del quale non ho altra notizia.

(7) 11 triste episodio che risulta dal ms. 1, (v. qui appresso), p. 498 e seg., dette la stura a molte rime dialettali, a una favola lunghissima, e a code su code.

(8) Risulta dalle sue rime luminosamente ; ma si legge in LEOPARDI, op. e loc. citt

(9) Cfr. la sua bibliografia, più avanti.

(10) Cfr. G. CROCIONI, Risorgimento, pp. 70 - 73.

(11) Cfr. G. LETI, Prete, poeta e patriotta (G. Mancioli) in Archivio marchigiano del Risorgimento, Senigaglia, 1906, pp. 43 *egg.

(12). Se ne tocca qua e là nei mss. Dal ms. in mie mani si ricava che un sonetto dei più indovinati fu stampato alla macchia, e corse per la città. I carabinieri, incaricati di scoprire l'autore, rovistarono la casa del Mancioli e l'officina di un tipografo, ma non trovarono nulla. Egli allora li mise in burletta con un altro sonetto (n. 18), e ristampò il primo, con un cappello in prosa; poi ne scrisse un altro (n. 21), (che certo non avrà pubblicato!) dove, con una specie di ingenua sciarada, rivelò il suo cognome :
« Ma eppò n è le lettore apprima
De lu cognomu, eppò schiaffa lu i
Ntramenzu a e e lu o, che ja ce scima,
E 1' hi mpastatu, se ce gghiugni li... ».
E seguitò a ridersela con altri sonetti ancora (22, 23).

(13) Ringrazio l'amico Dott. G. Spadoni, che mi ha agevolato la lettura di questi mss.

(14) Vedasi la biobibliografia. Il ms. presso di me mi fu consegnato dal Sig. Giuseppe Perfetti.

(15) Ometto, per brevità, la indicazione delle pagine.

(16) Tema analogo a quello trattato dal Ripamonti.

(17) In questi mss. sono da osservare alcuni fatti : che l'a. lasciò gli spazi necessari per la traduzione dei componimenti in lingua, che il più delle volte non fece ; che vi si annunziano molte note, non registrate ; che di molti componimenti v'è solo il titolo ; che mancano qua e là molte carte, sostituite con fogli in bianco, ecc.

(18) Il Ripamonti fu poeta più concettoso e conciso, scrittore più raffinato. Molti dei componimenti politici e civili del Mancioli meriterebbero d'essere pubblicati e illustrati, anche come documenti storici particolarmente significativi.

(19) Componimento lunghissimo, nel ms. 1.

(20) Nel ras. n. 2.

(21) Ne possiede le stampe l'onorando P. Clemente Benedettucci, che me le ha gentilmente prestate.

(22) Fatto notevole e curioso : quel componimento del Mancioli riportato dal Leopardi (p. 83 - 84) risulta di versi sparsi qua e là nella serenata, rivolta, al pari di questo, a una Tetella, che può essere, appunto, Teresina Leopardi, versi, la maggior parte saltellanti e dattilici CPer Tetella, che ade la più bella -N'fra le stelle la stella più bella), seguiti dagli endecasillabi del rispetto e dai settenari del coro, e interrotti da versicoli di varia misura e ingentiliti da rime interne.

(23) V. P. 33 - 35.

(24) Sub Ug., PP._61 -10L

(25) In alcune di queste pasquelle si leggono lodi alla padrona (per indurla a più cospicui regali, indicati con i loro nomi), accenni alla stagione e alla mangiata finale, il tutto conforme alla tradizione. Una pasquella ha scritto di recente (1930) Vincenzo Castelletti, in dialetto di Offida.

(26) Allo scherzo sono premesse la dedica agli sposi, in dialetto, e una filza di scolorite sestine (AA BB CC).

(27) Ms. n. 2, pp. 190 segg.

(28) Cfr. A. LEOPARDI, Sub tegmine, pag. 83-84; e pag. 51 qui sopra e n. 2.

(29) Si può leggere in MARIO LIVIO PIATTI, Picenum, Libro per gli esercizi di traduzione dal dialetto delle Marche, Luigi Trevisini, Editore, Milano, voi. HI, pp. 19-20 (dalle poesie inedite).

(30) Ms. n. 1, in fine.

(31) Il Cav. Marmocchi mi assicura che la pubblicazione fu curata dal Prof. Passerini. Comprende 215 sonetti, più una canzonetta.

(32) Senonché il maestro Alessandro Brunetti, cui l'a. soleva leggerli, ne serbò copia, mostrata poi al Mannocchi, che li trascrisse, legandoli, con le altre sue opere manoscritte, alla comunale di Fermo, dove sono conservati.

(33) Cfr. LUCIO MARIANI, La cavalcata dell'Assunta in Fermo. R. Soc. rom. di storia p., Corso pratico di metodologia della storia, fase. V. Roma, 1890.

(34) In Risorgimento, pp. 60-79.

(35) Cfr. la bio - bibliografìa.

(36) Si veda che cosa pensò del Tamanti A. Leopardi (Sub teg., p. 34).

(37) Nata a Spoleto (1825), morta a Camerino (1915), visse a Muccia. Ebbe cultura soda e varia. Scrisse poesie italiane, in gran parte inedite. Pubblicò 3 sonetti dialettali di lei, » soli conosciuti, il Prof. Aristide Conti, in Cronaca marchigiana, IX, 6 (22 marzo 1884). I ms». della Sig.ra Procacci Doncecchi sono conservati dal eh. Prof. Cav. Mario Mariani di Camerino, che mi ha fornite queste notizie, delle quali lo ringrazio.

(38) Ne parlò A. Leopardi, Sub tegmine fagi, p. 43-44, che riporta un altro sonetto di lei a p. 82.

(39) Vedasi il mio Risorgimento, da capo a fondo.