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Maria Grazia Maiorino:
il sogno di angiolino

 


 

Stampato in proprio, Ancona, Aprile 2022

 

Disegno di copertina a punta penna di
Raimondo Rossi

 

Classificato 1° ex aequo per il Racconto inedito allo Zirè d'Oro L'Aquila, 2021 

 

 

 

Il sogno di Angiolino

Ai lontani e ai vicini

 

Era una cosa insolita per lei, socia Coop, trovarsi nell’altro grande supermercato del quartiere, la Conad. Quel giorno ci era andata solo per comprare il pesce, collocazione dei prodotti e commessi non le erano familiari, ma il ragazzo che serviva al banco attirò la sua attenzione. Girato di spalle, puliva pazientemente un mucchietto di alici, aprendole a una a una per spinarle. Lo osservava senza fretta, saltò il suo turno, la commessa che serviva insieme a lui passò al cliente successivo, e lei aspettò. Già un’altra volta si era accorta del modo di fare speciale del ragazzo e forse era ritornata proprio per questo.

Non saprebbe dire come cominciò il suo discorso, era ancora girato un po’ di spalle, intento a lavare le alici spinate, forse aveva cominciato a raccontare qualcosa alla signora accanto a lei. Sono vent’anni che faccio questo lavoro, mi piace, ho imparato molto, ho un posto sicuro, so che di questi tempi è una cosa preziosa. Infatti mi dicono che sono un pazzo. Ma io ho deciso di licenziarmi e non cambio idea. Lavorerò qui fino alla fine di marzo e poi …

La domanda le venne spontanea, anche se ormai la cliente se ne era andata con la sua vaschetta di alici, si sentiva autorizzata da quella calma gentilezza del ragazzo, in realtà un uomo adulto ormai, fra i trenta e i quarant’anni, forse più vicino ai quaranta.

Che lavoro vuol fare? Andrò a lavorare in un ristorante, disse, come cuoco. E’un lavoro duro, molto impegnativo, le conviene? E lui aggiunse: mi assumono con l’incarico di chef! Sì, è stato sempre il mio grande desiderio, fare un lavoro che mi permetta di esprimere la mia creatività, insomma di crescere e avere altre soddisfazioni. E alla fine vorrei aprire un ristorante tutto mio, senza più dipendere da nessuno. E’ questo il mio sogno più grande.

 Sorrideva il futuro chef, tagliando perfettamente la fetta di salmone che doveva essere sottile, secondo la raccomandazione della vecchia signora. Ricorda che le aveva dato una ricetta per il pesce spada, se per caso voleva provarlo, per cambiare, l’aveva quasi convinta. La prossima volta, disse, prometto che proverò la sua ricetta, arrivederci. Gli auguri erano sottintesi, ma glieli avrebbe fatti ufficialmente fra un mese e mezzo.

E invece non l’ha più rivisto da allora. Non passarono due settimane che si trovò blindata a casa. All’inizio era epidemia, sembrava già una parola grossa, e nel giro di poche settimane diventò pandemia. Le vecchie signore come lei si fanno portare la spesa a domicilio, perduti i contatti con la Coop che non organizza questo servizio, il pesce fresco è dimenticato anche se si vive in una città di mare, e tutto il resto …

Che ne sarà del ragazzo Conad? Lo chiamerà Angiolino, un nome portafortuna. Che ne sarà della sua voglia di rischiare, della vita nuova e creativa che sognava? Lei ricorda bene l’energia di quell’età, tutte le cose che riusciva a fare contemporaneamente, i viaggi, i progetti, l’orizzonte aperto degli anni. Ma sì, Angiolino è giovane, non gli mancano entusiasmo e passione, qualcosa si inventerà, anche se ha scelto il momento peggiore per licenziarsi. E se si fosse tirato indietro all’ultimo momento? E’ possibile?

La vecchia signora non se ne intende di burocrazia, sono altre le cose che le suggerisce il suo cuore. Poche dolci abitudini alle quali restare abbarbicata, i sogni, per esempio, quelli se li è sempre tenuti cari. Nei primi tempi dell’epidemia ha avuto paura che non tornassero più i sogni meravigliosi che l’avevano sempre consolata, temeva che si trasformassero in incubi o che il sonno diventasse solo uno scorrere intermittente di ore senza memoria e brevi risvegli.

Poi, piano piano, è stato come se il passato si prendesse la sua rivincita su quella vita nuova così triste. E’ riapparso l’aperto, azzurro e verde, acqua, prati, cieli. Il mare sotto le rupi del Passetto, visto dall’ascensore, ma come in una prospettiva ravvicinata, con le persone che si godevano il bagno e si potevano distinguere una per una.

E in un ‘altra sequenza di sogno lei cercava di arrampicarsi sul ciglio ripido di una strada fuori città e un suo amico più anziano, con tutti i capelli bianchi, che era già in cima, dritto in piedi senza paura, la incoraggiava a salire. Da lassù riusciva a vedere una valle tra le colline, acque raccolte in pozze naturali e isolotti, fra l’esotico e il consueto, e uomini al lavoro, anche qui non erano dei puntini, entravano in uno sguardo rasente, a volo d’uccello. Lei non aveva il coraggio di alzarsi in piedi, come il suo amico, e di sporgersi nel vuoto, e intanto si svegliava.

Duravano però la bellezza e la pace di quelle due visioni. Una dietro l’altra. Rimaste impresse nella memoria come accadeva prima. Sogni terapeutici in libertà: torneranno a sorprenderla, chiamati dal desiderio, ne è sicura.

  

Sono passati quattro mesi dal nostro incontro, Angiolino, e ieri sono ritornata alla Conad per chiedere tue notizie, forse anche con la segreta speranza di ritrovarti al tuo posto, ma il niente sarà più come prima non è soltanto un modo di dire, quasi uno slogan, simile al tutto andrà bene della Fase 1, che a me non è mai piaciuto. Lo slogan assomiglia a un abito confezionato, una sola taglia che tutti indossano senza andare troppo per il sottile.

Il niente sarà più come prima in fondo è vero, da qualsiasi parte lo si consideri. Non c’era nessuno dietro il banco del pesce fresco, poi è arrivata una commessa del reparto macelleria. Ho ordinato il solito trancio di salmone e poi ho chiesto timidamente del giovane che voleva licenziarsi….

Gli occhi della commessa si sono fatti scuri sopra la mascherina. E’ andata male, ha detto, e poi ha aggiunto che hai trovato lavoro in un altro supermercato, senza precisare dove. Ho commentato io, pronunciando qualche frase prevedibile sul disastro economico che il nostro paese sta attraversando, e sulle difficoltà in particolare nel settore della ristorazione. Un momento più sbagliato non poteva esserci.

Gli auguro in cuor mio un po’ di fortuna, ho aggiunto ad alta voce accomiatandomi, ma la mia voce ha un timbro grave e gli altri non sempre sentono bene quello che dico. Ora che bisogna portare la mascherina mi sono abituata a ripetere, una fatica in più. La commessa ha interpretato “gli àuguri” un po’ di fortuna e ha risposto: glielo dirò, lo vedo spesso, siamo amici… Me ne sono andata con quell’appiglio non cercato, “siamo amici”, forse potrò ancora farle qualche domanda la prossima volta.

Mi accorgo che continuo a sorridere sotto la mascherina, sai, è più forte di me, come in quel momento. Vorrei farti un po’ di coraggio per aiutarti ad accettare serenamente, almeno in questa fase (si chiama Fase 3, mi pare, o forse ho già perso il conto?), il ritorno al tuo vecchio lavoro. Continua a sognare, Angiolino, a sognare contro ogni scoraggiamento. Il tuo lavoro è importante e la gentilezza viene molto apprezzata, soprattutto dalle vecchie signore come me.

Dopo molte incertezze, ho smesso di farmi portare la spesa a domicilio e sono ritornata alla COOP. Adesso si fa la fila davanti all’ingresso, all’inizio vedevo la fila e andavo via, poi ho provato e ho visto che l’attesa non era troppo lunga. Le commesse erano al loro posto, quasi tutte donne, comprese le cassiere, protette da una barriera di plexiglas. Sono stata contenta di rivederle, in particolare quelle che mi sono più simpatiche perché hanno quel “di più” di cura e gentilezza, sì, quelle che ti assomigliano. Ho scoperto che mi erano mancate anche loro, ormai fanno parte della mia normalità, come gli amici a poco a poco ritrovati, ci si riconosce dietro le mascherine, saluti veloci, una battuta, non si fanno più le chiacchierate di prima. Si tengono le distanze, la voce dell’altoparlante ripete le regole, ma non tutti le rispettano, qualche volta bisogna difendersi da chi ti viene troppo vicino, si fanno giri strani tra gli scaffali e si sformano di nuovo le file alle casse.

  

Angiolino, mi piacerebbe tanto sapere di te. Fidanzato? Sposato? Figli? Un quarantenne ancora pronto a rivoluzionare la sua vita? Ho visto una trasmissione televisiva, sere fa, dedicata a Giuliana di Norwich, una mistica inglese vissuta nel Trecento. E’ lei l’autrice del motto trasformato in slogan al quale ti ho accennato: all shall be well. Tradotto suona in modo diverso, tutto sarà bene, e già così mi piace di più. Insomma posso finalmente fare mie queste parole, scordando l’irritazione provata quando lessi per la prima volta in un whatsapp quel tutto andrà bene come se fosse una presa in giro in pieno lockdown.

Giuliana era una giovane donna che, dopo aver attraversato un’epidemia di peste, e aver perduto tutti i propri cari, e dopo essere stata lei stessa in punto di morte, si fece eremita continuando a vivere a Norwich nella clausura di una piccola cella addossata alla cattedrale, dove era a disposizione di chiunque volesse affidarsi all’aiuto delle sue parole. Esse sono arrivate fino a noi in forma di Rivelazioni, ricevute quando credeva fosse arrivata la sua ultima ora. Parole che hanno attraversato avventurosamente i secoli, che sovrastano le nostre angosce mortali e ci invitano a sognare in grande e a pregare, confidando nell’invisibile che si muove in filigrana nelle nostre vite. Il significato profondo del motto all shall be well forse si cela in quel verbo “essere” che trasforma quelle semplici parole nel tassello di un disegno molto più grande.

La televisione l’accendo solo di sera, sai, durante il giorno mi fa tanta compagnia la radio. Radiosa entrò la radio, mi torna in mente la sorpresa di quell’imprevisto radiosa. Era il titolo di un breve racconto, che celebrava l’ingresso trionfale della radio nelle stanze prima silenziose delle nostre case, forse un foglio di giornale conservato da qualche parte. Ancora oggi grazie a lei mi alleno nell’ascolto e perfino nel riconoscimento delle voci, forse un po’ mi avvicino alla filigrana delle presenze invisibili, continuando a viaggiare nello spazio e nel tempo, in fondo l’ho sempre fatto in mille modi.

E così ho scoperto anche gli expat. Non conoscevo questa parola, è inglese, ma anche un po’ latina. Gli expat sono persone che hanno lasciato il loro paese per andare a lavorare all’estero, italiani in questo caso, giovani, uomini, donne, famiglie con bambini, e meno giovani. Ognuno spiega le sue ragioni, sono ragioni di lavoro per lo più, ma non solo quelle. Vogliono conoscere posti nuovi, uscire dalle gabbie di relazioni insoddisfacenti, si sentono estranei nei condomini delle grandi città, per le solite strade dove tutto sembra prevedibile e noioso.

Sono coraggiosi gli expat, accettano il rischio, anche loro hanno dovuto affrontare quarantene simili alle nostre o diverse, c’è chi ha avuto più spazi di libertà rispetto a noi e chi si è sentito più solo durante il confinamento e si è attaccato a tutti i mezzi tecnologici possibili. Nessuno ha perso la speranza, dall’Australia alla California, dall’Irlanda alla Cina, andranno avanti, sono un esercito, sono collegati, sono i figli delle mie amiche, sono le nonne volanti che vanno e vengono, attraversano aeroporti, prendono voli charter, cercano di imparare un’altra lingua.

Alcune di loro si sono fatte all’estero il lockdown, ora me lo raccontano al mare, l’unico posto dove riusciamo a respirare e a sentirci libere, soprattutto in acqua. Vai Angiolino, non ti fermare, ti vedo in questo bivio, il posto fisso e il volo, un ristorantino all’italiana a Sidney o un’altra inimmaginabile occasione. E tutto sarà bene, all shall be well, come il verso ripetuto, insistente, di uno spiritual diventato canzone di lotta, che si cantava tutti insieme da un capo all’altro del mondo e ha ancora la voce luminosa e il volto sempre giovane di Joan Baez.

 Maria Grazia Maiorino

 

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