Brancón (el foss d')    il fosso di Bracone

 

Lo sfiatatoio delle nostre turbolenze giovanili

 

Quando, alle prime luci dell'alba, ripartivo per Urbino nella biga trainata da Lola, nonno Lazzaro era già lì, tra i piedi, pronto a sgranare il suo rosario di cento consigli.  Ben conoscendo la propensione ad avventurarmi per le campagne, ricordo che una mattina, ebbe a dirmi, più preoccupato del solito: m'arcmand, burdèll; en scapè de chèsa. En te n'issa vàia da gì giù sa chi dilinquent tel foss d'Brancón!.

Si era allora nella primavera del 1935 e, a ripensarci bene, non è che i suoi consigli fossero del tutto campati in aria, sia per il fatto che il fosso di Brancón, (sprofondato com'era al centro di una fitta vegetazione) si nascondeva alla vista della città quasi appartenesse a un altro pianeta; sia perché una delle cose più impressionanti era allora il gran numero di ragazzi (vere e proprie squadre organizzate) che era dato incontrare ovunque e non sempre animati da regole di buona educazione e da propositi di pacifica convivenza.

A dire il vero, siti caratteristici come il fosso di Brancóne si potevano trovare alle porte di tutti i centri abitati dell'entroterra.  Lo scempio edilizio era ancora di là a venire.  Così che Tavoleto, Auditore, Frontino, Peglio e altri ancora, che vedevo dal monte della Colombaia o dalla piana del Monte d'Oro, vantavano intatta l'immagine del passato con le loro torri cariche di storia, le chiese dai campanili svettanti, la cinta muraria lambita da boschi di quercia.

Anche sotto questo aspetto Urbino attestava note peculiari.  Risalendo la strada di Ca' la Lagia le prime volte mi sforzavo di intuire, quasi impaurito, le distanze e la direzione prendendo come punto di riferimento la tozza collina d' Masaferr.

Sembrava la città nascosta e misteriosa delle favole, tanto che in tutto il versante occidentale, proprio partendo da Mazzaferro fino ad arrivare alla Tortorina (ove oggi domina un tessuto urbano variegato e irrazionale, fitto di mura intonacate e di tetti rossi che si allargano a macchia d'olio) si contavano sì e no dieci case che facevano campagna, nulla avendo in comune con il centro storico.

Soltanto una volta giunto a Montesoffio mi si apriva il cuore con l'affacciarsi del campanile del Duomo e delle mura dell'Albornoz, facili a confondersi affogate com'erano in una spessa coltre d'erbacce e di rovi.

Solo risalendo a questa realtà (che per il modo con cui ha camminato il progresso sembra ormai lontana di secoli), si può capire il grande e fascinoso richiamo del fòss d' Brancón, luogo d'incontro e di scontro di bande rionali che scendevano vocianti dalla strada morta (in terra battuta) del Mónt di Lolli; di cercatori di rane, razziatori di frutta e di pannocchie; di amanti dei bagni di fango, di incalliti giocatori di cióda e di pancòtto, di maniaci degli scherzi e della lotta libera, tra cui primeggiavano coloro ai quali fumèva la caplina (teste calde).

Oggi pochi dei nostri ragazzi sanno dov'è il fosso di Brancón (tranne, ovviamente, chi l'ha scelto per abitarvi) o il gorgo del ponte delle Piàngole.

Neppure l'ombra degli assembramenti, del chiasso, dei giuochi spregiudicati, delle rivalità e delle baruffe di una volta.

In questi ultimi decenni il numero dei figli s'è più che dimezzato e quei pochi che restano è più facile incontrarli (nei ritagli di tempo libero) in giro per il mondo piuttosto che ai Torrioni, negli spiazzi rionali, alle Scalette, nei sentieri o nei pochi luoghi caratteristici che ancora resistono fuori città.

Luoghi che costituivano, negli anni Trenta, l'approdo più atteso per i nostri divertimenti e le nostre turbolenze.