Home
Varie

Maria Grazia Maiorino
la rosa e l'angelo  2011

La prima stagione è
l'inverno

 

La rosa e l’angelo. Note sulla mia scrittura poetica

 

Testo letto dalla Maiorino nell'incontro di Fonte Avellana del 2011

con una integrazione riguardante l’ultimo libro, La pietra salvata, che ha ricevuto il premio Camposampiero.

 

Mi piace introdurre questo breve intervento con le parole di Dietrich Bonhoeffer, da una lettera di Resistenza e resa: “Non c’è praticamente sensazione che renda più felici dell’intuire che rappresentiamo qualcosa per altre persone. In questo ciò che conta non è il numero ma l’intensità. Alla fine le relazioni interpersonali sono senz'altro la cosa più importante della vita… ma che cosa sono per me il libro, il quadro, la casa, la proprietà più belli, di fronte a mia moglie, ai miei genitori, al mio amico?... L’esserci-per-altri di Gesù è l’esperienza della trascendenza. Fede è il partecipare a questo essere di Gesù (incarnazione, croce, resurrezione).

Oggi rileggo queste parole con commozione considerandole una bella meta da raggiungere, ardua, ma la luce di questo faro è così intensa da gettare raggi di consapevolezza sul mio umile oscuro cammino, presente e passato, permettendomi di ridisegnare un intreccio nel quale ho sempre creduto: quello fra vita e letteratura. Credo che la mia scrittura poetica sia nata dal bisogno di cercare/trovare segni, simboli, sogni, colori, immagini che additassero la possibilità di trascendere e/o ricomporre la realtà.

Il primo libro è intitolato Ho trovato la rosa gialla: è una rosa vera, una rosa d’inverno a Portonovo; essa segna un momento cruciale, personale e storico – il distacco dal femminismo e dalla politica e l’inizio di un cammino interiore verso un’identità sofferta ma autentica, costruita non sull’adesione a slogan e a razionalizzazioni, ma sul contatto faticosamente ristabilito tra cuore e mente, tra sensazioni e ragione. La poesia ha accompagnato questo cammino, ha incarnato in figure a volte enigmatiche ciò che non poteva essere raccontato altrimenti; la poesia è lo spazio dove l’immaginazione lavora in tutta dignità e libertà, in un ambito in cui è autorizzata a farlo, secondo l’insegnamento di Gaston Bachelard, che me ne avrebbe dischiuso gli infiniti orizzonti, anche in relazione ai quattro elementi (e pensare che nel ’68 perfino leggere romanzi era “proibito”!).

Viaggio in Carso è il secondo titolo: Carso come luogo reale e come luogo simbolico, il mio fiume sotterraneo, l’ago della mia bussola che già indicava il nord, la terra della madre, della lingua, dell’origine, e anche dell’addio all’amore vissuto e rivissuto nel racconto di un ultimo viaggio. Mescolanza di versi e prosa, diario a più voci con inserti di autori amati che ispirano e accompagnano il cammino.

Nel terzo libro, Di marmo e d’aria, l’amore è già cantato in assenza e l’ispirazione sperimentata veramente come tale. Infatti non avrei mai immaginato che la poesia potesse soccorrermi nel momento della perdita più atroce; altre volte era sceso un silenzio impotente e chiuso anche sui miei quaderni, invece l’amore ha vinto la morte suggerendomi immagini, desideri, invocazioni, ricordi, tutto quanto poteva tessere un dialogo. La poesia ha dato forma a un altro spazio e a un altro tempo, dove anche il commiato potesse seguire modi più dolci, profondi e musicali. Con gli occhi di adesso vedo già l’atteggiamento della preghiera, più chiaro e consapevole nella raccolta intitolata I giardini del mare. Di una cosa sono certa: se non avessi avuto la possibilità di questo “esercizio spirituale” della scrittura, sfociato nel quarto libro di poesie e nel romanzo dedicato a mia madre, L’azzurro dei giorni scuri, non avrei potuto dare alla sofferenza anche il volto di una pacificazione, di un ritrovamento, proprio nel senso proustiano del termine.

Non a caso, pensando agli autori che sono i miei numi tutelari, in capo al corteo ci sono loro due, Marcel Proust e Virginia Woolf, che così profondamente hanno analizzato l’animo umano con parole di poesia, pur non essendo considerati poeti. E una terza ce n’è, a guidare quello che è in effetti un folto esercito – visto quanto bene mi ha donato la lettura fin da quando ero bambina – ,Emily Dickinson, poetessa americana dell’ ‘800, capace di parlare con il cielo come se fosse un vicino di casa e contemporaneamente arcana figura di assoluto. Da lei ho cercato di imparare semplicità, concisione, confidenza con gli astri, le montagne, il mare, la solitudine e perfino la morte, una poesia che si trasforma continuamente in orazione, in colloquio con il divino, e che si specchia negli esseri più piccoli e all’apparenza insignificanti; un alto pensiero poetante in metafore del femminile, dell’accoglienza e della bellezza. A lei si collega la mia genealogia di poeti angloamericani (quelli italiani fortunatamente facevano già parte dei miei studi scolastici), da Amy Lowell a Sylvia Plath, da Pound a Eliot a William Carlos Williams, da Edgar Lee Masters a Wallace Stevens e a Louise Gluck. Su questi due ultimi vorrei soffermarmi.

Stevens è stato una scoperta importante venuta dalla pratica dell’haiku e della meditazione zen. Nato in Pennsylvania nel 1879, visse quasi sempre nella città di Hartford, Connecticut, dove dirigeva una delle maggiori compagnie di assicurazioni americane. Il mondo come meditazione: ultime poesie 1950-1955 si intitola una sua raccolta, pubblicata da Adelphi, nel 1986, la prima che lessi, anni fa; il titolo, tratto da quello di una poesia, contiene una sintetica dichiarazione della poetica di Stevens: opporre alle frammentazioni e lacerazioni del nostro tempo la possibilità di una poesia della coscienza come mondo, additato attraverso illuminazioni ed enigmi destinati a rimanere tali; esplorato attraverso uno scandaglio durato tutta la vita, nutrito di letture bibliche, coerente, teso alla bellezza e alla spoliazione, all’osservazione della natura nei suoi elementi essenziali, e alla contemplazione dell’umano fino alla fascinazione degli aspetti angelici che possono irradiare da esso.

Ed ecco la poesia messa in esergo a I giardini del mare, alcune strofe da Angelo circondato da contadini. Una natura morta, in un quadro ricevuto in dono, ispira il poeta a scrivere questo monologo-risposta alla domanda che costituisce l’incipit del testo: C’è forse un benvenuto alla porta a cui nessuno viene? Così, in una specie di annunciazione laica, assistiamo all’apparizione di un angelo che è nello stesso tempo realtà incarnata e infinita possibilità, pronuncia sulla soglia dell’indicibile come acquee parole nell’onda L’angelo necessario, come qui viene chiamato, è anche il titolo dato da Stevens alla sua unica raccolta di saggi (ed è significativo che Massimo Cacciari intitoli un suo libro L’angelo necessario, proprio in omaggio al poeta americano, rivalutato da noi dopo il riflusso degli anni Ottanta). Egli ha rinunciato alla religione dei Padri Pellegrini, sbarcati nella Nuova Inghilterra nel 1620, ma con la stessa forza e fede nella parola ha fatto una “religione” del sentire, del vedere, e dell’essere, come afferma Massimo Bacigalupo nella bella Antologia da lui curata per le edizioni Einaudi, Harmonium (1994), dal titolo della prima raccolta di versi, pubblicata da Stevens all’età di 44 anni. L’harmonium evoca musicalità e sacralità, ma anche un’ atmosfera quasi domestica di piccole chiese di campagna; è uno strumento moderno che sta all’organo – osserva acutamente il critico – come l’America sta all’Europa.

Infine L’iris selvatico di Louise Gluck, considerata uno dei maggiori poeti americani contemporanei, uscito nel 1993 e per me lettura recentissima. Un giardino dove i fiori parlano direttamente con il poeta-giardiniere e alle loro voci si alternano la voce di Dio e quelle dei canti di vespri e mattutini: insomma anche qui una meditazione molto colloquiale con echi orientali che mi ha ricordato l’haiku di Momoko Kuroda: Sul monte ai fiori /dei mille alberi più alti / chiedete ai fiori.

Ho spesso pensato all’ultimo verso, chiedete ai fiori, come a un mio possibile titolo, tanto questa domanda mi è entrata nella mente e nella pelle. Dal tempo della rosa gialla sono passati più di vent’anni e mi sembra di non avere fatto altro che sfogliare quella rosa dai petali inesauribili, che ora riappare come Volto, volto marino e volto cancellato (è l’immagine che ho scelto per la copertina fra gi angeli donati da Raimondo Rossi e che ho accostato alla poesia I giardini del mare,). La rosa rifiorisce invisibile in fondo a un giardino ancora più vasto e simbolico, quello del mare, protagonista assoluto della seconda sezione del libro ma presente sempre, non solo come classica figura dell’inconscio e infinito orizzonte, ma anche come compagno, come fondale della memoria, come possibilità di ricomposizione, di ascolto e di preghiera. A condizione di mollare gli ormeggi, di abbandonare vecchie certezze, di accettare il mistero e di imparare a vivere sempre più profondamente l’eternità di ogni istante di pienezza e di vero incontro, nella gioia come nel dolore; l’unica eternità a noi concessa qui sulla terra. Empatia vissuta e raccontata con ogni essere, umano, vegetale, inorganico, affinando la capacità di cogliere il momento in cui avviene una “carezza” e una breve epifania illumina la scena.

Intanto si può dire che chiunque preghi si mette in attesa di qualche intervento diverso e superiore e in realtà si esprime con parole poetiche, con dei motivi poetici che generalmente sono offerti per noi dalla grande tradizione cristiana  …  La poesia, quando è poesia di un vero poeta, non può che dare mano a trasformare la preghiera in una forma che è di tutti. Ecco perché il grande libro della poesia del nostro secolo, come del resto di tutti i secoli passati, è sempre una poesia che non si sottrae alle domande eterne dell’uomo.(Carlo Bo nel saggio Poesia e preghiera del 1992, ripubblicato nel recente volumetto del Premio di Poesia religiosa di Sassoferrato). Il discorso poetico, che si piega naturalmente verso la preghiera, e viene infatti definito come verticale rispetto all’orizzontalità della prosa, può rimanere in un territorio del tutto laico o può venarsi di fede, essere attratto dal sacro, dai riti, dalle figure, dai dogmi che appartengono alla religione; può diventare poesia religiosa, mistica, invocazione, lode, supplica, parola che sempre più sfida l’ineffabile e la trascendenza. Per quanto riguarda me posso concludere dicendo che finora la poesia è stata la mia fede - spero che in futuro possa nascere la poesia della mia fede.

 

Aggiungo a questo scritto, dopo dieci anni, un cenno al libro successivo edito nel 1916: ha un titolo emblematico, La pietra salvata, e credo abbia realizzato la mia speranza riguardo al cammino spirituale, portandomi anche fisicamente nei luoghi dei pellegrini, la Terra Santa e Lourdes, ma soprattutto testimoniando l’approfondimento ulteriore di una spiritualità volta sempre di più alla ricerca di un legame, nel senso più ampio del termine, tra la terra e il cielo. Ho partecipato a un solo premio, Il prestigioso Premio di Poesia Religiosa di Camposampiero, ed. 2018, dedicato a David Maria Turoldo, che è stato per tanti anni presidente della giuria, e sono entrata nella terna dei finalisti. Questa la motivazione, letta durante la cerimonia, che si è tenuta nell’auditorium dei Santuari Antoniani a Camposampiero (PD) dalla scrittrice Antonia Arslan, l’attuale presidente della giuria:

“Un’aspirazione alla bellezza che si rivela come una forza intimamente religiosa percorre come una corrente veloce, e dà sotterranea unità a ogni paesaggio, ogni figura, ogni tappa, di questo libro

interessante e stimolante, che appare davvero – fin dal titolo e dalla splendida copertina, che riproduce una “croce di pietra” medievale armena incisa come un ricamo nella pietra, dal simbolo circolare dell’universo su su fino alla Crocifissione – come una riflessione sulla vita, sulla morte, sul divino.

Una riflessione unificata e resa poesia da uno sguardo di ferma, consapevole saggezza. Paesaggi, fiori, persone, città vengono attraversati da una forte tensione creativa e si riflettono in una parola poetica connotata da un timbro e da un ritmo segreto di malinconia diffusa, che ogni tanto si accende in luminosi colori, come improvvisi slanci di affettuosa adesione al mondo creato e di ricerca di Dio.

Ogni sezione del testo contribuisce a tracciare l’itinerario di questo percorso verso la “pietra salvata”: partendo dalle occasioni di scrittura estemporanee di un blog l’autrice si addentra in fulminei ricordi delle sue tante patrie (come l’appartata piazzetta si Santa Maria dei Battuti a Belluno), disegna nell’aria una serie di eleganti haiku cui dà un titolo importante (Come un perdono), e approda al Viaggio in Terrasanta e alla mistica Gerusalemme, “Madre delle madri – approdo degli approdi / esilio degli esili – croce delle croci / ancorata sul Monte e ogni volta disfatta / come una tenda dei patriarchi”.

Maria Grazia Maiorino                         
Monastero della Croce                         
Fonte Avellana(PU), 6-8 luglio 2011   

 

Home
Varie

Maria Grazia Maiorino
la rosa e l'angelo  2011

La prima stagione è
l'inverno