IL MATERASSO DI GRANTURCO

[El paiaricc]

 

II granturco o "formentone" come ancora viene chiamato in gergo dialettale ha un particolare significato nella mia vita e non soltanto per averlo gustato in tutte le salse. Era allora un elemento integrativo del poco frumento che la terra garantiva assieme alla fava, a fagioli, cece, patate e tuberi di barbabietola.

La polenta mi è sempre piaciuta: con pomodoro e sugo di maiale (il così detto "polentone"); abbrustolita sulla brace e condita con olio, sale e pepe; tagliata a pezzi e bagnata a freddo con vino cotto che mio padre nascondeva nella parte più alta della mensola rasente il soffitto della cucina; cotta con le fave dentro e appena appena unta di lardo.

Penso che il fatto che mi piacesse tanto fosse anche conseguente all'interesse che questa graminacea destava in me per la particolarità della semina, per l'attesa che la pioggia la facesse crescere più vigorosa di quella del vicino; per i suoi colori e il suo profumo e per l'abilità stessa con cui riuscivo a rubare le pannocchie più tenere da abbrustolire sulla brace accuratamente predisposta ai margini del bosco, fuori dagli occhi sempre vigili di mio padre.

Ma il momento più bello cadeva puntualmente a metà settembre con la "spannocchiatura". La si compiva di sera nell'aia alla luce di grosse lampade ad acetilene. Convenivano i vicini di casa con i loro bambini, vecchi, fanciulle e fanciulli intenti a scambiarsi le prime sbirciate. Festa grande fino ad oltre mezzanotte con canti, vino in abbondanza e, soprattutto, con noi ragazzini scatenati a demolire le pile di cartocci e a giocare a nascondino tra i pagliai, senza la preoccupazione, una volta tanto, di dover andare a letto con le galline.

Ma il merito maggiore del granturco è sicuramente quello di avermi reso "soffice" l'immenso letto a tre piazze nel quale per oltre dieci anni ho dormito assieme ai cugini Dante e Riziero. Un pagliericcio di foglie di pannocchie sul quale era un problema salire stante la sua eccezionale altezza. C'era solo il "vantaggio" che, una volta saliti, ci si sprofondava come in un pagliaio di fieno ancora allentato evitante, cosi, il freddo pungente di quegli inverni e il venire ... alle mani per ragioni di forzata immobilità.

Ho ricordato il materasso di foglie di pannocchie, la camera-magazzeno esposta all'inclemenza della tramontana, il letto a tre, la mancanza di corrente elettrica e di servizi igienici interni senza ombra alcuna di frustrazione; senza vittimismo, né vanto. D'altra parte le condizioni economiche e sociali della famiglia Tiberi erano sicuramente migliori di quelle di tante altre. Anche per un supporto psicologico legato al fatto di essere coltivatori diretti e quindi liberi gestori delle poche cose che si possedevano. Né sono mai stato tentato, in verità, di "sbattere" queste privazioni in faccia ai figli. Mi sarebbe bastato parlargliene, aprire un dialogo su di un momento della nostra storia che non si perde nel medioevo ma che è parte viva dell'oggi per quanto può insegnare e per i condizionamenti stessi che da essa conseguono. Una esigenza che travalica, sia chiaro, il singolo rapporto familiare per investire questa nuova generazione ricca, più di quanto crediamo, di iniziativa, di intelligenza e di idee, ma sempre più priva di punti di riferimento.

Che le privazioni possano lasciare il segno questo mi pare ovvio.

C'è chi, una volta superatele, reagisce con l'ansia di recuperare in fretta le soddisfazioni di cui non ha potuto godere e c'è chi, di contro, ne fa tesoro per un prosieguo di vita niente di più che dignitoso.

Non ho difficoltà ad ammettere che mi ritrovo tra questi ultimi, restio come sono agli eccessi della rinuncia o dello spreco, aperto soltanto ad una equilibrata visione di quell'essenziale che potrebbe, ai giorni nostri, non essere da tutti condiviso.

Il boom economico di questi tempi ha arricchito tante persone, forse troppe.  Il falegname è divenuto mobiliere; il muratore impresario edile; il proprietario di aree fabbricabili benestante con molti zeri in banca; il contadino emigrato sulla riviera adriatica albergatore o impresario turistico.  Gente che apprezzo per l'intelligenza, la laboriosità e quel pizzico di fantasia e di coraggio con cui è riuscita a salire i gradini della scala sociale.

Se c'è una cosa che mi da fastidio è il ruolo di coloro che, arricchendosi, hanno perduto il senso della misura costringendoci perfino a sopportare ville costose che lasciano intendere da lontano il gusto del pacchiano; arredamenti assurdi, auto di grossa cilindrata, gioielli e pellicce che non cancellano, nella gente, il ricordo dei calli nelle mani o della terra ai piedi.

Avendo ereditato null'altro che un podere sfìtto, una casetta in città e un bel gruzzolo di debiti per malattie e lutti in famiglia e non essendomi mai scostato da un modo di fare politica trasparente e perfino pignolo che non procaccia ricchezze ma soltanto decoro al vivere quotidiano, gli hobby sono rimasti quelli di ieri: la caccia, gli animali e il cavallo in particolare.

Se avessi avuto qualche lira in più forse l'avrei investita in mobili antichi. Anche per far contenta mia moglie contagiata spesso dalla febbre del tarlo.

La scuola elementare era ai Palazzoni, un vecchio e quadrato edifìcio sulla strada comunale per Urbino, a cavallo delle parrocchie di Girfalco e Monte Avorio. Cinque chilometri da compiersi a piedi, pioggia o neve, sfruttando scorciatoie che tagliavano il sovrastante monte di Ca Pacione. Mi era compagno di viaggio Gigi detto "Baruale" oggi trasferitosi in quello di Pieve di Cagna. Insegnante per quasi l'intero arco delle elementari la signora Maria Mariotti che ricordo con grande simpatia. Una madre oltre che un'ottima maestra; impegnata a prepararmi all'ammissione alla scuola media nonostante la mia non accentuata predisposizione allo studio.

Quando lasciavo il letto alle sei del mattino mio padre era già intento da oltre un'ora a dissodare il bosco che lambiva, lungo un costone, i filari del "campetto". Un lavoro massacrante nel quale era necessario alternare zappa, piccone e scure avendo anche cura di liberare le zolle dalle radici fittissime che le avvinghiavano in ogni senso.

Venti-trenta metri quadrati al giorno di terra recuperata alle colture, mentre zio Migno badava alla stalla sempre fornita di almeno due paia di vacche che nei mesi estivi alternava nell'aratura giovandosi del fresco del primo mattino.

La devastazione del bosco, il cosidetto "ranco" come allora veniva chiamato, costituiva un vero e proprio assillo

per la gente del nostro entroterra nell'assurda illusione di poter rapportare la produzione alle esigenze dei tempi. Le famiglie si erano infoltite anche per la campagna demografica intrapresa dal fascismo; il raccolto si rivelava sempre più inadeguato alle esigenze anche minime del vivere quotidiano; l'emigrazione stava tristemente avanzando su due fronti: verso le zone di pianura più produttive e meglio fornite di servizi e verso quei paesi europei che diverranno, nell'arco di pochi decenni, veri serbatoi di manodopera italiana.

Il rapporto di mezzadria era già in crisi e la figura del proprietario terriero finiva sempre più al centro di un contenzioso avente per oggetto le stime di riparto, i miglioramenti da apportare alla casa ancor priva di acqua potabile, di luce e di servizi igienici, l'acquisto dei concimi, il miglioramento delle strade che altro non erano che sentieri in terra battuta, l'acquisto di macchine agricole che costituivano novità di mercato quali la seminatrice e la trinciaforaggi a motore. L'odio verso il "padrone" rappresentava, forse, la sola nota stonata in un contesto sociale nel quale predominavano miseria, spirito di sacrifìcio, laboriosità, affetti, valori religiosi e morali e senso della famiglia. Un odio che ho direttamente riscontrato e perfino sofferto, che portava me stesso negli anni della prima fanciullezza, a vedere nel proprietario un privilegiato, l'essere di un altro pianeta del quale invidiavo la casa nuova, il calesse con cui viaggiava, le cose che dimostrava di conoscere, la catena d'oro al panciotto e le scarpe lucide.

Ben presto mi sono reso conto, però, che s'andava incontro ad un dramma che travalicava il caso singolo, che investiva il padrone non meno che il contadino.

Il rapporto di mezzadria aveva esaurito il suo ruolo a prescindere dal grado di sensibilità e di socialità di colui che era titolare del fondo. Aveva consentito l'espandersi massiccio della economia agricola e il superamento di drammatici momenti di carestia legati alle guerre, alle siccità, ai fenomeni naturali più avversi. Aveva garantito la sopravvivenza della città con il fabbisogno di farina, legna, carne e latte ed anche attenuato i suoi disagi ospitando sfollati, renitenti alla leva, ebrei, partigiani, sbandati e briganti.