HOME Concorso 16

XVI°  Concorso  2017
PARTE ANTOLOGICA

Home Bramante Busignani

 

TRA URBINO E IL PARADISO

ovvero: Urbino di Bramante mio padre

di Luca Busignani - Cagliari

 

e' un posto sospeso tra sogno e realtà..

un ponte da attraversare col cuore in mano

e le emozioni accese.. un luogo talmente bello

e magico, da far dubitare della sua reale esistenza..

 

Esiste un posto a pochi passi da Urbino dove è possibile sognare. Me lo aveva indicato un anziano del luogo quasi come un angolo segreto da cui si sarebbe potuto ammirare il paesaggio più bello che gli occhi avrebbero mai conosciuto, che il cuore avrebbe mai potuto sentire. Nonostante conosca Urbino da quasi cinquant’anni ne ignoravo l’esistenza e curioso, ho voluto seguire il consiglio di quella gente dall’anima semplice la cui vita era trascorsa  respirando arte e bellezza. Ci si arriva passando per una delle antiche porte della città che si aprono sul centro storico. Forse Lavagine o la porta di Santa Lucia. “Bisogna andarci sul tardi, tra il tramonto e la notte se vuole godere dello spettacolo più suggestivo”, mi consigliò quella persona dai modi pacati e gentili sotto i portici del bar Basili.  Subito svoltato a sinistra ci si trova quasi in aperta campagna dove le pietre e i mattoni lasciano spazio a siepi e alberi verdissimi allineati lungo una breve strada sterrata ricoperta da un folto manto d’erba bagnata, dagli steli lunghi e morbidi che trattengono per qualche secondo l’impronta di ogni passo. La breve e stretta strada di campagna si sviluppava sopra una sorta di dosso longitudinale alto poco più di un metro e scosceso sui lati ricoperti di erba e muschio. Sulla sinistra, oltre la profonda cunetta e la fitta vegetazione, si poteva scorgere l’imponente parete muraria roveresca che cinge la città antica.

 

Amici di Busignani da sx: Renzo, Alfio, Bramante, Lullo e Fio

 

Nonostante indossassi pesanti scarponi da montagna dal fondo resistente i miei passi erano incerti su quella superficie umida e fangosa. Sentivo dentro di me più il timore di perdere l’equilibrio e scivolare che la curiosità e il desiderio di scoprire quel posto tanto evocato. Con incedere precario, dopo pochi passi, mi sono ritrovato in un grande spazio aperto dove il livello del terreno declinava dopo pochi metri in un profondo pendio. La fine della mia camminata era obbligata. Mi rendevo conto di non essermi allontanato troppo dal centro abitato ma nello stesso tempo mi sentivo immerso in mezzo alla natura dato che ogni mio senso era sollecitato da quell’atmosfera sempre più magica e misteriosa. Sentivo dentro le ossa l’umidità della sera, udivo i rumori della città sempre più lontani e quelli del vento e dei cespugli sempre più distinti, il profumo dell’erba bagnata e del muschio sempre più intensi, mentre lo sguardo, che fino a quel momento è stato quasi sempre rivolto verso i miei passi insicuri, cominciava a sollevarsi. Non si può dire di riuscire ad amare qualcosa o qualcuno nel modo più profondo quando si ritiene di farlo “in tutti i sensi”. Per poterlo sostenere occorre andare oltre, occorre amare “con tutti i sensi”. Sentire quell’amore trascendere anima e cuore per manifestarsi attraverso ogni organo di percezione in uno scambio reciproco dove causa ed effetto si confondono. Amo Urbino perché amo il suo profumo. Quello dei suoi muri, delle pietre, dei suoi vicoli. Ma, all’opposto, sento di amare l’odore delle case, degli aromi che arrivano dalle finestre, delle foglie e dei fiori del Pincio perché amo Urbino. E questo scambio d’amore è facilmente applicabile a tutti gli altri sensi che percepiscono e amano i suoni, le immagini, i colori tenui, i sapori delle cose di Urbino, fino al desiderio del suo contatto materiale.

Cercavo un punto d’equilibrio, una posizione comoda ma più che altro sicura per poter senza timore sollevare lo sguardo e cominciare a scoprire l’oggetto di quell’accorato consiglio. Man mano che alzavo la testa vedevo scorrere dal basso verso l’alto la valle profonda dove il verde si era fatto grigio per il calare della notte, un grigio schiarito e acceso da una enorme luna la cui luce rendeva argentato il panorama che si stava apparecchiando ai miei occhi. Con le gambe ancora insicure cercavo di affondare gli scarponi sul terreno molle per evitare di scivolare, non solo per la precarietà del fondo, forse più per la scossa emotiva che mi aspettavo da lì a qualche secondo. Tra sensazioni e loro espressione esiste una distanza infinita. Questa distanza può essere annullata solo da un grande talento artistico capace di creare immagini, poesie, romanzi, musiche, sculture .. Per questo non mi è facile descrivere l’immagine che mi è apparsa davanti agli occhi. Filtrato da un velo di nebbia liquida riuscivo a scorgere in lontananza un paesino illuminato abbracciato da due montagne dal colore blu scuro. Come un grande presepe acceso da mille piccole luci il paese riposava adagiato sul lembo più basso del declivio per chiudere il perimetro luminoso nel tratto dove il pendio muore nella pianura. E’ bastato un accennato spostamento della testa per scorgere più a sinistra un altro paesino, questa volta più piccolo, incastrato tra le pareti di altre due basse montagne, avvolto dalla stessa atmosfera dell’altro centro abitato. L’orizzonte, appena percettibile, era disegnato dal profilo delle colline e un velo sospeso e morbido di nebbia attraversato dai raggi della luna, sfuocava l’immagine di quel paradiso rendendolo molto simile ad un sogno. Sono stato per qualche minuto a contemplare quello scenario incantato col pensiero che non solo Urbino è così bella ma è bellissimo anche ciò che le stà intorno percependo la stessa sensazione mista tra ammirazione, serenità e appagamento che provo quando di primo mattino percorro nel silenzio via Vittorio Veneto fino alla piazza Duca Federico avvolto da un caldo senso di bellezza.  Poi all’improvviso mi sono ricordato del suggerimento del vecchio saggio urbinate che mi aveva raccomandato di voltarmi alle spalle, “ma lentamente”, dopo aver ammirato lo spettacolo della vallata.

“El sann’ in pochi ma quello che le stò indicando sappia che è l’unico punto da dove si può vedere il Palazzo Ducale che dorme”, mi disse partendo dal dialetto e proseguendo in italiano dopo che si era accorto che non ero del posto. “Per questo lo si deve andare a visitare la sera dopo il tramonto”.

Cominciai a voltarmi facendo sempre molta attenzione al fondo viscido e fangoso pensando di tenere sempre pronte le mani a protezione di possibili cadute. In quei brevissimi istanti mi chiedevo cosa potesse significare il Palazzo Ducale che dorme immaginando la sua stupenda facciata immersa nel totale buio della notte una volta spenti i potenti fari,  quasi come per concederle un meritato riposo dopo aver dominato e irradiato tanta bellezza alla città durante il giorno. Invece il senso era un altro. Il palazzo era sempre illuminato così come avviene per tutta la notte ma, non sò per quale strano fenomeno, appariva dolcemente reclinato all’indietro con i torricini piegati quasi di quarantacinque gradi verso la piazza Duca Federico. L’intera struttura frontale era adagiata all’indietro come se poggiasse su un soffice cuscino, come se a quell’ora dovesse concedersi il meritato riposo dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro. Impressionato non più di tanto da quella angolazione  insolita e dolce, ho voluto aver conferma che non si trattasse di una falsa prospettiva causata dalla mia posizione o dal mio asse visivo non perfettamente parallelo rispetto all’orizzonte. Cercavo di tenere la testa più dritta possibile per confrontare le linee del palazzo con quelle degli edifici vicini. Cercavo di riportare l’intero paesaggio in una proiezione prospettica omogenea, ma niente. I torricini dormivano realmente e il resto, dalle mura al primo torrione, dal teatro al campanile del Duomo, erano assolutamente verticali. Tra il mio punto di osservazione e il palazzo si trovava una piccola collina dal profilo tondeggiante e smussato ricoperta da un soffice tappeto d’erba verde che pareva facesse da giaciglio al monumento ducale. La mia iniziale incredulità lasciava lentamente spazio a una sempre più coinvolgente  contemplazione di quel fenomeno tanto improbabile quanto sorprendentemente armonioso se inserito all’interno dell’intero scenario naturale. Da una parte i due piccoli paesini illuminati come presepi e distesi ai piedi di due grandi colline, coperti da un lenzuolo di foschia attraversato dalla luce gialla della grande luna. Dall’altra, la parte alta della città ducale con i suoi torricini adagiati all’indietro quasi ad accompagnare il riposo degli urbinati. Non avevo mai provato una sensazione di maggior benessere pensando, in quel momento,  di essere arrivato a contemplare la massima espressione della bellezza. Desideravo riempire il più possibile occhi anima e cuore di quella grazia estetica che nutriva i sensi e l’intero spirito, ma era arrivata l’ora di tornare indietro. Cominciavo a sentire un qualcosa che mi richiamava e che forzava la mia voglia di restare ancora lì a contemplare quell’incanto. Ma la delusione di dover lasciare quella collina era smorzata dalla decisione di seguire quel richiamo. Sempre con la stessa attenzione e prudenza ripresi la via del ritorno attraversando la stretta stradina umida e scivolosa che mi aveva portato in quel posto. Senza voltarmi indietro e con lo sguardo sempre rivolto al terreno da calpestare accelerai il passo attirato da quella voce silenziosa a cui non potevo resistere. Svoltato a destra una volta lasciata la campagna ho di nuovo attraversato la grande porta d’accesso al centro storico per ritrovarmi in un piccolo vicolo della città dove erano parcheggiate su un lato una fila di macchine  che rasentavano il muro. Il senso di felicità che mi portavo dietro, impresso dallo spettacolo poco prima ammirato, rimase immutato quando a pochi metri da me è apparsa la sagoma di un uomo che, aperta la portiera, è sceso da una di quelle auto posteggiate. Aveva l’aria felice come quella di chi stà  per partire per un lungo e piacevole viaggio. Ne aveva un’altra triste come quella di chi stà lasciando per sempre qualcosa di amato. Con un braccio poggiato sul tetto dell’auto era lì che mi attendeva nel suo abito chiaro con la camicia semi aperta, la carnagione abbronzata, gli occhiali da vista dalle grandi lenti e i capelli grigi lunghi quasi all’altezza delle spalle. Era lui, era mio padre. “Luchin mio, mi disse, se ripassi un giorno al bar Basili magari ti potrò dare un altro buon consiglio. Ci sono tanti altri bei posti vicini al paradiso” . Non mi sono avvicinato a lui e nemmeno lui a me. Ci guardavamo a distanza come se quella distanza bastasse per farci sentire uniti. Non abbiamo più parlato, come se quel silenzio ci urlasse il nostro amore. Gli occhi dell’uno si limitavano ad osservare una lacrima che scivolava sul viso dell’altro.

E’ stato a quel punto che ho pensato che sarebbe stato bello non svegliarsi più.