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Itinerario di un artista, un maestro, un uomo

 di Franco Mazzini
 

La «personale» del '53 e la prima fortuna critica: 1945-1959

 

La mostra personale del '53 alla Bottega di casa Santi è un avvenimento. È da dire che altri, al posto di Ceci, ci sarebbero arrivati prima; ma egli ha voluto esser ben certo di avere tutte le carte in regola prima di presentarsi alla città - dove non era certo uno sconosciuto - con una ventina di opere «raccolte come per un esame cui egli stesso, distaccato, sovraintenda». Sono parole di Carnevali, il maestro al quale l'ex-alunno (ed ora fidato collaboratore), ha chiesto la presentazione di rito. Ma quell'esame, per l'artista ormai trentacinquenne, era una pura formalità, consapevole come doveva essere, a quel punto, della validità delle proprie forze.

Oltre a Carnevali, Walter Fontana e Arnoldo Ciarrocchi scrivono di lui nello stesso catalogo; quindi note di cronaca trovano spazio nella stampa quotidiana locale, ma anche ne «II Messaggero» e nella «Fiera Letteraria» (ancora Ciarrocchi). Il noto mensile d'arte «Emporium» ospita una recensione da me medesimo curata.

La «personale» segna dunque l'inizio della fortuna critica quanto meno del pittore, giacché i saggi del litografo, se non proprio una letteratura, vantano una documentazione non scarsa: le pubblicazioni di stampe, fino dal '36, «Le Foglie d'Oro», i cataloghi delle numerose mostre collettive alle quali Ceci aveva partecipato riportandovi ripetuti riconoscimenti.

Carnevali conosceva Ceci da un ventennio e poteva compiacersi d'aver contribuito non poco alla sua formazione artistica. Un certo suo imbarazzo nello scrivere e giudicare è comprensibile. L'abbozzo storico-critico da lui tracciato ricalca anzitutto i motivi già espressi nel suo brano riportato all'inizio di queste pagine. Se ora parla di un'evoluzione tecnica, di una ricercatezza di modi aspirante ad «uno stile aristocratico e raffinato», di accostamenti «onestamente scoperti» ad artisti del tempo attuale, l'accento sembra tuttavia posto sulla «sostanza umana (...) sempre una sola: quell'appartarsi e sfuggire in malinconica solitudine». Sembra voler sorvolare, insomma, sulla più recente produzione, forse per quella sua mai nascosta avversione a tutto ciò che si allontana dalla radice naturalistica. Anche Fontana, nel suo equilibrato e sensibile scritto, non manca di sottolineare la «fedeltà a certi motivi cari» che illustrano di Ceci il «cammino dell'anima» dal dopoguerra in poi. Ciarrocchi - legato a Ceci da un'amicizia che risale ai tempi della scuola (si era licenziato dall'Istituto nel '36 ) - ci offre il giudizio critico forse più affondato, in termini poco convenzionali ma convincenti: appunti come versi sciolti.

«La sua pittura sfugge ad ogni classificazione».

Certe trame riferibili a Carrà, a Morandi, non sono che «una leggera falsariga sulla quale egli appunta la propria pelle arsa come la cartapecora (. . .). Di Carnevali è il chiudersi dentro di sé come la conchiglia, la paura della pittura monumentale (. . .). Una pittura fatta in punta di matita (. . .). Il paesaggio è quello ritagliato dalla finestra (. . .). La lunga consuetudine del paesaggio urbinate».

Pittura come «liberazione della propria malinconia amorosa». Le coordinate della personalità e del suo mondo poetico ci sono.

Quindi, per molti anni del Ceci pittore si sentirà forse parlare dagli intimi e dai discepoli; ma quasi nessuno ne scriverà, se non per cenni, in una scheda biografica all'interno di un catalogo solitamente di Incisione. Quasi inosservato dalla critica passerà qualche dipinto mandato qua e là a rassegne regionali, talora anche premiato [i].

 

 

Le litografie degli anni Cinquanta

 

Ma nessuno, intanto, si era chiesto se quella fioritura di opere con caratteri così definiti, proprio degli anni a cavallo della mostra, potesse discendere per così dire meccanicamente da evoluzione dei modi precedenti, fino al '51 circa, e non invece per via di altre sollecitazioni.

Il Carnevali, reticente nel '53, in uno scritto già citato dell'86 afferma che gli sembrava di avere «perduto di vista Carlo Ceci (fu il periodo in cui l'"arte astratta" era entrata da dominatrice a dettar legge, e la si respirava con l'aria)». Che egli si riferisse a quelle opere è attestato dalle sue stesse citazioni [ii]. Ma è significativo che egli prosegua notando che la sua presenza [del Ceci] «era ben testimoniata da quanto si produceva nella sezione da lui diretta; si realizzava il superamento di aspetti consuetudina-ri ottenuti da continue ricerche e nuove sperimentazioni: il tutto sempre controllato nella sapienza di un rigoroso mestiere. Anche il maestro stampatore, Lorenzo Bertorello, assecondava ora le richieste di Carlo Ceci che, dissentendo da un'assuefatta quietitudine l'aveva spinto e piegato a varcare i limiti di una industrializzazione tecnica litografica» [iii].

Ho voluto riportare ancora una volta integralmente questa testimonianza del Carnevali, non soltanto per il valore storico e tecnico, ma perché egli fa intendere palesemente di approvare la posizione innovativa assunta dal Ceci nella Scuola. Ciò comporta, quindi, l'approvazione, anche se non dichiarata, dei relativi prodotti personali nel campo litografico che sono però della stessa sostanza stilistica di quelli della pittura: come prova la trasposizione di più di un soggetto da un campo all'altro. Tanto è vero che dopo il '54 e fino alla soglia del '60, il catalogo dell'opera di Ceci non fa che registrare litografie in bianco e nero.

Evidentemente, il pittore si sentiva appagato dei risultati eseguiti; e, d'altro canto, il maestro della litografia, ormai signore del campo così come delle svariate soluzioni tecniche sperimentate, si sentì naturalmente portato a esprimere saggi non tanto mirati alla «riproduzione» quanto a una ricerca di scopo puramente artistico. Nasce dalla sua mano la litografia come «stampa d'arte»: di tiratura limitata, di formato alquanto maggiore dei dipinti, e che il «foglio» - per lo più della dimensione della pietra (50 X 70 cm.) - dilata e riempie di luce. Non sono più di una quindicina, raggruppate nei secondi anni Cinquanta, cioè quando egli ha messo da parte i pennelli, concentrandosi sul bianco e nero con lo stesso «spirito di aggiornata ricerca» che distingue i suoi primi anni di pittura. Quelle desunte dalle «tempere», come La piazzetta (cat. 95) e La casa azzurra (cat. 100), sono la guida migliore per intendere la consanguineità, nei confronti della pittura, di quei sottili trapassi e accostamenti di toni, dal bianco al nero attraverso gamme di grigi ottenuti con virtuosismi tecnici di nuovo conio, a volte con l'impiego di più d'una pietra. Litografie riconosciute dalla critica più accorta come xpezzi esemplari per l'assimilazione del mezzo litografico» [iv].

Il linguaggio stilistico è dunque lo stesso degli ultimi dipinti: le forme scomposte e ricostruite in armoniche tassellature fino al limite dell'astratto, come in Figura alla finestra (cat. 104) e in Figura-la luna (cat. 105). Il titolo parla di figura. Infatti in questa produzione litografica compare la figura umana, per lo più femminile, e talora con connotati dichiarati: vedi Giovane donna (cat. 96), dove, nella struttura a riquadri aggalla nientemeno che un ricordo di Cassinari! Più ancora in Giovane donna con treccia (cat. 92) - certamente il brano più originale ed intenso - cui la medesima struttura, più accentuata ma insieme più libera, conferisce connotati forti, di etnia contadina, un'espressione quasi aggressiva e peraltro mitigata come da un ironico sorriso. Ma il tema della figura ruota anche attorno alla marionetta ormai familiare: Arlecchino, nelle quattro versioni dal '55 al '58 (cat. 93-99-102-103), in bianco e nero e due volte con «prova d'artista» a colore: un colore sobrio e, manco a dirlo delicato, sottovoce, «provato» in viraggi di tono diverso, grado a grado raggiunti con sapiente distribuzione in tre o quattro pietre. Ma sono esperienze rare.

Con La casa azzurra in bianco e nero (cat. 100), nel '57 Ceci vince il premio per la Litografia alla II Biennale dell'Incisione italiana contemporanea, a Venezia: una giusta consacrazione, che diede l'avvio ai tanti riconoscimenti che, come litografo, guadagnò poi alle innumerevoli mostre e rassegne, in Italia e all'estero, alle quali partecipò in quel decennio e, sempre come litografo, successivamente, inviando alcuni dei suoi rari fogli [v]. Ma non va dimenticato che in pari tempo anche una sua «tempera» conquistò la palma al Premio Anselmo Bucci di Fossombrone [vi].

 

Febbraio 1990

Franco Mazzini


[i] Come avvenne al Premio A. Bucci di Fossombrone (1962).

[ii] Nella citata lettera dell'86 (in AA. W., Dalle carte di C.C. cit.).

[iii] Ibidem

[iv] Cfr. I. Lambertini, Incisori di Urbino, in «Le Arti», XVI, 1966, p. 20.

[v] Vedere l'ininterrotta successione in Partecipazioni a mostre qui stesso.

[vi] Cfr. sopra nota 20

 

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