Home Urbinati indimenticabili

Dott. GAETANO  SAVOLDELLI  PEDROCCHI

Il Saggio Magistrato

 

 

Biografia

Hanno detto

Necrologi su n.2/2005:
"ACC. RAFFAELLO: Atti e Studi

Commemorazione del  17-05-2005 Avv. Giovanni Chiarini Commemorazione del
25-11-2005 Accademia Raffaello
Presidenza Accademia Raffaello

 

In memoria del Presidente Gaetano Savoldelli Pedrocchi

Necrologi pubblicati nel fascicolo N.2/2005 di Accademia Raffaello: Atti e Studi:

(1) Alessandro Santini, Avvocato nel Foro di Urbino e vicepresidente dell’Accademia Raffaello

(2) Silvia Cecchi, Sostituto Procuratore della Repubblica del Tribunale di Pesaro

(3) Mario Luni, Docente e Ricercatore in Archeologia presso L’Università degli Studi di Urbino

(4) Lorenzo Furlani, Direttore responsabile di ACCADEMIA RAFFAELLO Atti e Studi

(5) Giorgio Nonni, Docente presso l’Università degli Studi di Urbino

(6) Dante Bernini, Sovrintendente (ad Urbino 1975-78) e Redattore capo di ACCADEMIA RAFFAELLO Atti e Studi

Commemorazione del 17-05-2005:

 (7) Giovanni Chiarini, Avvocato nelle sedi di Urbino, Pesaro e Chieti, già Maresciallo nella Polizia Giudiziaria dell'Arma dei carabinieri

 

N.B.  Cliccando sui nomi in grassetto si possono leggere i rispettivi scritti integrali.

 

[ritorna agli estratti]

 

 

ALESSANDRO SANTINI (1)

Vice Presidente dell'Accademia Raffaello

 

Testo dell'intervento del 16 maggio 2005 in occasione dell'inaugurazione della Settimana dei Musei 2005 a cura della Soprintendenza di Urbino.

 

L'Accademia Raffaello è vivamente grata alla Soprintendente e alla Soprintendenza per aver deci­so di inaugurare la Settimana dei Musei con il ricordo del nostro Dottor Gaetano Savoldelli. Chi vi parla ha avuto la ventura, la fortuna di essere amico di Savoldelli - per noi Toto - fin dalla prima giovinezza, dalla adolescenza, e di conoscerlo in tutte quelle che sono state le sue attività e vicissitudini.

Toto rimase orfano prestissimo ed ebbe delle difficoltà che solo con la tenacia e la volontà riuscì a superare. Venne ad Urbino a fare l'istitutore al Collegio degli Orfani e qui conseguì la licenza liceale - liceo classico naturalmente - e dopo aver preso la licenza, egli sostenne gli esami di concorso per Cancelliere ed esercitò questa attività presso la Pretura di Urbino per tre anni almeno.

Quindi conseguì la laurea, laureandosi in Procedura Penale con Conso, del quale fu allievo, ammiratore e estimatore. Dopo qualche tempo superò anche gli esami da Magistrato e divenne prima Pretore, poi Giudice al tribunale di Ravenna, poi ancora Sostituto Procuratore della repubblica, qui in Urbino, e infine Procuratore della Repubblica qui in Urbino e poi a Pesaro.

Era Toto un uomo pieno di volontà e di tenacia, un appassionato d'arte, architettura e archeologia. Quando esercitava la sua funzione di Magistrato concepì anche la posizione del Procuratore della Repubblica come la posizione di un Giudice: non fu mai un persecutor ma ebbe sempre netta e precisa la volontà di rispettare quella che era la personalità e i diritti degli imputati. Era la cultura che si era formato, la sua attenzione per Beccaria, Pagano, fino a Conso. Aveva una profonda conoscenza dei meccanismi del Codice di Procedura, ma anche una profonda coscienza nell'applicare il Diritto Penale Sostanziale.

Fece tante brillanti operazioni come investigatore: egli aveva acquisito una conoscenza degli uomini, delle cose e delle situazioni, per cui non aveva più il problema di uniformarsi a quelle che erano le apparenze; sapeva andare sempre a fondo nelle coscienze. L'esperienza gli aveva insegnato che l'esercizio del Diritto e della professione concepita — lasciatemelo dire — come missione, ne avevano fatto di lui un Magistrato eccezionale, un Procuratore della Repubblica sui generis, che sapeva quali erano i limiti e i doveri che lo stesso Procuratore nelle vesti di accusatore doveva avere. Egli non era tanto il persecutor - dicevo - ma era soprattutto il difensore della Legge. Ha concepito il rapporto con la Procura e la sua attività di Procuratore come "difensor e del vincolo", si direbbe in Diritto Canonico.

Era un uomo, quindi, che aveva degli interessi molteplici: aveva una conoscenza delle cose e degli uomini . Tutto questo gli consentì delle brillantissime operazioni di polizia giudiziaria. Io penso che qui tutti, o almeno quelli che hanno una certa età, ricordano la vicenda del furto dei tre quadri, la Flagellazione e la Madonna di Senigallia, di Piero della Francesca e la Muta di Raffaello. Egli in quella occasione, coadiuvato dal Capitano dei Carabinieri Sabino Battista, recentemente scomparso, ancor giovane, e dall'allora ragazzo, o quasi, Maresciallo Giovanni Chiarini, che è presente fra noi e al quale propongo di fare un applauso per i meriti , riuscirono - dicevo - a discoprire che erano gli autori del furto, poi a seguire i quadri che erano finiti in Isvizzera, a riportarli in Urbino al suono delle campane, festeggiati da tutta la popolazione. Gaetano Savoldelli Pedrocchi era in definitiva un uomo poliedrico colto, con uno spirito che non esito a definire di umanista. Egli ci ha insegnato tante cose. Io ho avuto la fortuna di essere amico suo, dicevo, fin dalla prima giovinezza, dalla adolescenza, e quando egli venne nominato, eletto, Presidente della Accademia Raffaello, avvalendosi di una norma di quell'antico Statuto che regge l'Accademia, volle che io accettassi la nomina di Vice Presidente, che era ed è ancora nominato dal Presidente, di sua libera scelta, non eletto dall'assemblea come membro del Consiglio.

Toto in definitiva è stato un uomo di grande dimensione. Egli quando in un' occasione ebbe a dire che doveva tutto a questa nostra Città, si sentiva Urbinate, "semel Urbinas, semper Urbinas", diceva Branca Bettiol. Toto era dunque un uomo che aveva per Urbino una particolare passione. Noi non possiamo non ricordare che egli disse che doveva tutto a questa nostra Città, perché quello che aveva avuto nella sua vita lo doveva a Urbino e agli Urbinati. Io dico: è vero questo e forse è vero che egli poteva avere anche di più, ma quel che è certo è che tutti noi, tutti, dobbiamo a lui molto di più di quello che egli ha ricevuto.

Lasciate che chiuda dicendo: grazie, Toto, grazie!

 

 

[vai INIZIO di questa pagina]

[ritorna agli estratti]

 

 

SILVIA CECCHI (2)

 

Sostituto Procuratore della Repubblica del Tribunale di Pesaro

 

Tra i molti ricordi personali che Gaetano Savoldelli Pedrocchi, Procuratore della Repubblica di Pesaro dal 1986 al 2001, nei primi quindici anni in cui sono stata suo sostituto, ha versato in me, ve ne è uno che mi appare oggi emblematico della sua doppia anima di giurista-magistrato e di artista, e che si presta a indicare un bivio, una scelta fondamentale nella storia della sua vita.

Mi raccontò di aver distrutto un principio di romanzo autobiografico che aveva appena cominciato a scrivere, intorno ai vent'anni. Era allora già orfano da dieci e, come soleva dire, si era fatto allevare dai libri. Di quelle prime pagine perdute ricordava ancora qualche immagine e, per quanto mi riguarda, ho ancora davanti agli occhi l'inquadratura di un ragazzino che passeggia per le vie di Pesaro, in ora deserta, risalendo i viali del lungomare, solo, senza compagni, spaesato e come intimidito dalla recente orfanità. Batte le vie secondarie, finché non riconosce sul muro di un vicolo in ombra ancora un manifesto a lutto in cui legge il nome del padre, con i lembi già sollevati, che la brezza di mare ha scollato e che vede tremolare nell'aria della via.

Da poeta che si sentiva in cuore, Savoldelli decise a vent'anni che sarebbe divenuto un ‘uomo borghese', come gli piaceva dire sorridendo, un professionista, quale egli fu (se pure amasse piuttosto definirsi, non senza orgoglio, un 'dilettante'), uno dei più fedeli e geniali magistrati al servizio dello Stato.

Con dolore mi accorgo di guardare oggi alla sua vita dal punto di vista della sua morte, e se la cosa mi sgomenta in profondo (ancor di più se penso quante volte, per motivi professionali, fu lui a introdurmi al ‘pensiero impossibile', ad accompagnarmi nel mistero inviolabile della morte), se ancora sono affranta da questa indicibile perdita, tuttavia prendo atto che la morte è il momento del "montaggio della vita", come diceva Pasolini, il vertice dal quale è dato davvero riguardare nell'interezza e dare senso ad una vita. Non incompiuta, come temo Savoldelli ritenesse la propria, nella malinconia pensosa degli ultimi mesi (ma quale vita può dirsi senz'ombra di dubbio compiuta?), sibbene davvero e perfettamente compiuta. Non smarrita nel sospetto di una mancanza di senso, così incombente sulle cose umane, come il pessimismo ironico di Savoldelli lo induceva a dichiarare agli amici di conversazione, bensì vita che dà ora soprattutto il suo più perfetto frutto, come il chicco di grano del versetto evangelico di Giovanni.

Quasi dobbiamo essere debitori alla morte di un uomo come lui, e riconoscere che essa rende possibile una più completa e profonda trasmissione di sapienza, come un rito di passaggio, rinvestitura di chi resta, virtù propria dell'alto statuto simbolico che alla morte compete.

E dunque non posso che cominciare dalla fine, anche se molto brevemente, prima di parlare di Savoldelli magistrato.

Negli ultimi mesi, ricordo di averne parlato con gli altri amici e colleghi che più spesso l'hanno visitato e che ebbero la mia stessa impressione, Savoldelli ha espresso quello che a pochi uomini accade di esprimere nella fase ultima della vita, nella stretta della malattia: la perfezione della propria forma. Ricordo la sua misura, la sua eleganza, il suo pudore, la decisione di non farsi mai fuorviare da pensieri insostenibili o disperati, l'equilibrio, l'affabilità (la volontà di restare affabile), l'ironia, il calore che dispensava a chi andava a trovarlo, senza mai coinvolgere nessuno nei suoi pensieri più ardui, che già certamente volgevano a vertici lontani, oltre noi e la contingenza. Ricordo la sua premura costantemente rivolta agli altri, a noi di cui domandava ad ogni incontro, ai nostri cari, al nostro comune lavoro, ai comuni amici, alle ultime vicende giudiziarie e istituzionali: sempre con uguale impegno nella comunicazione, senza che le preoccupazioni lo distogliessero dall'adesione al mondo degli affetti e della professione.

Ma di sé e della propria pena segreta non disse mai nulla e non solo per tutelare i suoi famigliari dall'imminente dolore: la morte ormai a portata di mano, non fu mai nominata.

Solo un pomeriggio mi raccontò, quasi per caso, di aver trascorso molte serate di un'estate recente a dibattere con il suo carissimo amico e latinista Italo Mariotti sulla miglior traduzione dell'oraziano 'carpe diem' e di aver convenuto con lui che 'cogli l'attimo fuggente' ne era traduzione debole, insoddisfacente: meglio: 'ruba l'attimo', 'strappalo'; anzi, aggiunse, il verbo giusto c'è solo in dialetto urbinate: 'scarpisc el giorn', e ne sorridemmo insieme.

E ancora: uno degli ultimi giorni in ospedale, dopo aver preso atto con semplicità che ormai non si sarebbe più alzato dal letto, m'indicò un puntino quasi invisibile sull'angolo del muro di fronte e commentò con delicatezza triste: " guarda il ragnetto smarrito... ".

Gli avevo detto, qualche settimana prima, in occasione di una visita in casa, che avevo trovato il nome giusto per questo suo prezioso modo di essere, per questa sua filosofia della relazione, della vita e della morte: l'avevo battezzata 'stoicismo gentile', e cioè dolce, mite, per contrapporlo allo stoicismo di stampo eroico, troppo magniloquente per le sue corde. Aggiunsi che di questa cosi rara corrente di pensiero, etica, sentimentale e filosofica a un tempo, l'avrei considerato d'ora in poi il caposcuola: lui accolse divertito e commosso, come talora faceva, questo mio parlare in libertà.

E' straordinario come abbia saputo corrispondere, nella prova estrema, al senso profondo delle parole che aveva sempre detto, agli ideali che aveva sempre sostenuto, così assolutamente all'altezza dei principi di vita che si era dato, fino a incarnarli compiutamente e con apparente naturalezza. Ne sono testimoni, come me, i colleghi Di Patria, Casula, e ancora mio padre, mio marito e mia figlia, che hanno condiviso con me talune delle ultime visite.

Forse perché possedeva una rigorosa etica della finitudine e quindi un'accettazione della vita nei suoi limiti inderogabili, oltre i quali sapeva di non dover chiedere nulla, quando capì che la vita volgeva alla fine, entrò nel silenzio.

Per questo io credo che ci abbia davvero donato la sua morte, per usare un'espressione che dà il titolo a un bellissimo saggio filosofico di Jaques Derrida, del quale pure insieme ragionammo un pomeriggio di febbraio.

 

Savoldelli magistrato. Del suo modo di essere magistrato, di concepire il ruolo del Giudice e del Pubblico Ministero possono certamente testimoniare tutti coloro che l'hanno conosciuto. Possono testimoniare tutti i colleghi, tutti gli avvocati, al pari e meglio di me.

Al momento di scegliere la sede di lavoro, quando si aprì la possibilità, per me, di scegliere Pesaro, nel 1986, perché vi erano al momento dei posti vacanti, ricordo che il Presidente Casula al quale all'epoca ero affidata come uditrice, mi disse alla lettera queste parole: "Se ti va tonda, avrai la fortuna di avere per Procuratore uno dei migliori Procuratori d'Italia". Savoldelli era infatti in procinto di trasferirsi da Urbino a Pesaro. Iniziò così un rapporto professionale durato quindici anni: questa sola fortuna mi legittima forse a dire qualcosa di Savoldelli magistrato in luogo dei colleghi più anziani e sicu­ramente più meritevoli di me.

La lezione di Savoldelli magistrato la comprendo sino in fondo solo in questi ultimi anni. Della giustizia e della nostra professione aveva sicuramente una visione molto alta: ne ha sempre difeso strenuamente e in modo instancabile l'autonomia, il prestigio, la dignità, l'indipendenza da ogni altro potere; in questo senso ha esercitato le sue convinzioni anche nei lunghi anni di attività asso­ciativa nell'A.N.M. e nel Consiglio Giudiziario. E in un'epoca come l'attuale, in cui c'è una certa confusione sul modo di intendere il ruolo dei giudici e soprattutto del pubblico ministero, la lezione di Savoldelli ci è ancor di più preziosa. Della giustizia (delle cose del mondo in generale) aveva inoltre una visione profondamente laica, e cioè di uno spazio neutrale entro il quale accogliere e comporre le istanze più eterogenee, la pluralità dei fatti e delle interpretazioni, tutta la complessità e fragilità della condizione umana, in ogni suo aspetto, dove ogni valutazione sul piano della 'giustizia' non può che fondarsi sul dialogo e sulla comprensione profonda dell'altro.

Perché se è vero che il diritto è disciplina laica per essenza, vorrei dire, se non per origine, costituendo una delle fonti e condizioni prime di ogni laicità, è anche vero che quando si opera concretamente all'interno della professione giudiziaria non è mai abbastanza chiara, a protagonisti e destinatari, questa sua fisionomia delineata con tanta risoluta evidenza dalla nostra Carta Costituzionale. Certo era ben consapevole dell'origine sacra e tragica (Savoldelli avrebbe aggiunto: dell'essenza violenta) del processo penale, mai del tutto cancellata dall'esercizio anche moderno della giurisdizione penale, così come era del pari ben consapevole della prodigiosa forza simbolica insita nel precetto nel rito, nel momento della irrogazione ed applicazione della pena: ne faceva la ragione della più alta prudenza e cura nell'esercizio concreto della giurisdizione, sua prima raccomandazione di Maestro. Per questo e perché considerava al tempo stesso il processo penale moderno l'unico vero e grande rito della laicità, luogo di confronto fra culture, di tolleranza e comprensione delle diversità, di spostamenti continui dal nostro all'altrui punto di vista, alla ragione degli altri, onorava il rito processuale con la più grande osservanza e abnegazione, con totale obbedienza ai tempi del processo, anche lunghi, anche estenuanti, ai suoi sviluppi, alle sue regole. Niente lo infastidiva più dei moralismi, dei pregiudizi, dei luoghi comuni, degli atteggiamenti ideologici o confessionali, i quali pregiudicano comunque il pensiero giuridico, specie se ammantati dell'indebita veste di Verità giuridiche', per ciò che tradiscono e strumentalizzano, a fini ultronei, della giuridicità di un dettato.

Per questo il processo era per Savoldelli, come deve essere nel suo significato più profondo, un luogo di cultura, e di cultura laica, nel senso più pieno e alto della nozione, sempre più coessenziale in una società complessa come la nostra.

 

Certamente questa è anche la concezione di fondo che Savoldelli ha trasfuso nell'architetto De Carlo (anch'egli recentemente scomparso) il quale, prima di iniziare la progettazione del nuovo Palazzo di Giustizia pesarese, non avendone progettati altri prima d'esso, a lui chiese lumi circa la 'filosofia generale' dell'opera, per conoscere quali principi dovessero ispirare il progetto, quale rapporto il palazzo dovesse esprimere tra potere giudiziario e cittadini.

Savoldelli gli suggerì l'idea di un luogo dagli spazi 'umani', in cui il cittadino possa sentirsi a proprio agio non intimorito o in soggezione, per quanto possibile, di fronte alla macchina giudiziaria: un'architettura che espunga ogni tratto autoritario o violento, che esprima l'idea di un potere che idealmente si ritira, facendo un passo indietro, senza vulnus per la propria auctoritas.

Addirittura Savoldelli, ricordo, riteneva che non fosse neppure necessario trasferire il mercato setti­manale dal Piazzale Carducci: perché si fa giustizia nel Fòro, nei luoghi consueti della vita, in mezzo alla gente, nel solco di una continuità ideale tra interno ed esterno, tra centro e periferia della città, tutto ciò che il palazzo oggi compiuto esprime. Non vi è dubbio, pertanto, che il palazzo che ora Pesaro possiede è il frutto anche di quei primi decisivi scambi di idee, di quegli iniziali suggerimenti che Savoldelli versò nell'architetto.

Per questo suo coinvolgimento nelle ragioni intime del progetto, oltre che per la meravigliosa carriera svolta e per i grandi risultati civili e culturali che ci ha dato, un'aula principale o l'intero Palazzo saranno intitolati e dedicati a lui.

 

Dal punto di vista della sapienza giuridica, della intelligenza nella interpretazione delle norme, sia di diritto sostanziale sia di diritto processuale, posso dire con sicurezza che è stato maestro di tutti i suoi colleghi, sia dei suoi coetanei sia dei più giovani, continuando ad esserlo anche per la generazione di magistrati che ha seguito la mia. Possedeva procedimenti di pensiero fortemente sintetici, arrivava subito al cuore dei problemi, saltando i passaggi più scolasticamente analitici e deduttivi. Alla finezza di giurista aggiungeva una qualità che non si può imparare da nessuno, se non la si possiede: il carisma, l'autorevolezza, veri doni di natura, che l'hanno sempre esonerato dal ricorso a metodi autoritari per farsi rispettare ed obbedire.

Per chi conosce il contenuto del nostro mestiere è più facile comprendere come occorra davvero una grande personalità per mantenere in esso tanta delicatezza di sentimenti e di pensiero, quale esprimeva nelle relazioni con gli altri, chiunque essi fossero. Le sue requisitorie (anche da uditrice speravo che il pubblico ministero delle udienze a cui partecipavo fosse Savoldelli, all'epoca sia Procuratore di Urbino, sia in applicazione, per singoli giorni ed udienze penali, a Pesaro, la cui sede era all'epoca vacante) erano straordinarie perché c'era in esse storia, costume (trattava le scene di vita sottoposte a giudizio come un regista tratterebbe le scene di un film), senso finissimo del diritto, e profonda intelligenza dell'animo umano, cui sempre si accostava con acume lucidissimo e con grande compassione (per vittime e rei), con totale rispetto per la dignità e per le esigenze delle persone con cui entrava in rapporto professionale e non.

 

Per me fu la scoperta del 'costume', entità non facile da definirsi, né facile a cogliere, nelle sue continue metamorfosi, sebbene costituisca lo sfondo entro cui si compiono la maggior parte delle azioni umane: una sorta di colore di fondo , un clima, fatto di quei legami generazionali, di quell' assetto urbano, di quel momento politico, di quell'età, quei miti, quei films, quelle canzonette leggere (così espressive un'epoca!), quei modi di dire. Savoldelli aveva l'arte particolare di collocare ogni persona ed ogni vicenda nel tempo della vita personale e nel tempo della vita collettiva, nella storia. Poteva farlo perché conosceva così bene la vita della gente in tutti i suoi aspetti e in tutti gli strati sociali, alti e bassi: sapeva come diversa la gente di città dalla gente di campagna, la gente di mare dalla gente dell'entroterra; s'intendeva di tutti i mestieri e sapeva come ogni mestiere attribuisca a chi lo fa uno specifico modo di pensare (lui stesso si dipingeva come uomo di molto potere nella vita pubblica - potere che, quando è grande, diceva, si riconosce perché chi lo possiede non deve accrescerlo bensì diminuirlo - e un modesto Geppetto nella vita privata); parlava sia il dialetto urbinate che quello pesarese, lingua con cui si rivolgeva a quegli imputati e a quei testimoni che le cose importanti sapevano dire solo in dialetto.

Sì che, nell'approccio a un caso professionale, che vuol dire sempre un caso umano, Savoldelli cominciava subito dalla collocazione del fatto nel tempo, nel luogo, nell'ambiente, nelle caratteristiche naturali del luogo (dai casi minori ai più complessi: ricordo la sua ricostruzione dei fatti di uno dei primi processi per abuso sessuale nei confronti di una ragazza che aveva raggiunto, con sue parole: 'la discoteca in bicicletta portando l'amica sulla canna, con una modalità da anni Sessanta', che bastò a sgombrare i sospetti della difesa circa un malizioso contegno della adolescente... ; o un'accusa per detenzione e porto d'arma alterata che reinterpretò in dibattimento, convincendo i giudici a ridimensionarne la gravità penale, alla luce della vecchia consuetudine dei camionisti che viaggiano di notte, di nascondere un fucile a canne mozze sotto il sedile, a scopo di difesa... ; ma potrei ripetere gli esempi a volontà, e non dirò come questa innata dote, paragonabile a quella che nei medici chiameremmo il 'dono della diagnosi' gli sia stata preziosa nel raggiungere i risultati gloriosi del recupero dei quadri di Urbino e della precoce individuazione del 'tipo d'autore' dei criminal i della c.d. banda della Uno bianca, decisiva per la successiva individuazione dei responsabili).

Per queste sue doti, Savoldelli è rimasto per sua scelta magistrato inquirente, per tutta la sua vita: per questo amava Simenon, l'investigatore -romanziere...

Più che giudicare sulle carte, amava investigare dal vivo, capire, dialogare, imparare: "Non c'è nessuna persona, per quanto umile, dalla quale non abbiamo da imparare qualcosa" ha continuato a dire fino agli ultimi giorni, citando Fichte.

Nella professione inoltre, e con mia massima condivisione, Savoldelli valorizzava il momento delle emozioni, da lui intese come grande strumento di conoscenza, al pari dell'intuizione. Gli apparati concettuali, così indispensabili a un magistrato, non possono bastare nell'esercizio di compiti così delicati. Io credo che in questo aspetto Savoldelli riponesse quelle sue doti superiori di interpretazione e di giudizio.

Su diverso piano, non strettamente professionale, ricordo la commemorazione del professore Scevola Mariotti, suo professore liceale di francese e padre del suo carissimo amico degli anni successivi Italo Mariotti, nel venticinquesimo della morte (pubblicata in volumetto stampato a cura della Provincia di Pesaro e Urbino), uno dei pochissimi scritti che di lui ci restano, oltre alla trascrizione del discorso tenuto per la morte dell'amico e collega Alfiero Storti.

Anche in questo caso la poesia della rievocazione scaturiva dalla sua capacità di cogliere il sentimento di un'epoca, e dentro di essa, la qualità irripetibile della singola presenza umana: ricordo il richiamo a un tempo 'felice per l'età ma non per l'epoca, l'at­tenzione all'apparente banalità del quotidiano, la scoperta della lezione della ragione, delle virtù eti­che del primo antifascista conosciuto nell'adolescenza ed insieme la scoperta del 'segreto terribile' dell'antifascismo. La vicenda mi tocca anche da vicino, perché mio padre, anche lui alunno dello stesso professore in anni precedenti, rammenta che nella formazione antifascista di Scevola Mariotti non fu affatto estranea l'influenza di mio nonno, poi esule antifascista in Francia, e del loro rapporto di conoscenza personale.

Ancora una volta, in queste rare testimonianze scritte, Savoldelli dimostra la grande comprensione e il grande affetto per la condizione umana, e la coscienza che non vi siano luoghi della vita sottratti al tempo, pensabili fuori da quel tempo e da quel luogo, per modo che addizionava sempre nell'inter­pretazione di una persona il tempo individuale a quello storico.

D'altronde solo un così profondo storicismo (che in lui ha certamente anche radici crociane) lo aveva aiutato a far sopravvivere in sé un cuore così sensi­bile in una esperienza di vita e storica così difficile e dolorosa. Forse per questo pietas e disincanto hanno potuto in lui convivere cosi intimamente collegati fra loro.

Era sì anche lui un artista, l'ho detto all'inizio, e lo era in un modo particolare. Non solo perché intuiva l'arte pittorica e letteraria come può farlo solo un artista (della sua competenza in terna di pittura erano intrise molte delle sua conversazioni: la vicenda dei quadri di Urbino ha reso onore a queste due anime), ma era artista nella condotta di vita, nei gesti, nella delicatezza degli sguardi, nella finezza del pensiero e del conversare. Non vi è dubbio che fosse un vero artista della relazione personale e del dialogo: mai sbagliava una parola, un approccio, un modo di porsi davanti all'altro di cui percepiva immediatamente l'essenza umana, la provenienza, la condizione, i bisogni, i dolori , diventandogli subito intimo, pur conservando la distanza dell'autorevolezza. Ed era consapevole che questa fosse la sua vera arte, destinata a non lasciare traccia se non nella nostra memoria, un'arte che esisteva e che sarebbe morta con lui.

Quando ne parlavamo, lo paragonavo a un rapsodo, a uno di quei musici-poeti che affidano il meglio di sé alla sola tradizione orale: anche per questo la sua perdita lascia in noi un vuoto così grande.

Più volte gli è stato richiesto, e da più persone, di testimoniare per iscritto la sua avventura professionale ed esistenziale, entrambe straordinarie. Non ha mai voluto: non ha mai scritto nulla, non ha lasciato testimonianze scritte. Anzi: si è fatto spogliare spesso del suo sapere, da parte di chi per converso amava la scrittura ed attingeva a piene mani dalle sue parole, senza difendersi, sapendo di essere spogliato, talora essendone moderatamente infastidito, più spesso divertito.

D'altronde è questo anche il destino di un pubblico ministero, il quale non scrive sentenze, le cui requisitorie non sono né registrate, né trascritte, né altrimenti documentate, ma vengono solo ascoltate.

Unica eccezione: la sua collaborazione con il quotidiano Il Corriere Adriatico, quotidiano in cu i ha tenuto per alcuni anni una rubrica settimanale, dopo il pensionamento.

Tra le tante lezioni conservo, oltre a quella di un amore a oltranza per l'uomo, chiunque egli sia, quella di una profonda responsabilità della parola, la cui capacità di 'agire' non è inferiore a quella di una condotta, di un gesto, di un fatto concreto. Sono valori che oggi mi sembrano persino più preziosi, nel paradiso leggero e intemporale della nostra memoria.

Mi perdonerà, 'il mio Procuratore' (come ha voluto gli scrivessi, in una dedica su libro), se inavvertitamente già qualche variante in pejus sia stata da me introdotta a modificazione del suo pensiero magistrale, se pure al fine di conservarlo meglio.

 

 

[vai INIZIO di questa pagina]

[ritorna agli estratti]

 

 

MARIO LUNI (3)

Docente presso l'Università di Urbino

 

Gaetano Savoldelli e la Cultura Storico-Archeologica del territorio

 

Uomo di legge, conoscitore acuto del Diritto e anche amante appassionato dell'arte e dell'archeo­logia. Alimentava questi intimi suoi interessi con letture mirate e partecipando a conferenze e a presentazioni di libri, quando i gravosi impegni di ufficio glielo consentivano. Talvolta lo si vedeva apparire anche in occasione di attività esterne all'Istituto di Archeologia dell'Università, credo forse per aggiornare sempre più le sue conoscenze, ma di certo anche per portare la propria testimonianza affettuosa di partecipazione ai vari momenti di riscoperta dei beni archeologici di Urbino e del territorio marchigiano.

Il sentimento delicato e nello stesso tempo rigoroso per il bene comune, mediato con il senso di equità che caratterizzava il suo comportamento, lo rendevano un "personaggio" al di fuori del comune. Equilibrato e prezioso anche all'interno di associazioni culturali, quali ad esempio "Italia Nostra", di cui era stato uno dei fondatori nella sede urbinate. Talvolta "consigliere giuridico" discreto, quasi timido, di Soprintendenti e di studiosi, che lo interpellavano sulla corretta gestione di problemi culturali delicati, anche quando gli interlocutori si erano poi trasferiti in sedi lontane, a testimonianza di un rapporto di reciproca stima e di cordiale fiducia. Il rinvenimento di un torso di statua romana ci ha fatto incontrare per la prima volta nel 1970 alla periferia di Urbino, in un'area di scarico del terreno proveniente dallo scavo del Mercatale per la realizzazione del parcheggio sotterraneo, progettato dall'architetto Giancarlo De Carlo. Ero da poco laureato in archeologia e non mi era consentito entrare nel cantiere attivo nel sito dove nel Quattrocento era stata scaricata la terra di risulta dai lavori per le fondamenta del palazzo Ducale; tra queste speravo forse di trovare materiali di Urvinum Mataurense. Un amico comune mi ha allora messo in contatto col giovane Sostituto Procuratore della Repubblica per avere un consiglio e subito egli si è reso dispo­nibile per aiutarmi di persona al recupero e al trasferimento di un torso di statua romana in Palazzo Ducale, per il costituendo Museo Archeologico, poi aperto nel 1986. La fortunata scoperta fu poi segnalata alla Soprintendenza Archeologica delle Marche, in Ancona, e in particolare alla Ispettrice di zona, Dott. Liliana Mercando, allora assai attiva nella tutela del patrimonio archeologico nelle Marche.

E' nata così una trentennale amicizia "archeologica" a tre, sempre più cordiale e costruttiva attraverso gli anni, con contatti numerosi nelle varie occasioni di rinvenimenti, in genere nel corso di lavori occasionali, dove il rischio era sempre latente del sorgere di lunghi contenziosi tra le parti interessate. Ed ecco nel 1971 l'identificazione della necropoli romana al bivio della Croce dei Missionari, tagliata dalla trincea per il nuovo acquedotto che Urbino attendeva da decenni. E poi nel 1972 un nuovo tratto di necropoli nello scavo della stazione di pompaggio dell'acqua e delle cisterne. Cosa fare? Le circa 200 tombe rinvenute vennero regolarmente scavate con tutta l'attenzione necessaria, dando però priorità alle aree in cui più urgenti erano i moderni lavori, organizzando un programma efficace di interventi concordati con grande senso di responsabilità e di rispetto tra le reciproche necessità. Si riuscì pertanto in modo celere a risolvere le difficoltà di approvvigionamento idrico della città e in ogni caso a salvaguardare la nuova documentazione storico-archeologica relativa a Urvinum Mataurense,confluita poi in un pregevole volume, ritenuto degno di un premio da parte della Accademia dei Lincei. Forse anche per questa felice esperienza archeologica comune, dovuta in gran parte al sapiente equilibrio di Gaetano Savoldelli, che Liliana Mercando, divenuta Soprintendente Archeologo delle Marche, mi ha voluto al suo fian­co dal 1973 come Ispettore Onorario di Urbino. Interventi "comuni" si sono poi susseguiti numerosi nei decenni successivi a Urbino e a Pesaro, in occasione di realizzazioni di opere pubbliche, tal­volta con conseguente ritrovamento di pavimenti a mosaico, di tratti di mura, di strutture edilizie e cisterne, di fornaci e di nuove tombe. Egli stesso ha organizzato conferenze e incontri a Pesaro e Fano nei mesi estivi, come presidente di una associazione culturale, con la partecipazione di studiosi illustri, con cui intratteneva rapporti di stima e amicizia, quali ad esempio Ferdinando Schiera, Italo Mariotti, Lorenzo Braccesi ed altri delle Università di Urbino, di Bologna e dell'Accademia Raffaello, di cui era fiero da ultimo di essere stato nominato Presidente.

Era tacitamente orgoglioso di avere collaborato in vario modo a tanti interventi utili alla tutela o alla riscoperta archeologica del territorio marchigiano, quale ad esempio quello per la messa in sicurezza dei marmi antichi della collezione di Carolina di Brunswich, a rischio nell'allora abbandonata Villa Vittoria a Pesaro, dimora ottocentesca della ex regina d'Inghilterra. Ma talvolta ricordava anche la delusione per non essere riuscito ad esempio a fare riaprire la pratica per permettere il rientro in Italia dell'"Atleta di Fano", rara statua in bronzo, opera mirabile di Lisippo recuperata negli anni '70 da pescatori fanesi ed esportata furtivamente in un museo della California. Una analoga circostanza lo angustiava per avere potuto disporre solo di limitati indizi in relazione ad alcune statue di marmo trasmigrate clandestinamente in un museo svizzero, dopo essere state recuperate in un edificio romano, nel corso di lavori presso la stazione degli autobus di Pesaro negli anni '60; ma non aveva perso ancora del tutto la speranza di reperire nuovi elementi utili a fare luce su quell'evento di spoliazione di Pisaurum.

Quando ci siamo parlati per l'ultima volta il ricor­do con una punta di nostalgia ci ha portato ai numerosi interventi attuati lungo la via consolare Flaminia, per "salvare'' manufatti antichi di 2000 anni, messi in pericolo negli anni '70 dai lavori per la realizzazione della moderna superstrada. Tra tutti i recuperi era particolarmente lieto per la problematica messa in tutela di un lungo muro di terrazzamento in opera quadrata, risparmiato dal cemento grazie al sollecito ausilio delle forze dell'ordine. Questa poderosa opera, che scherzosamente chiamavo col nome di "Savoldelli", è attualmente visibile tra Cagli e Cannano, protetta dalla moderna strada, allora appositamente realizzata sopraelevata per proteggere le antiche strutture. Ci siamo lasciati in primavera anche col proposito di documentare in un apposito contributo, già in animo da tempo - dopo il pensionamento -, questa opera trentennale di tutela di beni archeologici. Credo che egli avesse raccolto alcuni appunti, forse per pubblicarli in un articolo nella rivista dell'Accademia Raffaello, col proposito meditato di non mandare dispersa documentazione probabilmente utile per futuri studi e ricerche. Gli è mancato purtroppo il tempo per lasciare quest'ultimo attestato di amore per la cultura e per l'arte.

 

 

[vai INIZIO di questa pagina]

[ritorna agli estratti]

 

 

LORENZO FURLANI (4)

Direttore responsabile di "Accademia Raffaello - Atti e Studi"

 

Un libro nelle mani asciutte e abbronzate e lo sguardo limpido rivolto lontano, nella porzione di cielo libera tra le nuvole e l'orizzonte. L'ultima sua stagione l'ha trascorsa affacciato sulla marina di Fosso Sejore, di fronte a quell'azzurro che inclina al grigio appena la spuma increspa l'acqua, davanti a un mare morbido, disteso, eppure inquieto, salato come la vita.

Sedeva con i pantaloncini e una maglietta bianca sotto la veranda di casa, dove la sabbia arrivava spinta dal vento, sul tavolo l'ultimo filosofo latino, scoperto con un po' di rammarico solo allora, e i volumi dell'Accademia Raffaello ancora odorosi di stampa, che accarezzava, sfogliandoli con un amore quasi reverenziale.

Ironico, pacato, acuto, talvolta pungente: nell'aria salmastra legava aneddoti e progetti con quella sua voce un po' ruvida e gracile e il sorriso garbato. Sembrava un marinaio, tornato all'originari o ormeggio dopo aver incontrato le genti e visitato i porti del mondo . Eppure al timone della sua barca non si era mai allontanato troppo dalla riva, non aveva lasciato volentieri - e solo per doveri d'ufficio - la sua provincia, quel lembo di terra tra Pesaro e Urbino carico dei tesori della storia che la sorte gli aveva portato in dote.

Lui, il giurista, l'uomo di cultura, l'amante dell'arte, conosceva come pochi il mare magnum della vita perché nel suo cabotaggio non si era mai stancato di cercare, dietro i volti e le convenzioni sociali, i tesori della coscienza.

Gaetano Savoldelli Pedrocchi aveva indossato la toga per quarantuno anni. Un magistrato in equilibrio tra il rigore e il senso della finitezza umana, un giudice nonostante avesse compiuto l'intera carriera come pubblico ministero. La sua era una professione difficile, spesso ingrata, a volte violenta come lui stesso si doleva di constatare. Una professione che svolse provando una rara empatia per le vittime e mantenendo intatta una speciale capacità di comunicare con i rei, dall'assassino spietato al segretario di partito emarginato dai suoi sodali, dal brigatista alla ragazza accusata di infanticidio. Capiva il dolore, innanzitutto per ragioni biografiche. Nato nell'estate del 1928 (il 2 agosto) davanti al mare di Pesaro da un'agiata famiglia borghese (il padre era notaio) si era formato sui colli ventosi di Urbino, pagandosi gli studi con il lavoro di istitutore in un orfanotrofio. Lui stesso, infatti, era rimasto orfano di entrambi i genitori, diventando presto un ragazzo adulto. La guerra fece il resto. Aveva quindici anni "Toto" quando (il 17 novembre 1943) vide i suoi compagni di giochi dilaniati da una bomba di mortaio dell'esercito occupante tedesco (quattordici le vittime), caduta per errore su quello che sarebbe diventato il piazzale degli Innocenti di Pesaro.

"Le vicende familiari e storiche che ho vissuto mi hanno rubato l'adolescenza" diceva di sé. In quegli anni voraci di letture e conoscenze, formò la sua sensibilità sui classici russi, i contemporanei come Ernest Hemingway e Joseph Roth, i grandi autori dell'Ottocento francese. Ma fu uno scrittore che fondeva indagine giudiziaria e sofferenza, drammi personali e ipocrisie piccolo borghesi a orientarne più di altri gli interessi. Prima di tanti critici capì la grandezza di Simenon, la profondità del prolifico autore belga che esplorando la provincia francese descrisse la crisi esistenziale di personaggi che nella caduta prendevano coscienza di sé e della propria maschera sociale. E alla comprensione di quell'umanità dolente rimase sempre fedele. Sviluppò la carriera negli stessi luoghi della sua formazione, tra le luci e le ombre della provincia (negli ultimi tredici anni guidò la procura della Repubblica di Pesaro), eppure con le sue indagini scandagliò il sentimento nazionale. Perché se ogni popolo ha i governanti che si merita, ogni società rispecchia nei reati la sua cattiva coscienza. E Savoldelli Pedrocchi, attraverso le vicende della città ateneo, del supercarcere di Fossombrone e dell'industrioso capoluogo di provincia, visse in prima linea - in qualche caso addirittura in anticipo sulle altre procure d'Italia - le contestazioni studentesche nate dal '68, i violenti scontri politici degli anni Settanta, il terrorismo di matrice ideologica (fu minacciato di morte dalle Br e un sequestro ai suoi danni sfumò solo per una coincidenza fortunata), le faide della criminalità organizzata, fino agli intrecci tra gli affari e la politica degli anni Novanta, ai veleni della massoneria, al terrore della banda della Uno bianca (l'unica inchiesta quest'ultima che gli lasciò un'atroce pena per un'intuizione, fatta cadere dagli investigatori, che avrebbe potuto fermare alcuni anni prima quegli assassini). Ma orgoglio e vanto di questo magistrato, dalla figura minuta e dalla volontà tenace, educato al bello attraverso le geometrie monumentali e l'equilibrio con la natura dell'umanesimo urbinate, fu il recupero di tre straordinari dipinti rubati nel Palazzo ducale di Urbino nel febbraio del 1975: la Flagellazione e la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca e La Muta di Raffaello, i primi due compendio di quell'arte fondata sulle proporzioni, la prospettiva e la luce e il terzo preziosa - e allora unica - testimonianza del genio più raffinato del Rinascimento nella sua città natale (solo in seguito sarebbero arrivati la tavoletta di "Santa Caterina", acquistata dallo Stato italiano a un'asta newyorkese, e l'attribuzione a Raffaello, dopo il restauro, dell'affresco della casa natale ritenuto in precedenza opera del padre Giovanni Santi).

In quell'indagine profuse energie apparentemente inesauribili e mostrò una profonda conoscenza delle debolezze e delle ambizioni umane. Fu così che riuscì a governare per quattordici mesi una complessa macchina investigativa, che si avvaleva di doppiogiochisti e personaggi sotto copertura, con­ducendola tra innumerevoli ostacoli, compresi quelli burocratici, fino a Locarno, in Svizzera, dove, nell'aprile del 1976, i tre quadri furono finalmente recuperati. Mentre i colpevoli finivano in carcere, i capolavori tornarono a Urbino accolti dalle campane suonate a distesa.

Quell'inchiesta marcò una traccia aurea. Lo fece anche il successivo impegno (tornato d'attualità nelle ultime settimane) per l'atleta di Lisippo, il bronzo dello scultore greco del IV secolo a. C. riemerso dall'Adriatico nelle reti di un peschereccio fanese e finito illegalmente al Paul Getty Museum di Malibu, in California, per il quale il procuratore Savoldelli, forte del recupero a Fano di una concrezione della statua, perorò la causa della restituzione. Fu così tracciato il solco di una viva passione per l'arte e la conservazione dei beni culturali. Tolta la toga del giudice, quel percorso virtuoso sfociò nel 2001 nell'elezione alla presidenza dell'Accademia Raffaello di Urbino, l'ente custode della memoria del divino pittore del quale il magistrato Savoldelli era socio da trent'anni, cooptato per la sensibilità verso i beni artistici dimostrata ancor prima del furto alla Galleria nazionale delle Marche. Nel ruolo di presidente, che gli sarebbe stato confermato per acclamazione tre anni dopo, Savoldelli Pedrocchi diede nuovo slancio all'attività del sodalizio, promuovendo tra l'altro il concetto dell'uomo integrale - del quale egli stesso, razionale e intimista, era un riflesso - secondo la tradizione che fondeva i valori scientifici e quelli umanistici coltivata per secoli a Urbino. Cultore del diritto e dotato di una sensibilità estetica capace di distinguere al primo colpo d'occhio stile ed epoca di un dipinto , sollecitò nei confronti delle varie istituzioni il dovere morale della conservazione delle memorie materiali di Raffaello: il recupero del monumento dedicato all'artista a Piano del Monte, che in questi mesi finalmente si concretizza grazie al Comune di Urbino e al decisivo contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, e il restauro della facciata della casa natale, per il quale l'appello (lanciato poche settimane prima della sua scomparsa) deve ancora essere raccolto.

Ma l'impronta lasciata da Savoldelli Pedrocchi nell'ente che perpetua l'ideale raffaellesco di grazia e bellezza è la riedizione della presente rivista di critica e storia dell'arte. Un periodico di una tradizione antica quanto lo stesso sodalizio, pubblicato con il titolo ''Raffaello" già nel 1869 dal promotore e primo presidente dell'Accademia, Pompeo Gherardi, che in seguito conobbe alterne fortune e, tra lunghi silenzi e mutevoli denominazioni ("Il Raffaello", "Urbinum" e, infine, "Raphael"), venne dato alle stampe fino al 1965. Fu il presidente Savoldelli a riannodare il filo spezzato del "bollettino", dando un generoso impulso per la nascita nel 2002 del semestrale "Atti e studi" dell'Accademia Raffaello (di cui è stato direttore editoriale) . Consapevole com'era che anche nell'arte, come in qualsiasi altra esperienza umana, la comunicazione diffonde la conoscenza e sedimenta la capacità critica, è la pianta della convivenza civile che produce ossigeno, humus e vita.

E così la rivista, che raccoglie saggi di valore scientifico e notizie culturali, riecheggiando la spiritualità che promana dall'arte, è diventata la voce, forte e autorevole, dell'Accademia Raffaello, prima testimonianza della vitalità di un ente impegnato nella feconda organizzazione di eventi e in un'intensa attività editoriale.

Non poteva essere diversamente considerando il rispetto e la disponibilità verso il giornalismo che nella sua carriera aveva costantemente manifestato Savoldelli Pedrocchi, il quale sapeva apprezzare - qualità diventata rara tra i magistrati - la sottile linea di confine tra il segreto istruttorio e la libertà dell'informazione, il diritto alla riservatezza e quello di cronaca, in un equilibrio dinamico che è la fondamentale risorsa di un'opinion e pubblica democratica.

Animato in gioventù dalla fiducia illuministica nella libertà di giudizio, maldisposto verso il sussiego e l'inerzia di certi togati dell'epoca, nel suo duro lavoro - diventato una seconda pelle - aveva lentamente finito per compromettersi.

"Sì, mi sono compromesso con le persone coinvolte nelle indagini, con le loro sofferenze e le loro paure" confessò con una voce incrinata dall'emozione, di fronte a colleghi e amici, al momento di congedarsi dalla magistratura.

Allo stesso modo si compromette chi per lavoro racconta i fatti e le storie altrui e forse per questo il giornalismo era per Gaetano Savoldelli Pedrocchi una sorta di secondo amore professionale. Non a caso, in pensione dalla funzione di magistrato, accettò di collaborare al Corriere Adriatico, offrendo ai lettori del quotidiano pregevoli saggi - dalla lotta alle tossicodipendenze al caso Cogne, dai problemi della giustizia ai temi della riforma costituzionale - della sua sensibilità e del suo sapere. I contributi pubblicati in questo numero di "Atti e studi" testimoniano la dimensione morale e intel­lettuale di quest'uomo, per certi versi anticonvenzionale, che sulla compassione verso le varie forme del dolore, a volte degradanti nel male, aveva maturato come magistrato una spiccata intelligenza investigativa, tanto aperto al dialogo e alla ricerca delle ragioni profonde della vita da credere che chiunque, l'umile come il colpevole, avesse qualcosa da insegnare.

Gaetano Savoldelli Pedrocchi se n'è andato il 16 aprile 2005. Ha lasciato la moglie Giannina Tiboni e i tre figli Maria Teresa, Giacomo e Giuliana. Ma ha lasciato anche un'indelebile traccia di sé nelle cose e nelle persone.

L'Accademia Raffaello, nell'immediatezza della perdita, con poche efficaci parole ne ha ricordato "il sagace equilibrio di magistrato, la sensibile e penetrante intelligenza, l'operosa e illuminata guida". "Toto" era anche un giusto, come ha dimostrato la folla che si è ritrovata nel Duomo di Urbino per l'ultimo saluto, perché tra amici e colleghi c'era anche chi, per iniziativa del giudice Savoldelli, era finito in carcere.

"Il giusto è guida per il suo prossimo" recita il libro biblico dei Proverbi, e lui era stato un maestro per molti.

Di fronte al suo feretro il celebrante, con pochi gesti ieratici, invitando i presenti a far fruttificare la sua onestà e la sua grande umanità, ha accolto in un simbolico abbraccio l'amico della giovinezza, disincantato e lucido, offrendogli, come a un navigatore nel caos cosmico, l'ultimo ormeggio. "Riposeranno dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono" è scritto nell'Apocalisse.

 

 

[vai INIZIO di questa pagina]

[ritorna agli estratti]

 

 

GIORGIO NONNI (5)

Docente presso l'Università di Urbino

 

La vela bianca di Clio

 

E quinci il mar da lungi e quindi il monte (Leopardi, A Silvia)

"Mare stridulo, estroso, traditore. Il più bel mare del mondo. Che tutte le sue ire raggruma tra

Rimini e Ancona. Mare rabbioso, storto, epilettico, pieno di occhiacci e lampeggi, a giorni turchese, a giorni zolfo. Se ci fosse in me l'estro di un bardo marinaro, vorrei cantare per primo una leggenda adriatica colma di lugubre soavità. Marinai un po' tutti qui. Anche i contadini che dal mare, di lontano, pigliano i presagi del tempo. Ora che sono venuto per qualche giorno in questa città ove nacqui [Novara], una malinconia superiore mi ha incagliato il sangue. Questa è in fondo la città che ho tradito...".

A differenza di quell'esuberante intellettuale di frontiera degli anni Venti, che risponde al nome di Dino Garrone, il Presidente, Gaetano Savoldelli Pedrocchi, non ha mai tradito i luoghi delle sue origini, né ha mai tagliato il legame solido di affetto con le sue radici e quel paesaggio pierfrancescano che rappresentava il prolungamento ideale di quella lama di mare sottesa al cielo turchino delle Cesane. E' fortemente simbolica, in fondo, la contrapposizione tra l'acqua e la terra, tra l'indistinto originario e l'opzione di stabilità. Urbino rappresentava, per Savoldelli, l'approdo, la scelta definitiva di vita, anche quando un sottile desiderio pareva riportarlo alla sua amata Clio, la bianca barca di legno con cui salpava da Fosso Sejore in compagnia del vento e dei volti a lui cari verso più vaste dimensioni di avventura nelle equoree distese dell'Adriatico.

Oggi è una domenica di settembre: Urbino è più vuota e quindi, secondo Paolo Volponi, "più scoperta e penetrabile". Un vento insistente restituisce armonia agli elementi naturali perennemente in contrasto e spazza via le nuvole, aprendo varchi in quel cielo che si staglia pulito sopra il Monte delle Vigne. Sono da poco passate le nove del mattino e Savoldelli attraversa la Piazza dopo aver acquistato l'abituale quotidiano al chiosco del piccolo porticato. Lo infila nella capiente tasca dell'impermeabile chiaro, quello classico con le spalline ed i larghi baveri, mentre si avvia verso il Loggiato alla ricerca dei compagni di strada abituali. Lo sguardo è rivolto verso il selciato sconnesso non ancora sostituito dal marmo scivoloso, la sigaretta è come sempre accesa, la camminata svelta di chi non vuole mancare all'appuntamento festivo.

E' proprio all'uscita del portico - sotto il maestoso torricino da cui s'involarono le tavole di Piero e di Raffaello - che io lo incontro casualmente. Non faccio parte del suo gruppo storico, ma ogni tanto lo aggiorno sulle ricerche mie e dei colleghi, cercando di estinguere, per quel che posso, la sua ansia di sapere. Gli occhi arguti e indagatori de l Procuratore mi interrogano su un argomento che lo aveva appassionato: la storia, per lui affascinante, di una antica gemma ellenistica ritrovala, a Sentinum nelle Marche e finita dopo varie peripezie a Firenze, ad Anversa, in alcune contee inglesi e poi a Boston. Stavolta il suo viso si illumina, perché sono in grado di riferirgli alcuni snodi interessanti della ricerca. Certo è una storia minima, che no n muta il corso degli eventi e che gratifica, spesso, solo colui che la fa. Ma stavolta è diverso, anche l'interlocutore è visibilmente soddisfatto per la felice conclusione dell'iter. E incalza:

"Ma come è andato a finire quel cammeo nelle mani di Rubens, dopo che se lo era assicurato il duca di Firenze per una montagna di ducati d'oro?" "Forse, anzi è quasi sicuro, glielo avrà regalato Maria de' Medici dopo avergli commissionato alcu­ni quadri. Del resto era noto l'amore di Rubens per i cammei, che spesso scambiava con i suoi dipinti. L'ho letto nel suo epistolario..."

Savoldelli annuisce e lancia un ultimo sguardo ai Torricini, che custodiscono all'interno la chiave interpretativa dello spazio e della luce, esemplificata in quella tavola appena recuperata della Flagellazione, ma che si aprono nel contempo sino al suggestivo massiccio dell'Alpe della Luna. E con quella bonaria ironia che lo caratterizza, chiosa: "Ha visto come è affascinante un'indagine?", riscattando in un attimo decenni di una attività giudiziaria solo apparentemente monotona, ma rivolta invece a riscoprire le ragioni di una umanità spesso nascosta da quelle enormi pile di faldoni accatastate nella polvere di un ufficio penale.

Intanto, sotto il portico, stanno arrivando, ad uno ad uno, i suoi compagni d'avventura, con i quali è pronto ad intraprendere il giro dei torrioni verso Sanpolo, spingendosi talvolta sino al Mercatale per risalire la piana di Valbona: un percorso che somiglia ad un tragitto astrale vòlto ad impossessarsi dell'anima della sua città, in attesa che il vento di maestrale riesca ancora una volta a far gonfiare la vela bianca di Clio, in quell'appartato rifugio marino di Fosso Sejore.

 

 

[vai INIZIO di questa pagina]

[ritorna agli estratti]

 

 

DANTE BERNINI (6)

Redattore capo della rivista dell'Accademia

 

II ritorno in Urbino dei quadri rubati

 

Per quanto ci abbia ripensato per anni, cercando di recuperare dai recessi della memoria tutto ciò che poteva ricondurmi a quei momenti irripetibili, non so ben riferire dell'aria di spaesamento in cui mi trovai immerso allorché una sorte tutto sommato benevola mi portò a Urbino, la città dei miei avi paterni, peraltro a me pressoché ignota, ad assumervi la dirigenza della Soprintendenza felicemente allogata nella sua sede elettiva, cioè il famoso Palazzo ducale di Federico da Montefeltro.

La trepidazione che è sentimento comune in momenti simili della vita di ogni persona, era enormemente accresciuta dal fatto che quella sede in certo modo magica, legata alla fama invincibile di un condottiero celebre, era stata pur di recente violata da ignoti malfattori che ne avevano impunemente asportato tre quadri altrettanto famosi, cioè due tavole di Piero della Francesca raffiguranti la Flagellazione e la Madonna di Senigallia con una tela, la cosiddetta Muta, di Raffaello, opera specialmente emblematica, in quanto l'unica che del genio urbinate la galleria della città natale possedesse.

Non avendo, malgrado la carica appena assunta, alcuna notizia particolare sulla reale situazione delle indagini giudiziarie e dell'azione di recupero di così preziosa refurtiva, ero anch'io in attesa come ogni altro cittadino appena interessato al destino del patrimonio storico e artistico della comunità, di conoscere la sorte delle opere oggetto del furto e avere qualche informazione sugli sviluppi che quelle indagini potevano aver avuto ai fini del recupero da tutti sperato. Alimentava quella speranza il fatto che l'azione giudiziaria era nelle mani dalla Procura della Repubblica di Urbino, che era retta allora dal dott. Gaetano Savoldelli Pedrocchi, magistrato di specchiate virtù, che godeva della stima e fiducia da parte di tutta la cittadinanza, insieme con la fama di "giudice buono", che certo non ricorre spesso per un magistrato che rivesta il ruolo di pubblico ministero, e che difatti non sembra del tutto propria per un magistrato inquirente. Tuttavia nel caso particolare era giustificata dalla personalità del tutto speciale del dott. Savoldelli, che - come ci ha ricordato l'avvocato Alessandro Santini nel suo intervento alla cerimonia di commemorazione organizzata dalla Soprintendenza di Urbino, con la fattiva partecipazione dell'Accademia Raffaello, in occasione dell'apertura della Settimana dei Beni Culturali del 2005 - non poteva considerarsi il persecutor o prosecutor del tradizionale processo criminale, avendo nei suoi fini di giustizia soprattutto la preoccupazione di salvaguardare il rispetto della legge, ponendosi col suo atteggiamento di comprensione dell'umana debolezza, quasi come tutore dell'imputato, il quale spesso finiva per diventare il collaboratore dell'inquirente che riusciva a non sentire come nemico. Quanto al furto dei quadri, non mancavano voci popolari di rassicurazione e di fiducia nell'imminente esito positivo delle indagini che erano in corso con la partecipazione degli organi di polizia e in particolare della Compagnia dei Carabinieri di Urbino al comando dell'allora capitano Battista, che si avvaleva della collaborazione di un gruppo efficiente e generoso di sottufficiali, oltre che del nucleo Carabinieri per la tutela del patrimonio storico-artistico nazionale, al comando dell'allora colonnello, poi generale, Renato Conforti. La fiducia era tanta che qualche giornalista, venendo a conoscermi, non si esimeva dal dimostrarmi meraviglia col commento: "Ma come, il professor Faldi (che era il soprintendente da me sostituito, essendo stato egli trasferito a Roma su sua insistente richiesta) se ne va proprio nel momento in cui si stanno recuperando i quadri? Provenendo da un giornalista serio, accreditato presso le fonti prime delle informazioni, tra cui ovviamente gli organi inquirenti della città, il commento non poteva non impressionare. Ad ogni modo quell'indiscrezione non poteva certamente venire dal dott. Savoldelli che aveva una concezione assai rigorosa dei compiti e degli obblighi dell'inquirente, e fra questi non era certamente compresa la facoltà di fornire notizie sul procedere delle indagini che infatti continuarono a svolgersi nei segreto più assoluto.

C'era invece nel dott. Savoldelli in misura non comune il senso del rispetto dei sentimenti e delle esigenze altrui, ciò che lo portava ad esempio ad astenersi da ogni coinvolgimento non indispensabile delle persone in un modo o nell'altro interessate all'andamento del processo. Sapeva certamente che la Soprintendenza e quindi il soprintendente erano in ansia per l'esito delle indagini, ma si guardò bene dal fornire al riguardo una qualunque notizia. Venne invece il giorno in cui fu la stampa ad anticipare la bella nuova del recupero dei quadri rubati, trasferiti clandestinamente in territorio svizzero, depositati presso una banca di Locarno. Malgrado queste notizie diffuse dalla stampa, fu tuttavia grande la mia meraviglia quando una sera mi sentii chiamare al telefono nella mia abitazione entro lo stesso Palazzo ducale dove hanno sede la Soprintendenza e la Galleria.

Era il dott. Savoldelli che mi diceva di tenermi pronto a partire per Locarno avendo predisposto nella riser­vatezza più totale le tre casse di legno in cui sistemare i dipinti recuperati, che andavamo a ritirare dalla banca svizzera dov'erano depositati. Mi precisò di non preoccuparmi del mezzo di trasporto, perché avrebbe provveduto egli stesso a tutto. Sarebbe passato a prendermi nella data che avrebbe precisato di lì a poco, dopo gli ultimi accordi col Comando dei Carabinieri e coi colleghi magistrati di Locarno. Avrebbe provveduto anche a prenotare un furgone blindato per il trasporto di ritorno dalla Svizzera delle casse contenenti i dipinti.

Era accaduto che i quadri depositati nella banca di Locarno, erano stati lì stesso esposti al pubblico in una mostra improvvisata e che alcuni urbinati, cittadini influenti, tra cui l'avvocato Nino Baldeschi allora presidente dell'Azienda di soggiorno e turismo e il prof. Walter Fontana docente di Storia dell'Arte all'Università, nonché consigliere dell'Accademia Raffaello di Urbino, erano già andati a Locarno per vedervi e godersi in una rapida visita, diciamo in anteprima, i quadri esposti nella hall della banca, e ne erano tornati entusiasti, come se prima non avessero mai visto quei dipinti che invece ovviamente conoscevano in ogni dettaglio. Ma forse quella corsa in Svizzera era stata solo una sorta di rito di ringraziamento - non so se posso dirlo - per grazia ricevuta. Il dott. Savoldelli nella sua straordinaria saggezza e previdenza, si era preoccupato d'ogni minimo particolare per il buon esito della missione che andavamo a compiere. E protetti da tanta saggezza e dall'autorità che gli conferiva la sua carica, partimmo per la destinazione stabilita. Fu un viaggio pieno di pensieri e di preoccupazioni, che personalmente cercavo di controllare con la fiducia che riponevo nella forte personalità del magistrato che guidava la missione, e che mi aveva raccomandato solo di mantenere intorno ai nostri movimenti il segreto più assoluto. Egli teneva molto a esigere quella barriera di silenzio, la considerava probabilmente il primo strumento di difesa contro una qualunque azione di disturbo che potesse minacciare la delicata operazione. C'era nel dott. Savoldelli forse il timore, tuttavia non espresso, o meglio non partecipato, che potesse ripetersi qualcosa di simile a ciò che si era verificato qualche tempo prima a Perugia, quando un tentativo di recupero del cosiddetto Efebo di Selinunte, asportato dal Municipio di Castelvetrano, si concluse con una sparatoria tra forze di polizia e malviventi. Secondo le raccomandazioni fattemi, non avrei dovuto informare nemmeno il mio Ministero del motivo per cui mi allontanavo dalla sede, anche a questo avrebbe provveduto eventualmente egli stesso. Partii dunque pur tra i pensieri, sereno, sperando solo di poter dimostrarmi all'altezza del compito riservatomi dalla sorte e dalle funzioni di cui ero stato appena investito. Comunque, grazie all'ottima preparazione, tutto si rivelò facile a Locarno, andò tutto per il verso giusto, il dott. Savoldelli seguì la vicenda della restituzione, senza riposo, in tutte le sue fasi, tenendosi costantemente in contatto con la magistratura elvetica, seguendo anche lì la trafila delle formalità e delle carte, che di solito riteniamo triste e originale caratteristica del nostro Paese.

Si lavorò tutto il giorno all'imballaggio dei dipinti nei locali della banca in cui erano stati esposti: la banca è il luogo emblematico della Confederazione elvetica, e nulla di positivo si può avere senza l'intervento della Banca (correttamente con l'iniziale maiuscola). E lì fatalmente si doveva concludere anche il nostro itinerario di felice ritrovamento, come di fatto avvenne. E così all'indomani fu possibile prendere la via del ritorno, forse con qualche preoccupazione in più per la sorte ormai affidata a noi di quel prezioso carico lungo strade sconosciute, su cui per fortuna scorreva quel giorno un traffico leggero che non presentò alcuna difficoltà. Non so quali fossero i pensieri del dott. Savoldelli, ci scambiavamo in macchina poche parole, assorbiti com'eravamo dal pensiero costante dei rischi a cui per un verso o per l'altro andavamo incontro. E al riguardo non nego il mio stupore per l'inusuale frequenza con cui ci capitò per tutto il percorso di incontrare piccoli reparti di militari, una-due diecine di soldati in uniforme e regolarmente inquadrati, che per una nazione smilitarizzata, come io almeno forse erroneamente presumevo, risultavano uno spettacolo inaspettato.

Era stato un viaggio liberatorio, ma a veder meglio era questo il riflesso dei sentimenti popolari, era infatti sopravvenuto in tutta la cittadinanza, e non solo nei ceti intellettuali, un senso di liberazione per la fine di quell'incubo in cui tutti erano piombati alla prima notizia del furto. La quale per la verità aveva rapidamente fatto il giro del mondo, sotto i titoli più roboanti in cui ad esempio si alludeva allo "stupro" di Urbino, come l'aveva definito mi pare lo stesso Paolo Volponi. Tale infatti era la gravità del fatto criminale che colpiva la coscienza stessa dei cittadini, una specie - per rimandare al mito - di Ratto delle Sabine o di Strage degli Innocenti, e comunque, fuor d'ogni più o meno ironico commento, che poi intende solo, a vicenda felicemente conclusa, rendere più tollerabile la ferita, bisogna riconoscere che quella ferita era stata veramente gravissima, specie per una cittadinanza che è stata sempre attaccatissima al patrimonio ereditato dalla sua storia passata.

Ne avemmo una riprova proprio alla conclusione della brutta storia, quando riportando i dipinti in Urbino, fummo accolti da una folla festante al suono delle campane del Duomo. Era totalmente svanito il tabù del silenzio: sapemmo dopo infatti, a festeggiamenti conclusi, che le classi erano state licenziate in anticipo per favorire un'accoglienza adeguata ai "quadri" che rimpatriavano (e i "quadri" non potevano essere che quei tre emigrati temporaneamente e ora ritornati per la felicità di tutti gli Urbinati). La domenica successiva i quadri furono esposti alla visione pubblica in un'altra straordinaria mostra temporanea organizzata dalla Soprintendenza con la partecipazione incondizionata e fattiva dell'Azienda di turismo, e vennero in Palazzo ducale, da tutte le frazioni di Urbino e da ogni più lontano luogo dell'antico ducato, migliaia e migliaia di visitatori, quanti forse in tempi ordinari se ne poteva mettere insieme in un anno intero di apertura al pubblico della galleria. Ad ogni visitatore fu fornito un depliant con schede informative sommarie ma esaurienti sui dipinti esposti, in modo che quei visitatori insoliti potessero prendere più piena conoscenza dei lembi recuperati del proprio patrimonio artistico. Fu in sostanza un'altra grande festa cittadina, o forse direi meglio civica, per sottolineare il senso di appartenenza a una storia comune espresso da tutti quei cittadini rappacificati col proprio passato e con le istituzioni. Concluso il viaggio, riportati in patria i dipinti, e avendo così assolto a quello che sentiva, forse anche aldilà delle sue stesse funzioni di magistrato, come suo principale e personale dovere nei confronti della comunità, da cui traeva autorità e potere, il dott. Savoldelli, schivo com'era, scomparve per riprendere il suo solito posto all'interno del Palazzo di giustizia, e personalmente lo rividi solo qualche settimana più tardi, quando venne in Palazzo ducale ad assistere a un convegno di studi sollecitamente organizzato dalla Soprintendenza con la partecipazione di importanti studiosi, sul significato storico e artistico di quelle opere perdute e fortunatamente riacquistate, e così dare anche un senso meno emotivo, una motivazione più razionale agli sgomenti e al vero e proprio dolore affrontato e superato. Il dott. Savoldelli era felice di quegli incontri che erano soprattutto incontri di carattere culturale, che lo appagavano nella sua ansia di intellettuale impegnato soprattutto nella difesa del comune patrimonio culturale.

Poi i casi della vita ci tennero lontani, e solo da lontano poter seguirne fattività giudiziaria e anche le traversie attraversate per ragioni di salute. Di nuovo il caso ci riunì nell'attività dell'Accademia Raffaello. Ero stato chiamato dal precedente presidente dell'Accademia avv. Baldeschi perché gli dessi una mano nell'ennesimo tentativo di far risorgere, dandogli forma e sostanza, una pubblicazione periodica destinata, come prescrive lo statuto, a render pubblico conto dell'attività dell'Accademia.

L'avv. Baldeschi lasciò la sua carica quando appena si cominciavano a discutere le mie prime proposte al riguardo, e fu sostituito col voto dell'assemblea dal dott. Savoldelli, col quale, e con la collaborazione assidua del segretario dell'Accademia Giuliano Donini, mettemmo a punto il programma editoriale e redazionale, dando così vita, dopo oltre mezzo secolo di silenzio, alla pubblicazione prevista dallo statuto, in una veste editoriale graficamente aggiornata e - non sarò io a dirlo - elegante e piacevole, come impone la grande tradizione che anche nel campo tipografico distingue Urbin o specie con la sua celebre Scuola del libro.

La rivista fu messa in circolazione nel 2002 col titolo "Accademia Raffaello - Atti e Studi", destinata a raccogliere, in modo un po' più sistematico, o forse è meglio dire meno casuale, dei lontani precedenti, una serie di saggi e articoli storico-artistici, o anche solo storici riguardanti Raffaello, la sua cerchia e la sua tradizione, per estendersi alla storia della città, dell'antico ducato e di tutto il territorio marchigiano. Un notiziario vuole rendere conto inoltre dei problemi culturali di Urbino e di tutta la regione compresa fra l'Appennino e l'Adriatico.

Il Presidente Savoldelli, uomo di molte conoscenze, e di nativa attitudine all'apprezzamento dell'arte e dei suoi fenomeni, che era capace di cogliere quasi per istinto, come dimostrano tutti i suoi interventi in difesa dell'arte, che amava di tanto in tanto rievocare con qualche contenutissimo compiacimento (ricordo, per fare solo un esempio, l'energico intervento per la salvezza di un manufatto, che con istinto sicuro il dott. Savoldelli aveva riconosciuto come opera di Francesco di Giorgio, ai piedi della piattaforma, da cui si leva il grande mausoleo montefeltresco di S. Bernardino, e destinato alla distruzione da certi lavori stradali che senza tanti riguardi per l'importanza storica e artistica di tutta la zona si erano intrapresi e che il dott. Savoldelli riuscì in tempo a bloccare. Spesso egli rievocava simili salvataggi, e una sola volta mi sono trovato in amichevole disaccordo con lui, quando avversò con decisione la realizzazione del progetto di Arnaldo Pomodoro per il nuovo cimitero di S. Donato, che aveva ricevuto invece l'apprezzamento di illustri critici come ad esempio Giulio Carlo Argan, allora sindaco di Roma.

Ma per tornare un moment o ancora alla rivista dell'Accademia, e su questa che è tra le ultime realizzazioni del dott. Savoldelli, egli seguì sempre con grande attenzione e partecipazione il lavoro redazionale, lasciando la più ampia libertà decisoria, ma senza rinunciare mai al suo compito direttivo esercitato, sia pure discretamente, fino a che non è venuto a mancare, con quel retto giudizio e con la cordialità e delicatezza d'animo, che rimpiangeremo sempre.

 

[vai INIZIO di questa pagina]

[ritorna agli estratti]

 

Biografia

Hanno detto

Necrologi su n.2/2005:
"ACC. RAFFAELLO: Atti e Studi

Commemorazione del  17-05-2005 Avv. Giovanni Chiarini Commemorazione del
25-11-2005 Accademia Raffaello
Presidenza Accademia Raffaello

Home Urbinati indimenticabili

Dott. GAETANO  SAVOLDELLI  PEDROCCHI

Il Saggio Magistrato