HOME SANCHINI | Athos Sanchini MEMORIA DEL TEMPO E DEL CONFINE |
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L'IDEALE DEL NERO
Nella Teoria estetica di Adorno vi sono alcune pagine piuttosto note che sono riconoscibili all'insegna dell' "ideale del nero": "per sussistere in mezzo ai momenti estremi e più cupi della realtà", afferma il filosofo, "le opere d'arte che non vogliono vendersi come consolazione devono farsi uguali a quelli". E l'ideale del nero: "dire oggi arte radicale è lo stesso che dire arte cupa, col nero come colore di fondo", così che in definitiva" l'ideale del nero è uno dei più profondi impulsi di astrazione". Da quei decenni ormai non vicinissimi nei quali queste parole venivano scritte, la comunicazione visiva si è mossa con inquietudini pronunciate, così da insistere, quanto ai suoi stessi sovvertimenti strumentali, sulle componenti eteronome, extracategoriali, dei suoi fondamenti costitutivi; in questa direzione il nero è diventato sempre più una metafora e sempre meno un riferimento letterale, è cioè diventato un umore, un clima, un tic e per comprenderne l'immanenza è stato necessario decodificare gli assemblaggi materiali e tecnologici, dei quali sempre più spesso l'arte si serve, nel clima sociale entro il quale essi pescano e nel quale tendono a rituffarsi. Non è cosi per l'incisione, che è una tecnica invariante alla base. In essa il "nero" può continuare a essere nero, tanto che - per concludere su Adorno - "nell'impoverimento dei mezzi, che l'ideale del nero comporta, si impoverisce anche il frutto del poetare, del dipingere, del comporre; le arti più progredite immettono un'energia vitale in ciò che si trova ai limiti dell'ammutolimento". In questi lavori di Sanchini il bordo nero dell'ineloquenza è sempre pronto a garantire la severità problematica di questa tentazione del nichilismo. La seduzione del cupo che vi si sprigiona è, tornata alla base della lettera adorniana, una interpretazione del mondo alla quale la trama paradigmatica della storia offre uno scenario presupposto e non descritto. Ma, dal punto di vista autoreferenziale, di quale "nero" si tratta? Per comprenderlo occorre pensare all'altro, a ciò che nero esplicitamente non è, a come il nero entri in una ossessione dialettica, o quantomeno dialogica, con il resto. Esso è dunque in quei sistemi reticolari e tattili che funzionano da elementi di separazione, di difesa-offesa, di barriera-falange, tanto da far pensare alla duplicità del cancello, segno-simbolo di ben nota origine conteso tra apertura e chiusura, perforabilità visiva e preclusione invasiva, esaltazione, se mai altre ve ne siano, della vana onnipotenza dell'occhio. Queste strutture di cancelli o siepi, assiepate appunto contro uno spazio ritenuto troppo indefinibile per essere abbandonato a se stesso, difendono dal dilagare dell'immaginario e tentano di ridurlo alla misura umana del simbolico. Ben pochi sono gli accenni al naturalismo in queste tavole di Sanchini, se non per le fornirne elementari e astratte che il mondo non manipolato può offrire (ma a proposito: esiste .ancora un mondo non manipolato? non dico fisicamente, ma almeno psicologicamente-. Qui si tratta di elementi sferici, globulari-oculari, elementi biologici quali vesciche o membrane. Vi è un che di fisiologia cosmica, dove organico e inorganico si confondono forse svelando una più o meno misteriosa origine comune, qualcosa come una prospettiva planetaria elastica e gommosa, talvolta ventrale. L'atmosfera che avvolge questi scenari, carichi di cellule ingigantite, è quella di una "solarità", o per meglio dire eliofobia, da day after, una luce purulenta e chimica che travasa a volte il proprio siderale sgomento nella luce di neon e ghiaccio tritato di certi notturni lunari. Sono allora questi elementi sferoidali, lontanamente organici, a essere "cancellati" da tratti fitti di lische, da concentrazioni di aculei, da fascine di spini ("Caino e le spine" è una sorprendente definizione che Dante dà della luna-. È così che ritorna la pluralità simbolica dell'atto del cancellare, potenziata da questo stato di interferenza che viene attivato dal rapporto con l'altro. Le avventure metamorfiche del cancello, potenziando il sistema voyeuristico, simulano esse stesse le curve dell'occhio come dimensioni prospettiche e sperimentali dislocate, così che compaiono piani diversi, differenti messe a fuoco, secondo la prospettiva più o meno avvicinata o allontanata. L'occhio, nella sua vana onnipotenza, viene a patti con lo spazio e finisce per lasciare tracce continue e dislocate della propria presenza dentro la continuità siderale, e cosi traccia delle "firme", ferma appunto lo spazio con la presenza di sé come sguardo onnipotente e inutile. In tutto ciò, in questa autocarcerazione del "cancellare" e in questa proiezione "orbitale" e oculare che è l'interpretazione del mondo, vi è forse una tentazione cosmogonica, un sogno di compiutezza. Esso sembra essere definibile in modo duplice, sia in rapporto alla perfettibilità del tutto, sia in relazione al pensiero del limite-orizzonte; quest'ultimo, nel momento stesso della sua definizione, richiama la convenzione delimitativa ed "esclusiva" tanto necessaria al raggiungimento della misura da parte di ogni artista che, al pari di colui che qui ci accompagna, sia definibile in senso forte. È per questo che si potrebbe pensare a questa aspirazione cosmogonica come alla metafora dello spazio stesso dell'arte, visto dalla parte della sua mente progettante nell'atto di segnare dei confini o orizzonti. Giorgio Luzzi Febbraio 2003 |